NEOUMANESIMO

il movimento di conquista della più alta dimensione umana

 

GLI ANTEFATTI

I Greci e i Romani avevano avuto dell’uomo un’altissima considerazione, facendone il centro ed il perno dell’universo ed a lui commisurando ogni cosa. Perfino gli dei erano stati concepiti in funzione dell’uomo, tanto che erano stati da lui creati a sua immagine e somiglianza: dominati dalle passioni, essi amavano, odiavano, si adiravano, guerreggiavano, dividendosi i poteri sulle forze della natura e godendo dell’immortalità, eterna ed irraggiungibile aspirazione umana.

        Dell’uomo venivano esaltate le migliori e più schiette peculiarità: la bellezza, l’intelligenza, la forza; della vita si amavano gli aspetti positivi e piacevoli. Ancora non esisteva lo sconvolgente conflitto che sarebbe derivato dal porsi di una insormontabile distanza tra il mondo reale e quello metafisico: il fatto che la sfera divina era una proiezione di quella umana, metteva al riparo l’uomo dai profondi contrasti interiori. Anche il concetto di colpa era legato alla violazione di una legge naturale, più che divina, come dimostra in modo palese la tragedia greca, dove i peccati sono l’infedeltà coniugale, l’incesto, il matricidio, il parricidio, l’uxoricidio, e lo scopo della rappresentazione è catartico. Altrettanto evidente è l’importanza che l’uomo ha sul proprio destino. Come emerge dalla tragedia di Eschilo, in cui, nonostante la presenza di un dio che aiuta oppure abbatte, la forza negativa contro la quale non è possibile lottare si sprigiona dall’intimo dell’uomo, che agisce e paga per generazioni le conseguenze del suo misfatto; o da quella di Sofocle, dove sono gli uomini, che lottano contro la violenza dell’istinto, gli artefici del proprio successo o della sconfitta.

        Concezione, dunque, la classica, che ruota intorno ad un protagonista assoluto: l’essere umano, nel supremo rifulgere delle sue qualità e nel pieno esprimersi delle sue risorse.

        Il tramonto non ancora logorava lo splendore dell’era classica quando la predicazione della Buona Novella sparse al vento i semi di una rivoluzionaria visione dell’uomo e della vita che avrebbe sovvertito il rapporto tra l’immanenza e la trascendenza, approfondendone infinitamente il divario. Il Dio inaccessibile dei cristiani, origine e cardine dell’universo e della vita, sembrava sprofondare l’uomo in una condizione umilissima e servile di dipendenza, inevitabile effetto di un atto di ribellione verso chi magnanimamente gli aveva concesso il dono dell’esistenza, creandolo dal nulla, e per di più “a sua immagine e somiglianza”. Condannato ad un inguaribile senso di colpa, gravato del fardello spregevole e fragile di un corpo mortale, lo spirito umano, latente frammento della natura divina, vacillò disorientato, al punto da travisare lo stesso messaggio evangelico. Nel terreno del Medioevo, reso più che mai fertile dai rivolgimenti storici che avevano determinato il crollo dell’Impero Romano d’Occidente ed il deterioramento delle condizioni politiche, economiche e sociali nei vecchi territori di Roma, si sviluppò un rigido sistema teocentrico, il quale relegò l’essere umano ai margini, generando in lui un profondo senso di sfiducia nelle proprie facoltà ed inducendolo all’abbandono progressivo di tutto ciò che non fosse finalizzato alla purificazione dell’anima ed alla sua salvezza. Sdoppiato nel suo essere dalla consapevolezza di una duplice natura, l’una concreta, tangibile, ma perversa e deplorevole, l’altra astratta, inafferrabile, ma sublime, egli sperimentò per la prima volta la lotta interiore, che affligge l’animo e lo prostra, derubandolo della serenità e della gioia di vivere. Non considerava, l’uomo, che l’altissima discendenza gli garantiva un pregio capace di riscattare la viltà delle qualità e delle tendenze più basse.

        In tal modo si consumavano nell’equivoco secoli di storia, in un sopore da cui solo al mutare dei venti sarebbe riemersa un’umanità protagonista, sulla recuperata rotta del progresso.

        Il più stabile assetto politico del continente europeo, conseguente allo stanziamento definitivo delle popolazioni nomadi ed all’indebolimento dell’egemonia araba nel Mediterraneo, la più sicura viabilità, le migliorate condizioni igienico-sanitarie, le coincidenze climatiche favorevoli alla produzione agricola, l’incremento demografico, avevano avviato intorno al Mille una graduale ripresa economica. Il risveglio del commercio lungo i percorsi di mare e di terra aveva lentamente ridato vita ai mercati cittadini, riportando verso i centri urbani quella parte delle masse rurali che, in tempi di precario equilibrio politico, aveva cercato rifugio nella protezione dei feudatari. Le popolazioni contadine lentamente si svincolavano dalla servitù della gleba, ponendo finalmente un limite all’arbitrio dei signori.

        È su queste mutate basi materiali che l’uomo recupera una schietta coscienza della propria dimensione, riaffacciandosi con nuovo interesse sulle accantonate espressioni e sulle trascurate potenzialità della sua natura, riconquistando il gusto stesso dell’esistenza. L’Umanesimo, inteso come culto della civiltà classica e degli ideali da essa imposti, fonda la sua ragione d’essere su un’ideologia dell’uomo, su un “umanesimo”, appunto, che è esaltazione del valore e della dignità dell’essere umano e da cui il primo consegue. La fervida curiosità che spinge i dotti del Quattrocento alle fonti greco-latine, è infatti solo una naturale emanazione della riemersa fiducia nelle qualità umane, scandisce l’esigenza di approfondire le ragioni di un sentimento rifiorente, di motivarne il senso nei luminosi frutti di una civiltà incondizionatamente antropocentrica. L’Umanista è comunque, sotto ogni aspetto, un “homo novus”: non un moderno privo d’immaginazione che indossa passivamente abiti antichi, ma un archeologo sensibile che cerca l’incontro fecondo con il passato, da cui lo separa un’ombra di secoli assopiti. È un homo novus perché non scavalca un millennio riproponendo inalterati i modelli di una civiltà estinta, ma perché quei modelli, filtrati nel secolare letargo, egli sa contrapporre alla rigida visione teocentrica medievale, in un confronto dinamico capace di superare il contrasto e di fondere gli antitetici presupposti ideologici. Il classicismo umanistico, insomma, non ha i tratti caratteristici del paganesimo.

        Certo è che un’accesa euforia invade l’uomo, il quale sembra ansioso di riscattare un tanto lungo ed irrazionale torpore e pone a fondamento della nuova era una forte aspira-zione al senso critico, concependo la verità non come dato immutabilmente acquisito, ma come un’umana conquista che perennemente si rinnova; considerando la storia non come il prodotto di una volontà trascendente, ma come il risultato dell’intelligenza e dell’energia umane, per quanto il costante aleggiare dell’imponderabile fortuna non estingua la consapevolezza dell’insufficienza, “della presenza dell’indeterminato e dell’indetermina-bile nella realtà umana” [1].

        Il Rinascimento segna la più alta realizzazione degli ideali affermatisi nel periodo umanistico e nel medesimo tempo ne decreta il logoramento. È la forza stessa della propulsione verso l’affrancamento che nasconde in sé il rischio di Icaro: quando l’uomo si spinge di là dagli argini della propria natura, sconta la sua supponenza fino a morirne. Talvolta può divenire opportuno negarsi “…l’esperïenza / di retro al sol, del mondo sanza gente”, il viaggio oltre i limiti per una velleitaria sete di conoscenza che non può avere altro destino se non quello dell’Ulisse dantesco. Così il grido luterano di ribellione al dogma ed alle gerarchie naufraga nell’intollerante reazione della cosiddetta Controriforma, che risospinge l’uomo nel passato, in lui rigenerando l’inquietudine del conflitto e il sentimento del peccato. L’entusiasmo ridente del più fervido Rinascimento si contrae nella mimica del dubbio, stride nei sensi di colpa, che riaffiorano, di fronte all’occhio inclemente dell’Inquisizione, come da un resuscitato Medioevo. Del resto il pensiero di Lutero, nella sua malcelata contraddizione, porta in sé i germi dell’esaurimento della civiltà luminosa delle Signorie, affiancando al desiderio di rinnovamento religioso, all’ansia di rinascita, al bisogno di rigenerazione, un rivoluzionario ed eversivo principio di “ritorno alle origini” che non è più l’umanistico e palingenetico protendersi alle fonti del pensiero e dell’arte, ma una rottura decisa con la tradizione e con i suoi interpreti, (a cominciare dal “maledetto, presuntuoso ed astuto idolatra” di Aristotele, che osa asserire nel De anima che l’anima muore con il corpo), in forza dell’assunto che svuota l’importanza ed il ruolo della ragione umana, affidando la salvezza interamente alla fede [2].

        La storia non ha però tracce di sabbia, che la prima onda pareggia, e le conquiste conseguite non hanno riflussi irreversibili: premono, anzi, come incoercibili spinte, fino a riguadagnare con pienezza spazio e legittimità per un attimo smarriti.

        Sicché il rifiuto del filosofo “idolatra”, che nel pensiero Luterano sembra sfiorare i connotati di un barbaro rinnegamento, assume nella speculazione galileiana i caratteri del superamento di uno stallo [3] e del pieno riconoscimento del valore della ratio, al cui vaglio la conoscenza non potrà più sottrarsi.

        Il periodo della “rivoluzione scientifica” [4] porta a un profondo mutamento dell’immagine del mondo. Al crollo della concezione geocentrica l’uomo viene sbalzato dal cuore dell’universo, i cui confini, squarciati dal pensiero di Bruno verso limiti infiniti, esigono perfino una nuova dimora per la divinità. Le “sensate esperienze” e le “necessarie dimostrazioni” [5] del metodo galileiano mutano radicalmente l’idea di sapere, e la scienza, descrizione vera della realtà, reclama la propria autonomia nei confronti della fede, avendo quella il compito di informarci sul mondo e questa di dare un senso alla vita degli uomini.

        È la feconda ouverture della non lontana era dei Lumi.

        Preludio che, nel contraddittorio Seicento, muove tuttavia passi ancora incerti, per quanto rischiarato dalle intelligenze luminose di Copernico e di Keplero, di Cartesio e di Bacone, di Newton e di Galilei, non riuscendo a scrollarsi dall’intralcio della tradizione mistica, magica, ermetica [6] ed occultistica, né tantomeno sottraendosi alla superstizione: sicché mentre il cannocchiale acuisce la profondità e l’acutezza dell’occhio umano schiudendo impensabili itinerari alla scienza, c’è chi ancora crede nel taumaturgico potere delle vesti regali e nell’infernale sortilegio delle streghe. Quasi un prolungarsi della servitù della mente nel rigurgito medievale post-tridentino, a specchio di una schiavitù politica che fissa il prezzo inevitabile della debolezza del particolarismo cinquecentesco, capace di esprimere, proprio nell’antagonismo, una fertilità irripetibile sul piano delle arti.

        Non che il secolo XVII° manchi di potenza espressiva, o di varietà.

        Accanto all’importanza delle conquiste scientifiche non è difficile infatti esaltare la qualità delle creazioni nel campo delle arti figurative e della musica, anche se è certamente problematico dar valore alla produzione letteraria del Seicento qualora, acriticamente, si faccia uso del solo parametro estetico. Appare invece evidente all’osservatore più attento l’importanza storica ed artistica dell’assoluta novità che la letteratura barocca propone, puntando su inusitate soluzioni formali che costituiranno il cardine di gran parte delle opere degli scrittori dei secoli successivi.

        Certo la bellezza langue, perché paradossalmente ogni paura è in balìa dell’oggetto che teme, e l’orrore del vuoto finisce nelle braccia del vuoto. Sul finire del secolo, nell’intento di “esterminare il cattivo gusto” instaurato dalla poetica della meraviglia, e nel desiderio “che la verità e le notizie e le ragioni delle cose si lascino vedere in abito non sordido… ma con gli ornamenti che si convengono alla lor dignità” (come scriveva il Muratori nelle sue Riflessioni sopra il buon gusto), nasce l’Arcadia, che se alla Letteratura spesso non sa dare che leziosità, galanteria, zucchero, alla storia consegna un genuino tentativo di reazione alla falsità espressiva – che è anche reazione alla falsità della vita -, lo sforzo di raggiungere un’arte non solo più elegante, ma anche più vera e più utile. “Così che l’antibarocchismo arcadico fu soltanto un aspetto di quel moto generale degli spiriti che tendeva a rinnovare, sotto l’impulso del razionalismo, non soltanto la poesia, ma tutto il campo degli studi” (Menetti).

        La peculiarità del Seicento sta dunque soprattutto nell’essersi opposto, in campo scientifico, filosofico e letterario all’ottusità peripatetica e all’aristotelismo, aprendo così la strada alle ragioni della Ragione che avrebbero sgombrato il terreno da ogni incertezza, ma anche creato un uomo a metà, estratto dalla sua perfetta simbiosi di animale razioci-nante, irrazionalità e logica, e ridotto a pura luce pensante.

        Sta di fatto che solo reazioni estreme possono liberarsi definitivamente di soffocanti retaggi di secoli, e certo la dotta e intraprendente classe borghese non avrebbe potuto continuare ad indossare i panni dei persistenti residui medievali, indulgere al clericalismo, ricalcare insomma la storia. Sicché, quando il pensiero di Locke, avverso all’assolutismo e aperto alla tolleranza e alla libertà religiosa, si irradia dall’Inghilterra al fertile terreno francese, ne scaturisce una rivolta sul piano religioso, economico e politico, destinata a lasciare segni indelebili sulla cultura europea.

        La borghesia è nel ‘700 “il soggetto del progresso. Benché il possesso della terra sia un’importante fonte di ricchezza, l’artigianato si va decisamente trasformando in industria e la scienza e la tecnologia appaiono realizzare il sogno di Bacone della trasformazione del mondo a servizio dell’uomo” [7]. In Francia l’assolutismo, obsoleto e statico, detiene stancamente il potere politico, incapace di aprirsi alla spinta inarrestabile delle nuove forze economiche che ne reclamano la condivisione e che useranno le idee nascenti come espedienti distruttivi contro i privilegi feudali della nobiltà e del clero.

        “Alla base delle ideologie settecentesche sta una fede illimitata nella ragione umana, unica detentrice della verità, ed unica reggitrice della convivenza  civile. L’uomo cessa di indagare sul mistero della propria origine e del proprio destino, né si preoccupa più di armonizzare la sua condotta con alcun principio religioso, perché la religione è considerata superstizione, ed ignoranza o fanatismo è reputato il sentimento che la origina: alla religione tradizionale delle Chiese si contrappone ora una religione naturale, o deismo [8], che propugna il ritorno al primitivo stato di natura in quanto conforme alla ragione; in un secondo momento, e precisamente nella seconda metà del secolo, si avanza un’interpre-tazione ateistica e materialistica della realtà (materialismo meccanicistico).

        Scomparsa la visione del trascendente, a fondamento della morale e del diritto rimane solo la natura stessa dell’uomo, assolutamente libera ed eguale in ogni tempo: è stata la società a vincolarlo in una secolare schiavitù con le divisioni di classi e di privilegio, con la limitazione dei suoi diritti, con l’artificiosa creazione di sovrastrutture che ne soffocano la libera espressione di pensiero e di coscienza; creata dall’uomo su basi “contrattuali” per promuoverne lo sviluppo intellettuale ed economico, essa è venuta meno al compito affidatole e minaccia di travolgere il suo stesso creatore, cioè l’uomo.

        Si impone quindi la restituzione all’uomo dei propri diritti (libertà, proprietà, sicurezza) e  della propria dignità (leggi uguali per tutti) perché possa riorganizzare su basi nuove il suo vivere civile.

        In virtù di questi presupposti, tutto il passato assume l’aspetto di una lunga età di oscurantismo e di aberrazione, integralmente dominata da due forze tiranniche, quella politica dei prìncipi e quella spirituale della religione. Ad una mentalità storicisticache assegnava agli avvenimenti una loro positiva e costante ragion d’essere e li inquadrava in un ideale e perenne progresso delle forze umane, si contrappone ora una mentalità antistoricistica, per la quale ogni fatto storico non è che l’anello di una lunga ed interminabile catena di errori che hanno portato l’uomo, da un originario stato di purezza, alla più completa decadenza.

        Occorre pertanto procedere, così si pensa, ad una spregiudicata critica di tutte le istituzioni presenti e passate, sia nel campo temporale che spirituale, al fine di avviare una reale e definitiva felicità terrena.

        Conseguenza diretta di questa nuova impostazione del problema storico-filosofico è l’esaltazione di ogni forma di civiltà primitiva, immune da superstizioni e travisamenti dottrinali; conseguenze indirette, oltre al diffuso ottimismo che investe tutti i fautori di un avvenire migliore, sono il filantropismo e il cosmopolitismo: l’uomo si sente ora attratto verso il suo simile da un nuovo spirito di fratellanza che riposa sull’amore razionale, anzi che divino, e sulla comunanza dei diritti ed uguaglianza dei privilegi, anziché sulla universale legge del dolore e della redenzione; la patria, pur sopravvivendo come entità politica, amplia i suoi confini sino ad abbracciare i confini stessi del mondo, patria non più del singolo individuo, ma dell’intera umanità” [9].

        La Rivoluzione francese contemporaneamente segna il necessario eccesso dell’anelito razionalistico e la rivalsa dell’uomo intero, cui proprio l’impietosa luce dei “lumi” risvela l’indole belluina.

        Ed oltre, il parto illegittimo dello spirito rivoluzionario ricongiunge idealmente i propri passi a quelli dei legionari romani, ne abbraccia le insegne, ripropone il progetto di un impero universale, a danno di ogni decantato diritto di indipendenza e di autonomia, e in forza di un’aberrante interpretazione del principio cosmopolìta, per cui il mondo sarebbe divenuto la patria di tutti gli uomini come conseguenza del disegno egemonico di un uomo solo. Napoleone tradisce in pieno le promesse e le aspettative della Dea Ragione e ne addita le pieghe dell’utopia, e con lui quanti si sforzano di trascinare indietro la storia, con il Congresso di Vienna, il Principio di Legittimità, la Restaurazione, la Santa Alleanza.

        Un così vistoso tradimento non poteva che accelerare un ripensamento già in corso, avviato in Germania dallo Sturm un Drang (prima ancora che i sanculotti dessero l’assalto all’Ancient Regime), per dare riscatto alle ragioni del sentimento, che l’Illuminismo aveva voluto ignorare.

        L’impeto tempestoso degli Stürmer, disordinato e caotico, nello stile veemente dei movimenti di ribellione, non è l’unico focolaio di rivolta contro il culto della Ragione. In realtà all’interno stesso della corrente illuministica si erano sviluppate diramazioni spurie, tendenti a riaffermare nella sostanza l’inscindibilità della sfera sentimentale da quella razionale: se perfino il più grande pensatore del Settecento, Jean-Jacques Rousseau, è stato considerato da alcuni “il teorico del sentimento interiore come unica guida nella vita e da altri il difensore dell’assorbimento totale dell’individuo nella vita sociale” [10]; e se in pieno Illuminismo Johann Winckelmann poté affermare che “l’unica via per divenire grandi e, se possibile, inimitabili, è l’imitazione degli antichi”.

        Il movimento neoclassico che si sviluppa come spontaneo ripiegamento sui valori della tradizione al crollo dei miti settecenteschi, ha già accenti preromantici e trova i presupposti ideologici nella passione dell’archeologo tedesco per il mondo dei Greci e addirittura nello stesso amore napoleonico per la romanità; anche se rispetto al secolo precedente si è di fronte “ad una nuova interpretazione della classicità, in quanto si tende ad estrinsecare in forma misurata ed armonica, in vaghezza di immagini ed in equilibrato rapporto di proporzioni, la ricchezza interiore dei sentimenti: “Su dei pensieri nuovi facciamo dei versi antichi”, aveva ammonito il giovane e sfortunato poeta francese Andrea Chenier, che non pensava di aver in tal modo sintetizzato l’aspirazione della nuova corrente artistico-letteraria.

        …È da tener presente, comunque, che mai si può parlare di interruzione della tradizione classica nella storia della nostra letteratura, se di tale tradizione consideriamo capisaldi il culto della bellezza e del reale, l’esaltazione del vero e l’attaccamento al mondo del mito”. [11]

        Il tratto distintivo del movimento romantico, peraltro così complesso e sfaccettato da non assoggettarsi a riduttive schematizzazioni, è certamente l’urto fra il reale e l’ideale, o forse meglio, il loro irreversibile divergere, ben configurato nel bifrontismo di Giano [12], divinità romana dai due profili contrapposti, dagli sguardi volti ad orizzonti antitetici. Dissidio che nell’anima genera una “lacerazione del sentimento, che si trova in contrasto con la realtà e non si sente mai pago, che aspira a qualcosa che continuamente gli sfugge”. La più caratteristica parola del romanticismo tedesco, la Sensucht, esprime con pregnanza questa condizione psicologica, come “male del desiderio”, o più propriamente “desiderio del desiderio”, che in quanto tale mai si realizza e trova in sé il proprio pieno appagamento (L. Mittner).

        L’uomo romantico riemerge dalle rovine di un’illusione grandiosa e con nuova fisionomia è costretto a ricostruirsi il mondo interno ed a comprendere il mondo esterno, tornato improvvisamente misterioso. Di fronte alla grandiosità dell’impresa egli è come intimorito. Comprende che la verità è frutto di un lungo travaglio e di continue evoluzioni, che la bellezza non può essere qualcosa di immutabile, che la conoscenza è faticosa conquista di tutto il genere umano. L’amarezza ed il disinganno generati da una tale scoperta lo portano verso un rinnovato bisogno di  interiorità, verso un recuperato desiderio di conoscenza del passato,  dal quale trarre utili ammaestramenti, verso una rinata consapevolezza della presenza di una divinità nella successione degli eventi dei popoli, così come dei singoli individui. Interiorità, senso della storia e religiosità si possono considerare a buon diritto le più importanti conquiste del secolo romantico, da cui scaturiscono innumerevoli atteggiamenti e categorie: la sete d’infinito, la natura come vita che crea eternamente, il senso panico o dell’appartenenza all’uno-tutto (l’uomo nel tutto, il tutto nell’uomo), l’arte come suprema espressione del Vero e dell’Assoluto, l’anelito verso la libertà, l’amore delle origini, il sentimento nazionale.

        Il nesso stretto fra le condizioni materiali e la sfera dell’immaginario si fa particolarmente evidente a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Mentre il Romanticismo si esaurisce nei languori degli epigoni, perdendo nerbo e virilità, “l’Europa dà fondo alla sua trasformazione industriale, e gli effetti di tale rivoluzione sulla vita sociale sono massicci: l’impiego delle scoperte scientifiche trasforma l’intero modo di produrre; le grandi città si moltiplicano; cresce impressionantemente la rete dei traffici; si rompe l’antico equilibrio fra città e campagna; aumentano produzione e ricchezza; la medicina debella le malattie infettive, antico e angoscioso flagello dell’umanità. In poche parole la rivoluzione industriale muta dalle radici il modo di vivere. e gli entusiasmi si coagulano attorno all’idea di un progresso umano e sociale irrefrenabile, giacché d’ora in avanti si sarebbero posseduti gli strumenti risolutivi di ogni problema” [13].

        Sembra rinascere la chimera! Questa volta la Dea luminosa e illuminante non è la Ragione, bensì la Scienza, che con quella appare in stretta parentela; e la corrente di pensiero che la sorregge, mutatis mutandis, è quasi un Illuminismo camuffato sotto le vesti del Positivismo. “La sostanziale stabilità politica, il processo di industrializzazione e gli sviluppi della scienza e della tecnologia costituiscono i pilastri dell’ambiente socio-culturale che il Positivismo interpreta, esalta, favorisce” [14].

        L’ascesa della borghesia era destinata, per la natura stessa che questo ceto esprimeva, a spostare l’interesse speculativo su un piano pratico, divergente dalle precedenti concezioni idealistiche e spiritualistiche della realtà. Il Positivismo suole infatti venire considerato espressione tipica della “forma mentis” della società borghese-industriale, specchiante fedelmente in sé tutti i caratteri e i limiti di tale società, che peraltro non tarderanno a farsi sentire e che inevitabilmente provocheranno il tramonto di un così acceso, frettoloso e credulo entusiasmo. La diagnosi spietata di Marx si muoverà in una direzione diversa dalle attese dei positivisti, convinti che la ricchezza, la crescita del sapere e l’istruzione popolare avrebbe finito per ovviare agli squilibri sociali, alla lotta per la conquista dei mercati, alla condizione di miseria del proletariato, allo sfruttamento del lavoro minorile. Mentre dunque dilaga la nuova eccitazione e si impone il culto della “Dea Scienza”, la crisi è già alle porte.

        Le divinità umane sono davvero effimere!

        Toccò ad Augusto Comte approfondire e sviluppare il significato e le implicazioni della nuova ideologia, onde è lui che viene universalmente riconosciuto come il vero fondatore del positivismo, termine che con il passare del tempo finì col designare un movimento di pensiero volto ad esaltare i fatti contro le idee, le scienze sperimentali contro quelle teoriche, le leggi fisiche e biologiche contro le costruzioni filosofiche, con accezione alquanto diversa da quella usata dal filosofo di Montpellier [15].

        “Secondo Comte… compito della filosofia è determinare lo sviluppo delle singole scienze che sole possono studiare efficacemente il mondo naturale e umano. Tale compito risulta per lui assolto dalla scoperta della legge dei tre stadi, secondo cui l’umanità si evolve passando per tre fasi: stadio teologico (fenomeni = prodotto di agenti sopran-naturali), stadio metafisico (fenomeni = prodotto di forze astratte), stadio scientifico (fenomeni studiati nelle leggi che li regolano). Nell’epoca di Comte l’uomo si avvia ad entrare nel terzo stadio e compito del filosofo è accelerare questo trapasso attraverso la lotta contro tutte le metafisiche.

        La filosofia positiva ha però anche un altro compito: l’organizzazione del sapere scientifico, che viene risolto dal Comte con l’ammissione di sei scienze fondamentali (matematica, astronomia, fisica, chimica, biologia, sociologia), strutturate in una precisa gerarchia, in cui il passaggio dalla prima alle successive è caratterizzato dalla complessità crescente degli oggetti da esse studiati ” [16].

        Deriva da queste premesse quel complesso di idee e di atteggiamenti-base che caratterizzano l’uomo di cultura (e non solo lui) di questo periodo:

la fiducia nella scienza e nel suo potere liberatorio (dalla superstizione, dai limiti fideistici, dalla malattia e dalla miseria); la fiducia in un progresso inarrestabile destinato a seguire deterministicamente (= in un meccanico e concatenato succedersi di fenomeni) una spirale che non può portare che a livelli sempre più alti; un collegamento con l’ideologia marxista; la larga diffusione di una mentalità laica, che però – per una specifica ragione storica, l’opposizione della Curia romana al processo risorgimentale – diventa anticleri-calismo pesantemente materiato da “scientifiche” irrisioni verso il dogma; un impegno di diffusione della cultura, e quindi una meritoria lotta per il diritto all’istruzione e contro l’analfabetismo.

        La fiducia nella scienza e la celebrazione del fatto, in particolare, promuovono nell’ambito della Letteratura il Realismo, nelle varie forme del Naturalismo francese, del Verismo italiano, della corrente russa, alla base del quale stanno, a grandi linee, un rigoroso senso del reale, la fedeltà alla realtà oggettiva, l’impersonalità dell’artista, con tutte le implicazioni ed i problemi connessi.

        I mali del capitalismo industriale inesorabilmente corrodono -e nemmeno con lentezza- la borghesia, il suo palco, la sua scena. E minano i dogmi della giovane fede positivistica e ne inceneriscono gli Dei. Ancora una volta l’uomo si smarrisce, perde la sua ostentata sicurezza, precipita addirittura nella vertigine. A poco gli valgono i consueti tentativi di riconquista della tradizione, il rifugiarsi nel mondo delle Muse greche, l’abitare il Parnaso. Questa volta egli non può nemmeno ripercorrere le strade dell’esperienza romantica, rivelatesi anch’esse inadeguate; cercare alternative nel sentimento, nella storia, nella metafisica. La caduta del mito scientifico produce uno scetticismo profondo: la possibilità di conoscere sembra negata, non solo per quanto attiene al mondo esterno, ma addirittura per quanto concerne l’interiorità, la cognizione di sé. Non ha più ragione di essere concepito nemmeno l’artista vate e maestro: quale sacerdote? per quale fede? Quale magistero? per quale sapere? Tanto meno potrà essere frequentato l’artista scienziato, o diligente collezionista di documenti e di fatti: repertori di quale realtà? Al più, all’arte potrà essere assegnato quel compito di ricerca della verità per il quale ogni facoltà umana sembra ormai inadeguata.

        Il Parnassianesimo francese disperatamente si aggrappa ai classici, alla loro perenne lezione di ordine, di equilibrio compositivo, di nitore formale; sottrae l’arte ad ogni finalità pratica, le assegna una superiore dimora e il ruolo primario di suprema espressione dell’esistenza. Ma dubita di sé, e dal suo grembo genera il simbolismo, lungo la scia del precursore Baudelaire e dell’impressionismo di Manet, Monet, Cezanne [17].

        “L’Impero alla fine della decadenza”, come voleva Verlaine, il Decadentismo, come movimento consapevole comincia dopo il 1880, a rispecchiare la suggestiva e maliosa condizione di una civiltà al tramonto, dunque non espressione di un’epoca in crisi.

        “I “decadenti” assumevano una posizione di protesta e di rottura verso i miti, i valori e il costume della borghesia, ostentando un genere di vita disordinato e spregiudicato che voleva rispecchiare la loro aspirazione ad un’esistenza assolutamente libera e indipendente, aliena dai compromessi, dalle regole e dalle norme degli uomini comuni, disposta a sperimentare tutti gli aspetti della realtà, fino alle zone più infide e velenose e rischiose.

        Mentre i parnassiani tendevano ad evadere dalla realtà contingente verso il sovramondo dell’arte e della fantasia, i decadenti restauravano il rapporto con la realtà, ma capovolgevano i termini romantici vita-arte (l’arte interpretazione della realtà), ponendo l’arte alla base dell’esistenza e affidando ad essa il compito di disegnare e costruire una vita congeniale, e nello stesso tempo di liberare e purificare nella superiore sfera della poesia le stravaganti e persino perverse avventure dei sensi. Non a caso l’opera più significativa ed emblematica del decadentismo europeo è il romanzo “A’ rebours” (A ritroso) di Huysmans (1848-1907), in cui il protagonista, Des Esseintes, nelle vesti del raffinato esteta, incarna la figura dell’eroe decadente.

        In un certo senso la spiritualità del Novecento si ricollega alle istanze più profonde del primo Romanticismo, da cui eredita i grandi problemi metafisici. Anche il Romanticismo aveva negato la validità della Ragione degli illuministi, intesa come intelletto, ma aveva anche celebrato lo spirito come creatore di principi universali, motore primo della storia. Erano nati i grandi ideali nei quali l’uomo credeva e in base ai quali poteva conformare la sua vita. L’angoscia romantica nasceva dal contrasto tra idealità e realtà, ma il senso sconsolato del reale aveva promosso, almeno negli spiriti più energici, un grande sforzo di ricostruzione dei valori della vita.

        Ora nell’animo moderno si riaffacciano queste istanze, ma dopo che tutta la costruzione ideale del Romanticismo è crollata di fronte alla realtà e sulle rovine delle troppo grandi ambizioni positivistiche; quando, ormai sono andate deluse tutte le speranze di un rinnovamento sociale, di un progresso civile, dell’avvento insomma di un mondo più felice, senza ingiustizie e sofferenze.

        Nasce così un senso di profonda delusione, che si manifesta nel ripudio di quella somma di ideali che vengono indicati come ottocenteschi o borghesi, senza che essi possano essere sostituiti da altri valori assoluti. Infatti la caratteristica comune di gran parte delle filosofie contemporanee è l’irrazionalismo, che afferma l’impossibilità per l’uomo di giungere ad una qualsiasi costruzione ideale oltre che razionale. Da qui l’esasperato soggettivismo o individualismo assoluto: senza alcuna possibilità di raggiungere verità assolute: l’uomo si ritrova solo con se stesso, col proprio Io, che foggia a suo arbitrio i propri valori. Tutto quello in cui l’uomo ha creduto appare come falso e illusorio, mentre la conquista della verità è un miraggio assurdo. Nasce così  una  società  in cui  tutto è messo  in discussione;  l’uomo è immerso nella solitudine e nell’angoscia, senza fede  e senza Dio, senza alcuna fiducia nelle leggi etico-sociali e soprattutto senza speranza.

        I due atteggiamenti più comuni in una società così conformata sono: o l’esaltazione orgogliosa dell’Io, volto a realizzare se stesso al di sopra del bene e del male (il “superomi-smo” di derivazione Nietzchiana), oppure un soggettivismo esasperato (derivante appunto dall’impossibilità di raggiungere conoscenze assolute), che si attua nella concezione di una vita senza scopi, nello sterile scetticismo, nella fiacchezza morale, nella indifferenza e nella noia.

        Quest’ultima condizione genera il senso di solitudine, di angoscia di fronte ad una realtà che è mistero impenetrabile. L’uomo non solo non conosce l’universo, ma neppure se stesso, poiché le cause dei suoi moti risiedono in una zona inesplorata del proprio Io, che sfugge ad una qualsiasi conoscenza. Da qui l’attenzione che l’individuo rivolge al proprio subcosciente, in un esame lucido e freddo dei propri istinti. Nasce infatti una nuova scienza, la psicanalisi, che indaga sulle forze misteriose che governano tanta parte della nostra esistenza, per scoprire -dirà Pirandello- il nostro “volto” che è rimasto soffocato da una “maschera”. La realtà appare come qualcosa di illusorio, di mutevole, di vario. Da qui il dramma di chi prende coscienza di questa situazione: o l’individuo si chiude in una cupa tristezza, o reagisce con un atteggiamento di ironia e di feroce irrisione. Tali sono, ad esempio, i personaggi pirandelliani che si muovono in situazioni strane, assurde, paradossali.

        …L’inquietudine spirituale che è alla base della nuova sensibilità decadentistica, ha i suoi riflessi anche sulla letteratura: in un mondo che ha smarrito i suoi valori e nel quale è negata ogni conoscenza, l’arte e la letteratura restano l’unico mezzo per intendere e svelare la realtà. La poesia acquista così un indeterminato valore di rivelazione di ciò che è al di là dell’esperienza umana, unico tramite tra la creatura e l’inconscio. Se la realtà non è quella dell’esperienza e della scienza e neppure quella elaborata dalla ragione, ma qualche cosa di più profondo e di più misterioso, non sarà l’intelletto a cogliere l’essenza del reale, ma la poesia. Il poeta  è colui  che, in una  sorta  di immedesimazione  dell’anima col cosmo, riesce a cogliere il battito oscuro delle cose e a manifestarlo in forme simboliche. La poesia diviene dunque repentina illuminazione dell’inconscio, rivelazione di una realtà noumenica (per Kant il “noumeno” è l’essenza pensabile ma inconoscibile della realtà in sé), di una realtà, cioè, che si contrappone a quella fenomenica: ad un tale nuovo genere di poesia non si confanno più le strutture logiche e la metrica tradizionale, ma la forma del frammento, assai più idoneo a raccogliere ed esprimere, al loro primo insorgere, le balenanti sensazioni del poeta. Questi non è più il “poeta-vate” dei romantici, vaticinatore dei destini della sua gente, ma il “poeta-veggente”, che per esprimere quella più profonda realtà, inaccessibile alla ragione, si affida a “parole-musica”, ai simboli, alle analogie, alle sinestesie (= accostamenti di due parole che si riferiscono a sfere sensoriali diverse, come “silenzio verde”, “urlo nero”)” [18].

        La parola o linguaggio perde il suo significato logico, diventa musica espressiva di stati d’animo; più che dire, vuole suggerire e stimolare attraverso il ritmo e nuove e inusitate cadenze. Questo è il motivo della oscurità di gran parte della poesia contemporanea, che rifiuta la sintassi, la metrica e la retorica tradizionali in nome dell’assoluta libertà espressiva”.

        La crisi espressa dal Decadentismo pare non essersi ancora risolta, anzi, per certi aspetti, sembra addirittura aggravata. L’alienazione avvertita da Pirandello e da Svevo, scaturente da un insopportabile ruolo dell’individuo in una società coartante e mostruosa, sempre più votata alla religione del profitto e sempre più risultante da una somma di circoli chiusi, in cui ogni essere umano, per natura incline al consorzio, si barrica gelosamente, rifiutando la comunicazione, di fronte all’angoscia di essere valutato ed apprezzato per come appare e non per quello che è, progressivamente s’inasprisce, incattivisce una natura già in precario equilibrio fra gli impulsi dell’istinto e il governo della ragione, al punto da rendere davvero minacciosi i pensieri profetici di Zeno: qualche individuo, “un po’ più ammalato degli altri”, farà esplodere sul nostro vecchio pianeta un ordigno micidiale, che cancellerà ogni vestigio biologico.

Amato Maria Bernabei



[1] A. Menetti. Temi critici di Letteratura Italiana, Milano, Bignami, 1985, vol. II, p. 80.
[2] G. Reale – D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, Brescia, La Scuola, 1983, vol. II, p. 75.  (La tradizione, sia religiosa che culturale, appare a Lutero come un’incrostazione di cui bisogna liberarsi per attuare un autentico ritorno al Vangelo; la ragione umana, che è la fonte stessa da cui scaturiscono le humanae litterae e la speculazione filosofica, viene svalutata).
[3] L’“Ipse dixit”.
[4] Il periodo di tempo che va dalla data di pubblicazione del De Revolutionibus di Niccolò Copernico (1543) all’opera di Isaac Newton, i cui Philosophiae Naturalis Principia Mathematica furono pubblicati nel 1687.
[5] La “sensata esperienza”  non è la semplice registrazione passiva di un ammasso di dati incoerenti, ma quella che dall’osservazione, attraverso il ragionamento, perviene alla formulazione di ipotesi da assoggettare a verifica e controllo per enunciare infine leggi generali.
[6] La tradizione ermetica, rifacendosi ad Ermete Trismegisto (Il Corpus Ermeticum era stato tradotto da Marsilio Ficino), aveva come principi fondamentali il parallelismo tra macrocosmo e microcosmo, la simpatia cosmica e la concezione dell’universo come un essere vivente.
[7] G. Reale – D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, Brescia, La Scuola, 1983, vol. II, p. 510.
[8] “L’indirizzo deistico riteneva di poter stabilire con la sola ragione alcuni principi religiosi generali (come per esempio l’esistenza di Dio), comuni ad ogni fede positiva e costituenti la vera essenza della religiosità umana” (Geymonat).
[9] De Bernardi-Lanza-Barbero, Letteratura italiana, Torino, SEI, 1983, vol. II, pp. 712-714.
[10] G. Reale – D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, Brescia, La Scuola, 1983, vol. II, p. 567. (Rousseau denuncia, in pieno Settecento,  i pericoli di un razionalismo esasperato. Egli infatti è persuaso che la ragione senza gli istinti e le passioni diventa sterile e accademica, e le passioni e gli istinti senza la disciplina della ragione portano al  caos individuale e all’anarchia sociale).
[11] De Bernardi-Lanza-Barbero, Letteratura italiana, Torino, SEI,  1983, vol. III, tomo I, p. 8.
[12] I due volti che guardano in direzioni opposte ricevono attraverso i sensi contrastanti ed inconciliabili stimoli: la testa è però una sola, uno solo il cervello, nel quale sono destinate al conflitto le discordanti esperienze, con inevitabile ed insolvibile angoscia.
[13] G. Reale – D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, vol. III, Brescia, La Scuola, 1983, p. 227.
[14] Ivi, p. 228.
[15] Nella legge dei tre stadi concepita da Comte, lo stadio positivo, l’ultimo, è quello in cui lo spirito umano, “riconoscendo l’impossibilità di ottenere conoscenze assolute, rinuncia a domandarsi quale sia l’origine e il destino dell’universo, quali siano le cause intime dei fenomeni, per cercare soltanto di scoprire, con l’uso ben combinato del ragionamento e dell’osservazione, le loro leggi effettive, cioè le loro relazioni invariabili di successione e di somiglianza”.
[16] L. Geymonat, Storia della filosofia., vol. III, Milano, Garzanti, 1974, p. 136.
[17] Contro l’oggettività del naturalismo, l’impressionismo riconduceva la realtà alle impressioni soggettive dell’artista e affidava all’arte il compito di esprimere e di comunicare quelle impressioni.
[18] M. Santoro, Civiltà letteraria italiana del XX secolo, Firenze, Le Monnier, 1973, pp. 75-80.

 

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