QUARTA DI COPERTINA

L’Antologia che presentiamo raccoglie alcuni dei componimenti con i quali, da ogni parte d’Italia, molti appassionati hanno aderito alla Terza Edizione del Premio Concorso Nazionale di Poesia Classica, ideato e organizzato dalla Casa Editrice Vincenzo Grasso, di Padova.
A differenza di altri “certami” dedicati alla composizione poetica, noi abbiamo voluto ospitare anche apprendisti ed amanti del verso, indipendentemente dall’età e dalla perizia, per creare uno strumento didattico che stimoli, incoraggiando, attraverso l’esempio di quanti, sia pure con mezzi elementari, si adoperano e tentano il difficile sentiero delle Muse.
«L’intuizione dell’Editore Vincenzo Grasso è quella di insegnare “dall’alto e dal basso”, come agiscono il sole e la terra sul seme: dunque non soltanto attraverso i modelli consolidati, ma anche sfruttando gli sforzi della passione, perfino sprovveduta, che tenda ad una conquista, o avverta il bisogno di una riconquista».
Per essere più espliciti, noi intendiamo spronare, più che scoraggiare, “premiare” più che bocciare, sicuri che il criterio comunque porti anche le piante più umili a sbocciare. Se per godere di un’escursione in bicicletta ognuno pretendesse di misurarsi con Fausto Coppi, quasi tutti dovrebbero rinunciare: lasciamo che sui pedali ognuno si sforzi di salire e respiri il vento e gli odori delle altitudini, pure ammesso che mai prenderà il volo delle aquile!
«Ci auguriamo, allora, che l’esigenza di recupero di un “modo” in estinzione, che anima i promotori di questa iniziativa lodevole, trovi nelle pagine che seguono la sua giustificazione e funga da stimolo per chiunque voglia condividere con loro il movimento di riscossa della disciplina e della musica nella sfera di quel genere letterario chiamato “poesia”, che sembra già appartenere ad un’epoca superata. A torto, e con grave perdita per la Letteratura».

Amato Maria Bernabei

PREFAZIONE

 

   Tu che suonando canti, canti al suono
o suoni sulle corde alla parola?
porti il pensiero dove cambia il tono
o la musica al senso dove vola? [1]

 

La parola e la scrittura, volte alla trattazione, dovrebbero sempre dare sgomento: perché tale risulta l’ampiezza delle indagini e delle soluzioni del pensiero umano, che ad ogni formulazione si rischia di entrare in conflitto con oggetti già scandagliati e risolti, in un modo e nel loro opposto; si rischia di apparire superati,  ripetitivi, non aggiornati, o peggio, retrogradi o non edotti, magari terribilmente lontani da certezze conclamate… Allora bisognerebbe riavvolgere la lingua o il foglio ed astenersi. Ciononostante continuiamo a credere che sempre il contributo del singolo è prezioso, e concorriamo.

Un’intuizione è un guizzo, la luce di un baleno.
Nessuno imprigiona un lampo, ma l’intuizione, che non sia catturata e fissata, non è mai feconda.
Elaborare è faticoso, richiede tentativi, qualche sconfitta “didattica”, quella che sia capace di spingere, nel rimedio, verso l’approdo, come un vento che torni a gonfiare le vele. S’impara sbagliando, ci dicevano: attraverso l’errore si perviene infatti alla conoscenza e, nel perseguimento degli obiettivi, al successo.

L’intuizione dell’Editore Vincenzo Grasso è quella di insegnare “dall’alto e dal basso”, come agiscono il sole e la terra sul seme: dunque non soltanto attraverso i modelli consolidati, ma anche sfruttando gli sforzi della passione, perfino sprovveduta, che tenda ad una conquista, o avverta il bisogno di una riconquista.
Intendiamo dire che, se nel campo della poesia Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare possono essere addotti come insuperabili esempi verso cui tendere, non si può negare che, mentre essi attraggono, possono tuttavia dissuadere chiunque aspiri alla fonte Castalia, all’acqua del Parnaso che i Greci ritenevano ispiratrice di poesia. Meno proibitiva sembrerà l’impresa se ai grandi modelli si affiancheranno gli sforzi di chi si è innamorato per indole o per educazione della pratica del verso, di chi non avendo avuto la possibilità di affinare, attraverso la palestra, le proprie doti, o non disponendo di tutte le peculiarità necessarie per diventare e dirsi poeta, pure si ingegna ad esprimere le proprie emozioni e la propria inclinazione al bello attraverso la parola cadenzata. Diventare, abbiamo scritto, perché certo si nasce artisti, ma le potenzialità vanno espresse, e in assenza di una precisa volontà, senza un’applicazione dura e costante, nessun esito importante è mai possibile.

L’intuizione di Grasso, per di più, si fonda sulla convinzione dell’inesorabile tramonto del “genere poesia”, dell’arte dell’espressione verbale nelle modalità che la tradizione ci ha consegnate e che la “traduzione” moderna ingiustificatamente tradisce, accantona. Non parliamo della poesia con accezione lata, della Poesia cioè che possiamo cogliere in un dipinto di Van Gogh, in una scultura di Michelangelo, nei passi di un grande romanzo, o della poesia come motivo di ispirazione o di commozione che un suggestivo scenario naturale o un incontro romantico possono indurre… Né vogliamo sostenere che l’uomo ha perso la capacità di essere poeta! Parliamo della poesia come genere distinto dalla prosa, parliamo dell’allontanamento graduale della cosiddetta “poesia moderna” dal modus classico, di un abbandono che non porta, come sostengono taluni, ad un’evoluzione, quanto ad una diversificazione; parliamo di un distacco che nemmeno avviene attraverso una semplice divergenza, ma quasi per taglio, per interruzione, verso una fisionomia che rinnega i tratti distintivi  originari, generando altro. Infatti trionfa la prosa poetica, che tutti in apparenza possono praticare, ma che solo a pochi è concesso di elevare al grado di grande arte, di Poesia, come del resto a pochi è riservato di poter essere grandi prosatori, Poeti attraverso la prosa. Quanti romanzi poveri affollano le librerie, quanti testi “poetici” frettolosi, scialbi, o colmi di tronfia verbosità vengono pubblicati, quanti libri sono tali soltanto per la veste! Senza voler considerare le carenze formali, lessicali, grammaticali, sintattiche, di cui tante pagine brulicano.

La libertà non è dissoluzione delle regole, ma la possibilità di agire autonomamente all’interno di un ambito disciplinato: la norma è il presupposto stesso della conoscenza, la base della ricerca e delle conquiste della scienza. Niente, c’è, che si sottragga alle leggi per cui una cosa è quello che è. Possiamo scegliere quando mangiare (ed entro certi limiti), ma non possiamo smettere di farlo se decidiamo di non morire! Vivere è quello che è. Nell’arte il fraintendimento della libertà genera confusione e scadimento, anche per l’ingresso di troppi in un ambito riservato a non molti, secondo il criterio della natura, che non distribuisce a tutti le medesime capacità e che ancóra più raramente concede i cromosomi della genialità. Come non sono Valentino Rossi tutti quelli che guidano una moto o non sono grandi chef  tutti quelli che cucinano, così non sono scultori tutti quelli che manipolano il pongo, né possono essere scrittori tutti coloro che usano una penna.

Il genere della poesia è stato codificato: chi ne ripudia le regole, ne è fuori, e rientra magari in quello della prosa poetica, un genere nuovo, che tuttavia ha i suoi codici, non può essere “libertino”: chi crede che lo sia, si sente scrittore senza esserlo.
Facciamo brevemente notare che nei migliori interpreti non raramente il “verso libero” [2] è tradizione che prepotentemente si ripropone, sia pure in un travestimento. Prendiamo in considerazione Soldati, di Ungaretti:

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie

Quattro versi? Due, per noi, camuffati in un quaternario piano, un ternario piano, un ternario sdrucciolo, un ternario piano. Metricamente due settenari:

Si sta come d’autunno
sugli alberi le foglie.

Che poi l’andare a capo “indichi” le cesure che il poeta desidera, e che magari coincidono con i moti dell’anima, è altro discorso.

Anche per la lirica Ed è subito sera di Quasimodo, che più di Ungaretti sembra accostarsi alla tradizione, possiamo svolgere un’analisi non diversa:

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

Strofa polimetrica… in apparenza. Pur formato da un senario doppio, un novenario e un settenario, l’intero aggruppamento ha un ossessivo ritmo ternario, risultante dal ripetersi per nove volte dell’anfìbraco [3], un piede di quattro morae [4] così strutturato: ∪ – ∪ (la sillaba lunga centrale, accentata, vale due morae):

o-gnu-no / sta-so-lo / sul-cuor-del / la-ter-ra / tra-fit-to / daun-rag-gio / di-so-leed / è-su-bi / to-se-ra.

Non cambierebbe molto anche se si volesse considerare in levare la prima sillaba per anacrùsi, [5] perché ne risulterebbero poi otto dattili e un trocheo finale:

∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪

o / gnu-no-sta / so-lo-sul / cuor-del-la / ter-ra-tra / fit-to-daun / rag-gio-di / so-leed-è / su-bi-to / se-ra. [6]

Questi esempi vogliono dimostrare che la musica  rivendica i suoi diritti, il suo passo “misurato” (almeno in chi possieda sensibilità musicale, dote indispensabile per la scrittura in versi) anche quando la si voglia ignorare.

Le regole dell’arte restano regole dell’arte, talune inderogabili.
Fra queste, nel genere-poesia, la maestria nell’uso del metro prescelto e il suo rispetto – mai a scapito, però, dell’indipendenza del pensiero, che attribuisce nuovo senso al vocabolo piuttosto che essere da questo condizionato -, la capacità di “far suonare le parole”, la congruenza fra le parole e il concetto che vogliono esprimere.
Naturalmente il contemporaneo avverarsi, al sommo grado, di tutte queste peculiarità, distingue le opere eccelse da tutte le altre. E i grandi modelli restano grandi modelli, superabili o insuperabili che siano.

In forza di tale assunto non può essere tuttavia disprezzata l’arte minore.
Intanto per la sua capacità di avvicinare un pubblico più ampio, avviandone poi una parte a gradi più elevati; in secondo luogo perché, in quanto arte, essa pure contribuisce all’educazione del singolo e della collettività, arricchendone i rispettivi patrimoni.
Se non ci fosse rimasta nel cuore e nell’orecchio l’eco dei ritmi di certi versi di Novaro, di Aleardi o di Palazzeschi, o addirittura di certe ninne nanne e filastrocche, chissà se mai saremmo riusciti ad innamorarci del verso, ad apprezzare, fino a “cercare”, le inimitabili terzine dantesche. [7]
Nelle prime età dell’apprendimento l’idoneità didattica di un componimento in versi non sembra proporzionale al quantum di Poesia in esso racchiuso. Una ragione di più per raccogliere in un’antologia anche i versi che un genuino desiderio di aderenza alla tradizione del genere poetico, certamente dettato da fine sensibilità e da buoni sentimenti, per quanto non sorretto magari da un alto talento, ha ispirato ai partecipanti al concorso.
Da parte loro i promotori in nessun caso hanno mai presunto di pubblicare delle opere d’arte (sebbene qualche autore ospitato possa disporre di vero talento), ma, come si è detto, piuttosto degli esempi “a portata di mano”, atti ad incoraggiare, anche i meno capaci, alla pratica di una modalità espressiva comunque piena di risorse educative.
Riteniamo che i componimenti di tutti coloro che hanno partecipato al premio siano in gran parte facilmente accessibili soprattutto alle fasce di lettori legate alla scuola, ma che non possano essere privi di un qualche benefico insegnamento per tutti quelli che si avvicinano alla poesia o che ad essa guardano con particolare attenzione. Saranno la guida diligente dell’insegnante o il personale senso critico a rilevare gli elementi da assumere come esempio e quelli da evitare, a saper fare uso sapiente degli “esperimenti” presentati, a indirizzare verso il miglior profitto, in relazione alle abilità individuali, i modelli “dal basso” che vengono proposti.

Una precisazione, a questo punto, ci sembra doverosa.
La fedeltà alla tradizione come noi la intendiamo, non può e non deve incorrere nell’errore della “riesumazione”. Una cosa è auspicare la sopravvivenza del genere, in riferimento alle peculiarità prosodiche e metriche, altra sarebbe sostenere la necessità di resuscitare una lingua morta. Chi pensa di praticare il genere facendo uso di vocaboli e modi non più proponibili, cade in un clamoroso equivoco: niente più poscia e nomar, per quanto siano danteschi, bando ai fe’, ai veggo, ai debbasi e a tutte le enclitiche antiquate del genere. Non si può resuscitare un’epoca, mentre è possibile conservarne le indicazioni di ritmo e di equilibrio. Consideriamo, per esemplificare, un settenario presente nell’antologia:

tolsemi pur pietade

che per la forma sembra essere stato prodotto settecento anni fa! O l’endecasillabo

mirar ‘u breve ’l vestigio si cede

che ha le stesse caratteristiche di “antiquatezza” (ci si perdoni il neologismo). È evidente che le forme linguistiche usate in questi versi non sono oggi più accettabili.

Costruiamo un esempio ad hoc per chiarire in modo definitivo il concetto: potremmo scrivere l’endecasillabo

guardo che ‘l cor mi fere adesso veggio (adesso vedo uno sguardo che mi ferisce il cuore),

ma suonerebbe quasi ridicolo! Visto che siamo versificatori del 2000, perché non fare uso della lingua corrente e modificare il verso in questo modo?

Vedo uno sguardo e mi ferisce il cuore

Non sarà ugualmente un bel verso, ma almeno nessuno potrà dirci di averlo scovato in un vecchio archivio.

Ora possiamo chiarire che le note spesso “correttive” di cui si è fatto uso nel libro non vogliono essere in alcun caso legate a giudizi di valore: hanno semplicemente lo scopo di richiamare l’attenzione sulla modernità da prediligere, sulla regola da rispettare, al fine di promuovere una crescita in chi ha collaborato con i suoi componimenti alla realizzazione dell’antologia, e la curiosità degli “inclini”, che, sia pure soltanto per emulazione, vogliano poi intraprendere l’impegnativo percorso della poiesis, della produzione, della creazione artistica nello spazio dove la realtà e il sogno si incontrano per diventare “canto”.

Ci auguriamo, allora, che l’esigenza di recupero di un “modo” in estinzione, che anima i promotori di questa iniziativa lodevole, trovi nelle pagine che seguono la sua giustificazione e funga da stimolo per chiunque voglia condividere con loro il movimento di riscossa della disciplina e della musica nella sfera di quel genere letterario chiamato “poesia”, che sembra già appartenere ad un’epoca superata. A torto, e con grave perdita per la Letteratura.

Amato Maria Bernabei

 

18 Giugno 2008


[1] Tu che canti accompagnandoti con le corde, dai voce al suono oppure suono alle parole? Sono le parole a seguire le altezze dei suoni, oppure è il suono che segue gli slanci del pensiero che si esprime con le parole? (Amato Maria Bernabei, Mythos, poema epico drammatico, Il mito di Orfeo, vv. 1-4, Marsilio Editori, Venezia, 2006).
[2] Parliamo sempre di “versi”, fra i quali non potremo mai annoverare certi arbìtri, certe righe stese a caso, che non sono poesia e sono perfino cattiva prosa! Qui non facciamo esempi, convinti che i lettori sapranno riconoscerli ogni volta che avranno modo di trovarseli sotto gli occhi. Ci sentiamo comunque in dovere di richiamare l’attenzione sulla differenza fra il verso libero e il verso sciolto.
[3] Dal gr. amphíbrakhys ‘avente un elemento breve dalle due parti’ (Devoto).
[4] Vedi il Glossario alla voce piede.
[5] Nella metrica classica, sillaba o gruppo di sillabe che all’inizio del verso precedono il tempo forte (cioè il primo ictus; Devoto).
[6] O-gnù-no-sta potrebbe essere considerato anche un peone secondo (∪ – ∪∪), ma questo non modificherebbe la sostanza del discorso che andiamo facendo.
[7] La poesia che segue, ad esempio, è un’ode saffica (strofe di  tre endecasillabi, chiuse da un quinario), rispettosa quindi dei canoni metrici, musicale, non vistosamente condizionata dalle rime, fanciullescamente candida, sognante, adattissima (forse proprio perché in veste di arte minore) a conquistare la sensibilità infantile, che certo non potrebbe essere altrettanto catturata da un Canto del Paradiso!

Il ruscello

C’era una volta un giovane ruscello
color di perla, che alla vecchia valle
tra molli giunchi e pratelline gialle
correva snello;
e c’era un bimbo, e gli tendea le mani
dicendo:- A che tutto cotesto foco?
Posa un po’ qui! Si gioca un caro gioco,
se tu rimani.
Se tu rimani, o movi adagio i passi,
un lago nasce, e nell’argento fresco
della bell’acqua io con le mani pesco
gemme di sassi:
fermati adunque, non fuggir così!
L’uccello che cinguetta ora sul ramo
ancor cinguetterà, se noi giochiamo
taciti qui.-
Rise il ruscello, e tremolò commosso
al cenno delle amiche mani tese:
e con un tono di voce cortese
disse:-Non posso!
Vorrei: non posso! Il cuor mi vola: ho fretta!
A mezzo il piano, a leghe di cammino,
la sollecita ruota del mulino
c’è che mi aspetta;
e c’è la vispa e provvida massaia
che risciacquar la nuova tela deve
e sciorinarla, sì che al sole neve
candida paia;
e il gregge c’è, che a sera, porge il muso
avido a bere di quest’onda chiara
e gode s’io lo sazio, e poi ripara
contento al chiuso…
Lasciami adunque -terminò il ruscello-
correre dove il mio dover mi vuole;-
e giù nel piano, luccicando al sole,
disparve snello.

                                          A. Silvio Novaro

 

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