Dario Fo: La divulgazione dell’ignoranza 2

Questo post, da me pubblicato su Dettaglitv.it, risale al 27 febbraio 2011.
Non essendo tale sito più attivo,
propongo la trascrizione del documento nella mia area personale.

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GR1, 29 Marzo 2006, ore 08,25 circa: «…io teorizzo per Sartorio quello che è un puer aeternum (Renato Miracco, critico d’arte e storico, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York dal 2007 al 2009, curatore della mostra in onore del pittore “dimenticato” Giulio Aristide Sartorio, intervistato da Gianfranco De Turris). Un fanciullo (puer) sarà mai di genere neutro (aeternum)? puer aeternus, caro spocchioso critico-storico-manager della cultura! o fa’ a meno di usare espressioni latine!

      La depressione, si sa, è il male dell’epoca, non soltanto come patologia dell’umore, ma anche come sindrome di una grave decadenza del valore, frutto del prevalere incondizionato delle logiche del profitto. In un contesto nel quale la vendita è il primo obiettivo, “la qualità” del prodotto non è più la sua intrinseca buona specie (prodotto di qualità, si dice, per indicare una buon articolo di mercato), ma la sua capacità di riscuotere consenso e di ottenere smercio. Da questo criterio, la malattia, e tutto il corredo dei suoi sintomi, che si cronicizzano e si aggravano. Il tenore generale della cultura si abbassa gradualmente, come il livello dei corsi d’acqua nei periodi di siccità. Non si fa più in tempo a registrare e ad enumerare tutti gli episodi di violazione della decenza da parte dei protagonisti dello scenario culturale italiano, e non solo. Paradossalmente l’enfasi pubblicitaria dà l’impressione che mai, come in questa epoca, i “grandi” siano stati tanti, e tutti degni dei più alti meriti e dei più ambiti riconoscimenti.

Questa volta soffermiamo l’attenzione su uno dei sommi “letterati” contemporanei: il Premio Nobel per la Letteratura 1997, Dario Fo. Tralasciamo il fatto che del Premio che gli è stato conferito non sono stati ritenuti degni autori “mostruosi” come Jorge Luis Borges, ed occupiamoci piuttosto dello spessore del nostro saltimbanco. Nel 2009, nel corso di una Puntata di Radio anch’io, il conduttore Giorgio Zanchini intervista Dario Fo e gli chiede di illustrare le ragioni della sua propensione al popolare, al giullaresco, i motivi della scelta di rappresentare sul palcoscenico la storia con la “esse minuscola”. La risposta del dotto Nobel è fra le sue cose più amaramente esilaranti…:

     Io volevo ricordare una cosa: che… Dante Alighieri, prima di iniziare la sua carriera e soprattutto incominciare a scrivere il… un’opera veramente mondiale, veramen… che non, che non ha quasi uguali, eeee… ha compiuto un’inchiesta, che è durata qualche anno, raccogliendo tutti i testi volgari, appunto, della poesia giullaresca, e l’ha chiamata DE VULGARIS ELOQUENTIAM!!! Ecco, hmm… poche co… Pochi sanno di questo particolare: naturalmente gli eruditi lo sanno, i cólti lo sanno, ma la gente e a scuola non lo si racconta mai[1]ascolta

     Stendiamo un velo sulla forma. Resta un assurdo, improponibile contenuto, del quale stiamo per occuparci: non prima di aver fatto notare, però, che il titolo dell’opera dantesca è DE VULGARI ELOQUENTIA, e che a braccio Dario Fo tradisce una precaria conoscenza della materia… Il “de” richiede l’ablativo nel complemento di argomento, non certo il nominativo o il genitivo (vulgari, dunque, non vulgaris), né tanto meno l’accusativo (eloquentia, non eloquentiam). Torniamo ai “concetti” che Fo elabora. Grave ci sembra il fraintendimento per il quale egli considera il De vulgari eloquentia come uno scritto a favore di una lingua di uso “popolare, marginale”, aggettivi di cui il conduttore Giorgio Zanchini si serve per qualificare l’orientamento “artistico” del Premio Nobel. Tanto è vero che, se può essere mossa una critica all’Alighieri, questa è di aver teorizzato in maniera esclusiva a favore del “volgare” letterario. Scrive il Sapegno: «L’errore di Dante nel De vulgari eloquentia è di aver sentito la coscienza dell’arte in modo così forte da sopravvalutarla, trascurando o deprimendo l’uso comune, parlato e non letterario, della lingua». E più oltre: «Il De vulgari eloquentia è l’affermazione teorica della nuova poesia italiana, poesia dotta ed aristocratica alla quale non possono salire se non quelli in cui sia ad un tempo incendio e scienza»; ed ancora: «Il significato profondo del De vulgari eloquentia è appunto in questa vigorosa consapevolezza dell’opera preminente degli scrittori nella formazione del linguaggio di un popolo…»[2].

     Per di più chi ascolti Dario Fo non conoscendo l’opera dell’Alighieri potrebbe immaginare che questa sia una raccolta di testi scritti in volgare, una sorta di corposa antologia, frutto di anni di meticolosa ricerca… Ma Dario Fo ha letto l’opera? Scrive Manzoni: «Al libro De Vulgari Eloquio è toccata una sorte, non nova nel suo genere, ma sempre curiosa e notabile; quella, cioè, d’esser citato da molti, e non letto quasi da nessuno…» [3].

     Il De vulgari eloquentia, scritto in Latino fra il 1304 e il 1308 (non all’inizio della “carriera” di Dante, come vuole l’erudito Premio Nobel), è un trattato rivolto ai letterati di professione, di estrazione borghese (non proprio adatto, dunque, a suffragare l’inclinazione di Dario Fo verso la tradizione popolare e giullaresca) e vuole definire un idioma volgare che possa conseguire un’alta dignità letteraria, elevandosi al di sopra delle varie parlate regionali e sottraendosi all’egemonia del Latino” [4]. Anche Gianfranco Contini, del resto, aferma con estrema chiarezza che l’obiettivo di Dante nell’opera in questione è quello di promozione aristocratica del volgare

     A chi a bocca spalancata esprime la sua meraviglia per i miti del nostro tempo, bisognerebbe far capire come stanno le cose… ma, per dirla con l’illustre Dario Fo, «la gente non lo si racconta mai».


[1] Tutti i documenti audio ai quali facciamo riferimento potevano essere ascoltati, al tempo della pubblicazione della maggior parte dei post riportati, sul sito http://dettaglitv.com/, ora non praticabile.
[2] Natalino Sapegno, Disegno storico della Letteratura italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1974.
[3] Lettera a Ruggero Bonghi intorno al libro De Vulgari Eloquio
https://www.alessandromanzoni.org/opere/14
[4] http://www.homolaicus.com/letteratura/de-vulgari.htm

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Almeno l’ortografia… (ed altro, sulla Poesia)

Il post apparve sul sito Dettaglitv.it il 5 febbraio 2011.
Dal momento che tale area non è più raggiungibile,
ne pubblico la revisione sul mio sito personale.

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Due gravi errori ortografici nella prima mezza facciata (il primo riguarda la scrittura scorretta in luogo del corretto troncamento po’) e uno nella seconda (senza considerare quelli presenti in altre pagine del volume) fanno scarso onore ad uno scrittore! Spero che da allora l’Albinati abbia ripassato un po’ di grammatica, imparando
-   le regole dell’apocope (anche su Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/Apocope),
-   la formazione del plurale dei nomi in -cia e -gia
http://www.accademiadellacrusca.it/faq/faq_risp.php?id=3943&ctg_id=44)
-   e le norme che regolano l’accentazione dei monosillab(la prima persona singolare dell’indicativo presente del verbo dare, io do, non si può confondere con la nota musicale do http://forum.accademiadellacrusca.it/forum_5/interventi/1391.shtml,
per cui non va accentata; trascuro le sottigliezze legate al raddoppiamento fonosintattico, o sintagmatico, o geminazione, che poco mi convincono e per le quali il Devoto e la stessa Crusca ammettono la possibilità della grafia “dò”).

Senza contare lo stile, che qui appare approssimativo e degno appena di un compitino (mal riuscito) di scuola superiore. Tralasciamo l’orribile cacofonia dell’ultima riga (a furia di scosse comincia a assottigliarsi, dove ben tre “a” costringono ad un’affannosa respirazione per la pronuncia…). Per fortuna ci sono nel libro pagine più interessanti… di prosa, però, non certo di poesia (tanto meno “elegiaca”, visto che del canto e della melodia – questo è il significato etimologico della parola greca èlegos - non hanno proprio nulla).

Per leggere l’intero documento, corredato di immagini,

SCARICA PDF

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Inferno, XXXV – I traditori della cultura: Roberto Benigni

Già pubblicato su Dettaglitv.it il 9 Maggio 2011

L’operazione su Dante, condotta da Roberto Benigni, è uno degli imbrogli mediatici più clamorosi, capace di riscuotere il consenso perfino di ambienti colti, ma quanto meno distratti, che dietro la maschera del merito divulgativo non hanno saputo cogliere, o hanno voluto di proposito nascondere, il danno che veniva arrecato a un patrimonio culturale da salvaguardare soprattutto attraverso il rispetto. Il “comico” toscano ha indecorosamente offeso la Letteratura Italiana e l’immagine del sommo Alighieri, stravolgendo e profanando, per uno spettacolo da baraccone e per denaro, i sacri versi della Commedia.

Ho voluto immaginare che Dante, per divinazione della sorte che sarebbe toccata ai suoi versi per bocca di Benigni, abbia voluto aggiungere un Canto, il XXXV appunto, al suo Inferno, punendo severamente il comico per la colpa di “tradimento della cultura”. Pubblico l’intera parafrasi del documento in .pdf, da aprire ed eventualmente salvare, che contiene comunque, oltre i versi, le annotazioni.

Inferno, XXXV – I traditori della cultura [2]

Non scrissi che prima di uscire a riveder le stelle, quando io e Virgilio risalivamo servendoci del fitto e duro pelo di Lucifero che ci faceva da scala, udimmo un grossolano riso a crepapelle, come quando alla sete di qualcuno mai si nega il vino dalla canna, fino a che la mente non ne risulta “ammalata”, fino all’ubriachezza, cioè. Fatto per il quale io dissi a Virgilio: “Maestro, non avevamo esplorato già ogni girone dell’inferno (le segrete cose… già non sapemmo tutte), lungo il tragitto che mira al recupero della serenità interiore (per la quiete), nel momento in cui scorgemmo, attraverso quel rotondo foro, la luce del giorno?

Egli mi rispose: “Dio volle che prima di tornare sulla terra, tu vedessi una pena più dura di quella inflitta a Lucifero (che lo viso a fondo).  Chi lucra servendosi dei tuoi versi mischiati a volgarità di ogni genere, rubando per l’indegna fame di denaro, l’arte (belli arredi) della tua opera, è stato sprofondato al di sotto di Lucifero (colui ch’è fitto, conficcato a testa in giù nell’estremità dell’inferno); chi offende le istituzioni politiche (Presidente del Consiglio, scettro azzurro) e quelle religiose (il Papa, bianca corona), che non reagiscono perché in fondo la propaganda che ne ricavano è vantaggiosa, e non viene esiliato, come invece accade a te. Ma la giustizia divina, ahimè, non perdona. Guarda quell’immenso teatro circolare e le sue innumerevoli gradinate gremite di gente che incita Lucifero a praticare la respirazione bocca a bocca al dannato svenuto dal dolore! Sono tutti coloro che da ogni “contrada” accorsero ai suoi spettacoli, e che ora si sbellicano nel vederlo al centro della scena arso dalle fiamme, arrostito come S. Lorenzo sulla graticola. [1] Per l’eternità il peccatore viene rianimato, perché la bocca di Lucifero gli soffia l’ossigeno che lo tenga desto (respiro ancora per le vene). Da ogni punto dell’arena, le gradinate espellono pagine della Divina Commedia (la carta de la colpa commessa da Benigni), che bruciano, mentre il vento le trascina dal centro alla periferia e viceversa, finché ricadono sulla pelle di tutti gli astanti, ustionandoli. E dal momento che tu vuoi sapere bene come stanno le cose, quando il condannato arrostito recupera la sensibilità, l’Angelo lo bacia, come Lancillotto Ginevra, con quel bacio appassionato “di sei pagine” che lui andava raccontando. Contemporaneamente dalle fiamme si erge l’anima di Gianciotto, che impugna una lunga cesoia e taglia a fette (molte volte) i colpevoli genitali di Benigni (reo pisello, soprattutto con allusione alla fissazione del comico per “i piselli”), che ogni volta che si ridestano sono ben cotti.

E se non senti declamare versi, è perché il Sommo Amore (l’Eccelsa Carità) grazia gli uditori, sottraendo loro, attraverso il bacio di Lucifero (serra le porte, chiude la bocca), una voce che quando non ragliagracida”.

Io non saprei spiegare perché quello che vidi mi provocò una forte emozione, tanto da rimanere per parecchio tempo disorientato e senza parole. Infine, distraendo lo sguardo da quei peccatori e per un po’ rivolgendomi alla mia esperta guida, chiesi: “Padre, perché non comprendo? Tu mi parli dei miei versi e del peccato di chi li vende, insieme con volgarità di tipo sessuale, come se volessi raddoppiare la mia sofferenza, per il lucro e per la profanazione. Fa’ almeno in modo, visto che mi sfuggono i fatti e non ho perciò consapevolezza della cosa (se l’esperienza non è presso), che io possa parlare a chi di tanto in tanto sviene dentro le fiamme, a chi in fondo, da quello che dici, si punì con le sue stesse mani”.

Mi rispose: “Tu non sai che l’immenso teatro (‘l tondo loco) ospita la gente idolatra che nel suo idolo proietta il poco che ha dentro (trasmuta il poco). E l’idolo dalla squallida abilità d’imbonitore è quello che tu vedi baciato nientemeno che da Lucifero (basciato da cotanto amante), e che forse, subito dopo essere rinvenuto (quando muta il vento, quando cambia il suo stato), potrà risponderti”.

Così, appena il dannato, ancora boccheggiante, si ritrova sulla soglia del bacio (desto al bacio) che gli impedisce di recitare i versi e di parlare (soffocante), inflitto dalla stessa bocca che lo rianima, io gli grido: “Dimmi almeno quale sciagurato delitto hai commesso, come ti chiami e qual è il tuo luogo di origine (quale piana), se è proibito sapere di più”.

Rispose con la sua sgraziata voce roca: “Sono originario della Toscana, nato in provincia di Arezzo, in quella frazione che ha nome Misericordia, proprio la misericordia che non potei avere da Dio per vile uso de la mente umana (la mente di tutti quelli che ho imbrogliato). Persi la misericordia perché non studiai in modo approfondito i versi di Dante e li andai recitando per il mondo chiedendo compensi sproporzionati e oltraggiando in tal modo anche la povertà (per gl’incassi ipertrofici e perversi); così, di fronte al grave danno arrecato alla cultura, alla morale, alla religione, la coda di Minosse risultò troppo corta per indicare dove avrei dovuto sprofondare, e l’inferno fu carente di gironi. Di conseguenza,  per la pena eterna che subisco nella morte del corpo e dell’anima, mi toccò la fossa di cui nessuno conosceva l’esistenza, quella che si trova proprio sotto il capo di Lucifero, dove egli mi perseguita ininterrottamente con il suo fiato. Quando ritorni sulla terra, alla dolce condizione dell’esistenza, dove nei teatri le folle inneggiano alle false divinità, racconta quello che hai visto, in modo che più nessuno sia dannato come me”.

Aveva appena finito di parlare, che Lucifero gli penetrò di nuovo nella bocca, con la sua lingua sporca di fango e dal sapore puzzolente di cerume, mentre Gianciotto Malatesta, emergendo dalle fiamme, riprese ad affettargli i genitali.

“O Arezzo, vergogna d’Italia, che hai dato alla luce ed alzato agli onori un pagliaccio dalla mente poco pregiata e ne sfami la mai sazia avidità di ricchezza; alimenti quella lupa che è riuscita a corrompere perfino il Veltro che avrebbe dovuto ricacciarla  ne lo ‘nferno, da dove il demonio l’ha scatenata; il Veltro(ni) che quando a Roma celebra il rito ricorrente delle Notti Bianche (dentr o la notte nera che fa bianca) nutre Benigni-lupa proprio dei cibi che dovrebbe evitare, di terra e di peltro, cioè del potere (dei protagonisti) e di denaro (peltro, dal francese peautre, lega di metalli), e con l’elevato compenso che paga permette abiti di seta, non certo gli umili panni di lana che dovrebbero essere il simbolo dell’intervento auspicato nel I Canto dell’Inferno (i richiami al quale, evitiamo di chiarire in modo troppo circostanziato, dal momento che tutti gli Italiani, adesso, conoscono benissimo la Divina Commedia…).

Non senti la voce ormai stanca di chi chiama l’arte smarrita e la cerca dovunque, in ogni luogo e in ogni sfera, senza più trovare il genio che le manca, l’interprete geniale, pittore, musicista o poeta che sia? Non ti muove a compassione la disgraziata sorte della nostra grande tradizione culturale, che il comico va sciovinisticamente vantando, ma che nei suoi eredi giace mestamente nel proprio letto di morte? Perché non ti accorgi che il cavallo dell’arte è senza guida, se il fantino, in tutto, è proprio l’antitesi del bello (se cavalca chi a l’arte più dispiace)? Ahimè, gente che dovresti essere fedele all’arte e lasciar sedere Dante, quello vero, sulla sella, se ben comprendessi la volontà divina (da’ a Cesare quel ch’è di Cesare…).

Guarda come il cavallo dell’arte è diventato ribelle, perché sente gli sproni inadeguati di un sedicente artista, incapace di orientarlo, e perché tu pretendi la guida, tieni le briglie (la predella; il ponesti mano ha come soggetto gente, il popolo italiano che attraverso Benigni guida il cavallo; naturalmente forzando il senso dantesco).

Chi non è proprio nato per alimentare la fiamma della poesia e non conosce altro linguaggio che quello del sesso, scenda da cavallo e la smetta di fare l’esegeta e di “predicare”. Un infinito numero di volte (in eterno) sarà perseguitata la colpa che adultera i versi insigni della Commedia e che rende il responsabile per sempre indegno del perdono degli uomini e di Dio”.

Così disse il maestro che mi circonda di affetto.

E finalmente l’ultimo tratto del cammino infernale mi restituisce la luce sul viso, là dove il cielo stellato è più gremito di fuochi.

Amato Maria Bernabei

N.B. Su Benigni e la sua indecorosa divulgazione della Commedia è possibile consultare le altre schede presenti su questo stesso sito.


[1] Al centro di un enorme teatro all’aperto, Benigni è incollato per la bocca alla bocca di Lucifero, mentre dal basso fiamme perenni lo arrostiscono, come il martire San Lorenzo. Quando sviene dal dolore, l’Angelo ribelle lo rianima con la respirazione bocca a bocca, ma per evitare che parli o che reciti, lo bacia con la sua saliva puzzolente di cerume e mischiata al fango in cui i due sono immersi. Da ogni ordine di posti, dal centro verso la gradinata estrema e da questa verso il centro, si alzano e ricadono sulla pelle di tutti pagine incandescenti della Divina Commedia, provocando terribili ustioni. Ogni volta che Benigni rinviene, Gianciotto Malatesta, con un paio di lunghe cesoie, gli affetta i genitali cotti. Feroce, ma inevitabile, contrappasso.
[2]  Un “intelligente” lettore che niente di tutto (o anche tutto di niente) aveva capito, così commentava il  (naturalmente mascherato dietro un cosiddetto nick, ovvero nascosto  in un pusillanime pseudonimo…):
Ciaooo ha detto:
Dici che Benigni si permette di stravolgere e profanare la Commedia quando sei tu il primo a osare scrivere un XXXV Canto e ad umiliare Dante con la tue cazzate, almeno Benigni lo fa per soldi, tu lo fai gratis.
l’11/06/2011 alle 23,02 così replicavo:
Questa è la nobiltà: io le cose le faccio gratis, Benigni è solo un mercenario. Quanto a profanare Dante, il saltimbanco toscano lo distorce, ne cambia il pensiero e perfino i versi, io mi diverto soltanto a imitare lo stile dantesco per “punire” Benigni come merita… ma evidentemente la cosa è troppo sottile perché tu possa apprezzarla: credo che tu non abbia capito proprio niente. A proposito: in questo sito cerca di usare modi più urbani, evita il turpiloquio “alla Benigni”, altrimenti i tuoi commenti non saranno più pubblicati.

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Maria Luisa Spaziani: Giovanna d’Arco

Maria Luisa Spaziani - Giovanna d'Arco

Che garanzie di qualità può offrire chi vanta di aver passeggiato
con il Nobel russo Iosif Brodskij “nelle CALLE” [1] di Venezia?
ascolta

Epilogo

Tutta la notte la sognai gridando,
piangendo dentro il più angoscioso sogno.
Era lei, Caterina, l’infelice
“regina delle Streghe”? La rividi,
macilenta bambina che danzava
con gli occhi fissi a un cupo sortilegio,
presso il bosco di casa, sotto i rami
pagani della “quercia delle fate”.

Lei, quella buia figlia di regina,
si era arrogata un titolo fatale.
Dov’era andata? Quali conciliaboli
l’avevano irretita e poi perduta?
«Io mi assumo la croce» avevo detto
la notte degli addii. Non sapevo
che la sorte tramasse di assegnarle
il tormento a me sola destinato.

Passai tre mesi inerti, pullulanti
di fantasmi e di miasmi del passato.
Non speravo l’ausilio dell’Arcangelo:
luce alimenta luce, la suprema
Vita disdegna le anime già morte.
Eppure Dio non lascia chi lo spera
con contrizione per la sua salvezza.
E dal profondo io la invoco, Dio.

Guardavo sempre il fuoco nelle sere
di primavera e della prima estate.
Lo fissavo per ore. A lui chiedevo
direzione, consiglio, ispirazione.
Giunsero giorni di caldo scirocco.
Giallo era il cielo, come un appestato.
Si era fatto, il vallone di Jaulny,
un forno arroventato senza pane.

Il vento scardinava i tetti, i sassi,
bruciava i bocci e dissecava i frutti.
Laggiù al fondo dei pozzi rilucevano
poche lacrime di polvere e mota.
Venti giorni senz’aria respirabile.
Morivano gli armenti. Un malefizio
premeva sulle case addormentate
come quanto [2] un cristiano è insepolto.

Forse insepolto era il mio passato
mozzo, irredento un Cristo non risorto.
Mi aggiravo sperduta fra i saloni,
disperata chiedendo una risposta.
Nel gran silenzio soltanto una fiamma
gridava dal camino di cucina
che risucchiava tutte le scintille
in alto fuggitive sfrigolando.

Il guardiaboschi [3] si fece annunciare
e concitato disse che ad oriente
del castello una striscia molto estesa,
un miglio forse, aveva preso fuoco.
Tutte le grandi querce millenarie
erano pura cenere. Ordinassi
che allarme dare, che cosa decidere.
Sotto quel rozzo panno era la Voce?

Sì, era il Segno, Dio mi rispondeva.
Come a un amato a lungo a lungo atteso
mi avviai nel buio incontro al fuoco. spire
color di sangue e aurora mi ammantarono,
timide prima, e poi ruggenti e forti,
ben diverse dal fuoco stupratore
che su quel rogo mi avrebbe avvinghiata.
Profondo abbraccio, appassionato e unico.

E mentre già le vesti fiammeggiavano,
di colpo Lui mi apparve: era l’Arcangelo
del nostro primo incontro, e il mio stupore
rinacque intatto dai lillà di casa.
«Tu chiamavi piumaggio queste luci
che alle spalle mi spuntano, Giovanna.
Devi sapere: sono pura fiamma
e in cima al tuo destino ti aspettavano».

(da https://poetarumsilva.com/2018/03/04/spaziani-epilogo-giovanna-darco/)

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[1] Le calle sono fiori, mentre le strette vie di Venezia sono le calli!
[2] Nel volume pubblicato dalla Marsilio (2000) si legge correttamente “quando”. Chi in Internet pubblica materia letteraria dovrebbe sorvegliare perlomeno l’ortografia…
[3] “Guardiaboschi”? Refuso (presente nell’edizione della Marsilio del 2000) o granchio lessicale della “poeta”?

____________________________

INTUIRE DAL TRAMONTO

Leggendo l’Epilogo della Giovanna D’Arco di Maria Luisa Spaziani viene da pensare che un fosco tramonto è spesso l’esito di un trascorso cattivo giorno!
Non ho mai avuto il desiderio di conoscere il capolavoro della poetessa torinese (la poeta, se in memoria non vogliamo offen-derne la suscettibilità femminista [1], la quale, tuttavia, in un passo della postfazione alla “Giovanna d’Arco”, a pagina 94 dell’edizione 2000 della Marsilio, non disdegna di attribuirsi la “privilegiata situazione di libero studioso”, con due belle desinenze maschili!), voce dalla quale non mi sono sentito mai attratto, non sembrandomi abbastanza interessante né tanto meno grande, checché se ne dica, e quando mi sono imbattuto in questo passo di modesta letteratura non me ne sono certo pentito. Non esercito la professione del critico, ma sono convinto di aver maturato conoscenze e sensibilità adeguate per individuare la buona letteratura. Difficilmente ho letto una chiusa “letteraria” così brutta, spia di un fiacco gusto estetico, di un pensiero ordinario, di una padronanza metrica approssimativa, di una carente sensibilità musicale capace di trasformare un passo cadenzato e grandioso come quello dell’endecasillabo nella più comune delle prose, per di più in un contesto epico. Leggo, della Giovanna D’Arco, che è un poemetto in ottave. Sul sito della Marsilio è scritto nientemeno che «Maria Luisa Spaziani, fa rivivere Giovanna d’Arco e la inquadra nella musica delle sue ottave classiche». Da quando in qua l’ottava (classica, per di più) è diventata un capriccioso raggruppamento di otto endecasillabi senza rime, di cui non si conosce il criterio compositivo se non quello che appone il punto dopo l’ottavo verso e ricomincia la sequenza lasciando una riga vuota? Quelli della Spaziani sono nient’altro che brutti endecasillabi sciolti (non sempre “endeca”), senza nervo, artificiosamente separati in gruppi di otto. L’endecasillabo non è soltanto una sequenza di undici sillabe metriche contate magari sulla punta del naso, qualche volta anche male [2], come nel caso di “rustica, dall’unico spiovente” Canto I, pag. 9, che è un decasillabo non canonico [3], o di «a distesa trecento campane» e «accadrà nella valle di Jòsafat» del Canto IV, pag. 47, decasillabi canonici, il secondo sdrucciolo, o «radice prima. Mi fecero abiurare», verso di dodici sillabe metriche (con sinalefe “ro a”) non canonico, del Canto V, pag. 62, e il decasillabo canonico “fissamente da presso la morte”, Canto V pag. 65, e così via… [4]: l’endecasillabo è un suono, un segmento di suono che unendosi agli altri segmenti deve creare una melodia varia, flessibile, in grado di adattarsi al pensiero (possibilmente PENSIERO) che esprime, come la mimica di un volto è modellata da uno stato d’animo. Così Dante dipinge (Dolce color d’orïental zaffiro), rimpiange (Siede la terra dove nata fui), prega (Vergine madre, figlia del tuo figlio), lotta ed ansima (E come quei che con lena affannata), paventa (ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi), descrive (Come d’autunno si levan le foglie), consiglia (Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno), sentenzia (Amor, ch’a nullo amato amar perdona), inveisce (Ahi serva Italia, di dolore ostello), ama (la bocca mi basciò tutto tremante), enuncia principi universali (fatti non foste a viver come bruti), attinge filosofia e teologia (La gloria di colui che tutto move; Quella circulazion che sì concetta)… Si potrebbe continuare per pagine, dimostrando come all’interno di una misura costante possano trovare spazio i più disparati pensieri e i sentimenti più vari attraverso le più sottili sfumature, gli spunti più impensati, sempre congrui nelle loro dimensioni concettuale e sonora [5], fuse in armonia suprema.
Gli “endecasillabucci” della Spaziani (“una delle voci più autorevoli e suggestive della poesia contemporanea”, è scritto nella bandella posteriore del volumetto) arrossiscono. A dimostrarlo basta riportare la banalità di due versi che “epicamente” dovrebbero farci rivivere le fiamme del rogo patito da Giovanna D’Arco: ben diverse dal fuoco stupratore / che su quel rogo mi avrebbe avvinghiata… Brutta enfasi a parte, una “prosetta” divisa in sillabe, che peraltro caratterizza tutto l’Epilogo e, sospetto, l’intero poemetto… [6]
Inutile infierire, per ora, non disponendo ancora dei necessari elementi per approfondire.
La fama e la stima di cui la poeta torinese gode non sono, evidentemente, che prodotti del mercato, teso a creare i suoi miti da bancarella su parametri ben distanti da quelli che il valore esige, in ogni campo. Chi per qualunque motivo abbia visibilità e sia  per questo vendibile, sale i gradini delle gerarchie.
Di conseguenza la Spaziani è grande… ma soprattutto nella fortuna di essere piaciuta a Montale, il quale, non a caso, l’appellò con il nome fittizio di Volpe [7] dal “lieve / zampetto di predace” [8].

Maria Luisa Spaziani ed Eugenio Montale

(Che cosa piacque a Montale della Spaziani? De gustibus non est disputandum
ma il bello non è quasi mai ciò che piace, come il vero non è quasi mai ciò che si pensa)

Amato Maria Bernabei


[1] “…è doveroso chiamarla così, poiché detestava la definizione di poetessa che le sembrava maschilista ed escludente” (Franca Alaimo, Lieto Colle, Libriccini da collezione, 7 aprile 2015, in https://www.lietocolle.com/2015/04/silvio-raffo-la-divina-differenza-la-musa-lirica-di-maria-luisa-spaziani/). Sciocca suscettibilità! Saffo non si sarebbe mai offesa, forse perché era “poetessa” vera… Sciocca, soprattutto, perché, nel rinunciare pretestuosamente al sostantivo femminile, tanto vicino per suono al termine greco ποιητής (poiētḗs), la Spaziani fa uso, paradossalmente, del sostantivo maschile, femminilizzato dall’articolo, attribuendogli di fatto maggior valore e contraddicendo all’intenzione di garantire alla femminilità della sua arte una  considerazione pari a quella riservata agli uomini. Per celia si può osservare che Montale non si è proprio mai preoccupato della a finale della parola poeta, altrimenti si sarebbe ribellato, pretendendo l’appellativo di “poeto”…
[2] Accortasi della presenza di alcuni decasillabi, la Spaziani preciserà nella postfazione, che «L’orecchio coglierà subito l’inserto di qualche decasillabo dovuto a precise ragioni espressive». La “poeta” adduce una serie di giustificazioni documentate da riferimenti a versi precisi, senza riuscire ad essere convincente. Una sciocchezza sembra soprattutto la dichiarazione di aver voluto rallentare il ritmo della versificazione con l’inserimento (non l’inserto, che ci pare altra cosa…) di un verso incalzante come il decasillabo canonico (tatatà tatatà tatatà ta), che la sapienza e la musicalità manzoniane avevano collegato allo scalpitio dei cavalli: d’ambo i lati calpesto rimbomba / da cavalli e da fanti il terren (Alessandro Manzoni, Il Conte di Carmagnola, Atto II, Scena VI, vv. 3-4). Ad esempio: come può suggerire «l’idea della pigrizia e della noia del re» la cadenza anapestica del decasillabo riposarmi dai lunghi travagli? Se scrivo “quando tento un tranquillo riposo”, il decasillabo può suggerire magari il fallimento del tentativo per uno stato di eccitazione inibente, non di certo la pigrizia, la noia, l’abbandono!
[3] Quale “precisa ragione espressiva” avrà indotto la poeta all’uso così precoce di un decasillabo in «un’ottava classica»? (Maria Luisa Spaziani, Giovanna d’Arco, Venezia, Marsilio, 2000, p. 105).
[4] Incuriosito (negativamente) dalla lettura dell’Epilogo, ho acquistato in Rete al più basso prezzo possibile il poemetto. Alla prima sbirciata ho avuto conferma della pessima impressione avuta in precedenza ed ho potuto estrapolare senza fatica, a caso, i versi riportati.
[5] Livello semantico e fonico, direbbe un addetto ai lavori.
[6] Il sospetto si è poi rivelato fondato.
[7] Senhal che Montale attribuì alla Spaziani.
[8] Montale, Da un lago svizzero, in La bufera, Madrigali privati (il componimento è un acrostico, in cui le iniziali dei versi formano il nome e il cognome della poetessa: omaggio-trastullo di momenti infantili del sentimento, ai quali è difficile riuscire a sottrarsi…).

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 IL DEMERITO DEL MERITO
(ovvero stroncatura di una Musa “a brutto muso”)

La lettura casuale dell’Epilogo del “romanzo popolare” della Spaziani, avvenuta in un sito poco ospitale e poco democratico della Rete, in cui l’uso di un ironico pseudonimo a firma di una mia nota critica severa è divenuto, per anonimato, pretesto di non pubblicazione, mi ha sconcertato al punto che, dopo aver scritto le prime impressioni, riportate come introduzione, ho deciso che dovevo basare le mie critiche sulla conoscenza. A tale scopo ho sùbito controllato le offerte in Internet ed ho speso il patrimonio di ben 7,15 Euro (tutto è relativo, dicono) per acquistarlo. Testo peggiore di quanto mi aspettassi!
Ormai è cosa lampante: la metamorfosi del merito ha il volto di una moneta, il pregio è una distinzione commerciale. Conta soprattutto qualunque ragione che venda, perché ogni valutazione di qualità trova i suoi fondamenti nel mercato. Il successo, in termini di visibilità, di stima, di riconoscimenti, è assicurato a tutto ciò che genera profitto materiale, e si fonda, perciò ed ormai, «sull’incompetenza a tutti i livelli» [1].
La critica sapiente ed illuminata “giace”, anche in virtù di un relativismo che ridà spazio al criterio dei sofisti, capaci di flettere le architetture del pensiero alle esigenze di chi di volta in volta li sfamava. Le attribuzioni di buona qualità e il maggior numero dei giudizi estetici favorevoli sono servi untuosi e supini del tornaconto, sia di chi li proclama che di chi li smercia, sicché gli operatori culturali, nel senso più ampio della parola, sono agenti di spaccio, più adatti al mestiere quanto meno conoscitori della materia specifica e quanto più scaltri nel cogliere le occasioni che rimpinguino le borse, a scapito delle virtù dei prodotti e della possibilità (nociva per il negozio) che la plebe acquirente èlevi [2], sia pure di qualche gradino, il proprio livello di conoscenza.
Il merito legittimo è dunque diventato un demerito, perché troppo spesso non si accompagna alle caratteristiche rivendicate dal commercio, e langue, ignorato e disincentivato. «Non le sto dicendo che la sua opera non merita, ma che non vende», mi disse Cesare De Michelis per giustificare il suo dissenso di fronte al mio poema in terzine dantesche sulla mitologia greca [3], che finì per pubblicare solo dietro richiesta di una cifra esosa e per la diffusione del quale mai spese un centesimo, snobbandone anche la presentazione nella Sala delle Colonne di Montecitorio. Lo stesso De Michelis del quale la pagina ufficiale della Marsilio riporta, con giusto orgoglio, l’aforisma: “È più importante vendere i libri che si fanno che fare i libri che si vendono”. Lo stesso De Michelis che – si dice – aveva firmato assegno in bianco alla Tamaro per un romanzetto sentimentale che, a detta di qualche lettore che conosco, ha poco da invidiare al libro Cuore (parola non casualmente presente anche nel titolo del romanzo della scrittrice triestina), se non la migliore qualità letteraria [4]. Il buon Cesare (peraltro figura di rilievo del mondo editoriale ed accademico dell’ultimo mezzo secolo) che alla firma del contratto, in camera caritatis, riconobbe al poema grande qualità, dichiarandosi orgoglioso di poterlo avere in catalogo e non escludendo che potesse essergli riservata, magari a distanza di qualche decennio, una sorte rilevante, aveva ragione, perché la Tamaro avrebbe venduto sedici milioni di copie in tutto il mondo (Wikipedia) e il mio poema in terzine una decina di copie in Italia. Eppure Giorgio Bàrberi Squarotti, dopo aver “preteso” una copia del libro, chiedendo, quasi risentito, come potesse non saperne nulla, ed avergli dedicato una lettura di alcuni mesi, ebbe a scrivermi, tra il Dicembre del 2007 e il Gennaio del 2008: «La grandiosità di Mythos non ha pari […] è un premio a se stessi incontrare un’opera come la Sua». Parole che, credo, mai nessuno potrà vergare a proposito del romanzo della Tamaro.
Il merito genuino è dunque diventato un demerito.
Al contrario, ciò che non merita viene spesso accolto da grida di osanna e rami di palma, ricompensato da invadente visibilità mediatica, quando non da titoli accademici anche numerosi e paradossali: sia sufficiente citare l’affare milionario del Tuttodante di un ridicolo “esegeta” (se non addirittura “profeta”) dei nostri tempi.
Anche il caso del poemetto della torinese “Musa di Montale” rientra nella categoria incomprensibile (si legga come sinonimo di inammissibile, perché la comprensione del fenomeno è fin troppo scontata) dei successi e delle acclamazioni della mediocrità: è difficile negare che viviamo una stagione capace di inneggiare soprattutto al dozzinale.
Qualcuno, in difesa della “volpe” [5], dirà che “la poeta” (declinazione, questa sì, di fondamentale importanza per l’ipocrita moda che avversa il cosiddetto sessismo linguistico) non aveva intenzione di scrivere un’opera di poesia, ma un romanzo ritmico, una prosa cadenzata… Ai grandi non servono espedienti: la prosa del Manzoni (non si offenda Alessandro, scuotendo la tomba per l’accostamento) è di gran lunga più musicale del brodetto della Pulzella della signora Maria Luisa, al punto che questo viene annientato da qualunque passo, rilevato a caso, del grande milanese, anche evitando di scegliere i vertici di un decasillabo che piange in singulti segreti nel suo ritmo anapestico (Addio monti sorgenti dall’acque, decasillabo con sineresi in di-o, ma anche endecasillabo 4-7-10, se si preferisce, con suddivisione ad-di-o) o di un pittorico endecasillabo descrittivo, dolente di richiamo natio (come branchi di pecore pascenti) o di un endecasillabo dove l’accento di settima comprime la parola nella stretta di un’emozione d’amore (dove il sospiro segreto del cuore).

Gli endecasillabi del “romanzo” della Spaziani mancano di eleganza metrica e prosodica, difettano di vera musica, sono sciatte sillabazioni, talvolta monche o sovrabbondanti, sono privi, a seconda dell’occorrenza e del tono, di pathos, di idillio, di accenti romantici, di slanci mistici, di capacità evocativa, di potenza drammatica; non muovono né commuovono, piatta prosa debolmente scandita da pallidi accenti, troppo spesso densa di contenuti banali, quanto meno espressi in una forma ovvia, poveri d’immaginazione… Insomma la poeta avrebbe fatto meglio a non cimentarsi con l’ampio respiro, meglio a non tentare la forma classica (?) dell’ottava che, di canonico, ha solo una successione di gruppi di otto velleitari versi, mal cadenzati (dieci, undici e perfino dodici sillabe, come abbiamo visto) e privi di rime.  Sappiamo bene che non è la forma scelta e nemmeno il genere a premiare la poesia, la quale non ha bisogno di artifici per fiorire: esigiamo semplicemente che non si attribuisca alle opere quello che le opere non hanno. La Giovanna d’Arco della Spaziani non è scritta in ottave classiche, non in soli endecasillabi, non in fluente metrica, e non è nemmeno grande opera di poesia, non solo in quanto genere, ma pure in quanto “momento in cui si realizzano individualmente e si rendono intelligibili le possibilità creatrici e suggestive delle intuizioni e della fantasia”, come recita il Devoto. Per di più, essendo ritenuta il capolavoro della poeta, condannano la qualità artistica della medesima all’assoluta mediocrità.
Né salvano l’opera altri pregi che con l’arte di un poeta hanno poco a che vedere: la sostanza della poesia non è certo nelle indagini storiche, nei tratti più o meno fedeli alla realtà che la caratterizzano, non certo nei sopralluoghi, nel fascino esercitato sullo scrittore da uno specifico argomento o da un particolare personaggio. Sicché la valutazione della qualità poetica della Giovanna d’Arco della Spaziani deve prescindere da qualunque apprezzamento per le «zone non note o respinte dalla storiografia ufficiale» [6] esplorate e da simili peculiarità, e considerare purtroppo il poemetto, o romanzo popolare che dir si voglia, della Volpe un prodotto inferiore, e non poco, alle pretese dei vari Raffo e Vidiri Varano e di quanti vedono “la vate” torinese come una delle voci più alte del panorama letterario del Novecento.



[1] Brunetta Gian Piero, Guida alla storia del cinema italiano, Torino, Einaudi (2003), cap. IV, 6.
[2] Preferisco l’accento alla latina.
[3] Mythos.
[4] Non posso esprimere un parere personale, non avendo mai avuto né voglia, né occasione di leggere  il romanzo (?…).
[5] Tale per aver saputo trovare scaltramente la via del successo?
[6] Così recita il risvolto anteriore del volumetto pubblicato dalla Marsilio nel dicembre del 2000.

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CONFRONTO FRA LA SCHIETTA OTTAVA CLASSICA
E LE PRESUNTE TALI DELLA SPAZIANI

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D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ‘l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.
Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, XII, 69

Mentre aspetto vi dico della casa
rustica, dall’unico spiovente. [1]
In sei ci abitavamo, tutte insieme
dormendo, le tre femmine, in cucina.
In camera ci stavano gli uomini, [2]
mio padre Jacques insieme ai miei fratelli.
Alle cinque d’estate e d’inverno [3]
Puntuali ci svegliavano le pecore. [4]
Maria Luisa Spaziani, Giovanna D’Arco, I,2

Non si destò fin che garrir gli augelli
non sentí lieti e salutar gli albori,
e mormorar il fiume e gli arboscelli,
e con l’onda scherzar l’aura e co i fiori.
Apre i languidi lumi e guarda quelli
alberghi solitari de’ pastori,
e parle voce udir tra l’acqua e i rami
ch’a i sospiri ed al pianto la richiami.
Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, VII, 5

Ci fu una pausa in terra e in cielo, quasi
che il tempo si fermasse. Accanto al tronco
lentamente dall’ombra si annunziarono
l’aureola e il piumaggio di Michele.
In silenzio agitava le labbra. [3]
Io capii bene. Carlo non sentiva
né vedeva, se non una gran luce
che misteriosa tutta mi avvolgeva.
Maria Luisa Spaziani, Giovanna D’Arco, I,28

Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
Il mover de le frondi e di verzure,
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di là strani viaggi;
ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,
temea Rinaldo aver sempre alle spalle.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XXXIII,1

Ci accolse l’arcivescovo. Suonavano
a distesa trecento campane. [4]
Ancora folla immensa, contadini
e signori mischiati, come un giorno
accadrà nella valle di Giòsafat.  [5]
Poco dopo arrivava il gran corteo
di Carlo da Chinon. Quando mi vide
scese dal suo cavallo e mi abbracciò.
Maria Luisa Spaziani, Giovanna D’Arco, IV,2

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
ed ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XXIII,111

Mi strinsero, baciarono le mani
piangendo a calde lacrime. Al cavallo
strappavano dei peli della coda,
prematura reliquia. Rideva [6]
felice Gilles de Rais, ed a fatica
raggiungere potemmo per la cena
l’ospitale palazzo dell’amico
tesoriere del duca d’Orleans.
Maria Luisa Spaziani, Giovanna D’Arco, III,12

Gli esempi citati del Tasso e dell’Ariosto evidenziano l’abisso di competenza metrica, di sensibilità musicale [7], di pensiero fra i due, questi sì, grandi poeti, e la sbiadita scrittrice della Giovanna d’Arco. Sarebbero comunque stati sufficienti anche artisti del calibro di Pulci, Boiardo, Pucci, Boccaccio, o addirittura saggi di qualche sconosciuto (non per demeriti) contemporaneo, dal talento ben più evidente. Come di seguito si evince.

Era sera per noi, ma sera scura:
la sera tutta ardea qual solfarino,
e su entrambi incombeva la ventura
d’andare arrosto senza rosmarino.
Ma il prode Olimpio, eroe senza paura,
non restò ad imprecare al reo destino;
lasciò il tinello e disparì nel retro,
ed io per non sbagliar gli tenni dietro.
Stefano Tonietto, Olimpio da Vetrego, Poema comicavalleresco II,2 (2010)

«Già mi sgorga di rime una fontana,
già mi s’intreccian sillabe ed accenti;
Olimpio, va’! Per la fede cristiana
combatti e vinci, e se non vinci, astienti.
L’impresa tua comunque sovrumana
propagherò, te spento, ai quattro venti».
Egli una mano volse in giù spedito,
drizzando il quinto ed il secondo dito.
Stefano Tonietto, Olimpio da Vetrego, Poema comicavalleresco XXXI,51 (2010)
http://www.odanteobenigni.it/2013/11/08/poesia-fra-quanto-e-quale-poco-o-niente-vale/

La stupidità umana

Chi per la Rete salpi, col favore
del vento nelle vele, e chi capace
regga il timone per il vario umore
dell’onda, scoprirà quanto loquace
forma di umanità lungo il fervore
dei porti si riveli e quanto spiace:
troverà l’esperienza che conferma
l’uomo carente e la natura inferma. 

Conoscerà cervelli omologati
come da una catena di montaggio,
senza grigio che splenda e senza strati,
e lo sguardo che vede col bendaggio.
E leggerà gli scritti ineducati
sia per oscenità che per lignaggio,
e presunzione sempre, che non cura
quanto sia guasto il grano e la cottura.
Amato Maria Bernabei, L’infinito piatto, La stupidità umana 1-2
http://www.odanteobenigni.it/linfinito-piatto/

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[1] Orecchio grossolano? Il verso è un decasillabo con accenti non canonici (1-5-9 anziché 3-6-9).
[2] Decasillabo, essendo uomini parola sdrucciola (salvo brutta dialefe gli/uo).
[3] Decasillabo, salvo brutta dialefe estate/e.
[4] Dodecasillabo sdrucciolo, salvo sineresi “tua”, nella  parola pun-tu-a-li.
[5] Necessaria la dialefe in silenzio / agitava per avere un altro degl’innumerevoli brutti endecasillabi di questo poemetto.
[6] Altro clamoroso svarione musicale: il verso è un decasillabo con accenti canonici.
[7] Ancora un decasillabo canonico, per quanto sdrucciolo. Altro che i “fluenti endecasillabi sciolti (con qualche rallentamento di ritmo per sottolineare col decasillabo dei particolari momenti poetici)” di cui scrive Carla Vidiri Varano!

Carla Vidiri Varano

(http://www.ischialarassegna.com/rassegna/Rassegna1991/rass08-991/rass-libri.pdf) Che istanza poetica possono avere quelli più su riportati? La solita abitudine di voler giustificare l’ingiustificabile con arzigogolate trovate critiche (in questo caso proprio una generica baggianata che riverbera acriticamente le poco probanti ragioni addotte dalla stessa Spaziani nella Postfazione del suo libercolo). La verità è che ci troviamo di fronte ad una prosa ritmica, brutta come prosa e brutta come ritmo. Basta scrivere di seguito gli “endecasillabi” e nessuno si accorge più dei versi, ma nemmeno rintraccia la buona prosa: Ci accolse l’arcivescovo. Suonavano a distesa trecento campane. Ancora folla immensa, contadini e signori mischiati, come un giorno accadrà nella valle di Giòsafat. Poco dopo arrivava il gran corteo di Carlo da Chinon. Quando mi vide scese dal suo cavallo e mi abbracciò. Evidentemente è questo lo stile dei “grandi poeti contemporanei”, della cui rosa la Spaziani farebbe parte (sempre a detta della Vidiri Varano). Io però di grandi poeti non ne vedo da decenni nel panorama letterario italiano.
[8] Altro decasillabo canonico, non essendo indicata la dieresi sulla sillaba “quia”, che trasformerebbe il verso in endecasillabo.
[9] È  ridicolo leggere del rimprovero (peraltro fondato) mosso dalla Spaziani a Franco Buffoni a proposito del libro Suora carmelitana: «Apriva a caso il libro, leggeva due versi e mi diceva: “Vedi, non cantano… questi versi non cantano”». Poi li confrontava con le “ottave” del poemetto Giovanna D’Arco, che leggeva per dare esempio di “canto”!… (http://www.nuoviargomenti.net/poesie/il-racconto-dello-sguardo-acceso/).
Abbiamo dimostrato però che la musicalità dei versi della “poeta” spesso manca e che, quando essa affiora, è quasi sempre fiacca e non esemplare. Basterebbe confrontare il suono che diffondono i distici finali delle ottave classiche citate con l’occasionale e sgradevole distico “spazianiano” La gloria della Francia e di Gesù. / Tutto ciò che lui disse un giorno fu (Canto I, ottava 14).
Solo i grandi hanno consapevolezze. I piccoli non altro che presunzione.

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Riprendiamo ora una delle ”ottave” della Spaziani:

Ci accolse l’arcivescovo. Suonavano
a distesa trecento campane.        (decasillabo)
Ancora folla immensa, contadini
e signori mischiati, come un giorno
accadrà nella valle di Giòsafat.   (decasillabo, per ultima parola sdrucciola)
Poco dopo arrivava il gran corteo
di Carlo da Chinon. Quando mi vide
scese dal suo cavallo e mi abbracciò.
Maria Luisa Spaziani, Giovanna D’Arco, IV,2

Proviamo a riproporla senza “andare a capo”:

Ci accolse l’arcivescovo. Suonavano a distesa trecento campane. Ancora folla immensa, contadini e signori mischiati, come un giorno accadrà nella valle di Giòsafat. Poco dopo arrivava il gran corteo di Carlo da Chinon. Quando mi vide scese dal suo cavallo e mi abbracciò.

PROSA, sciatta prosa impoetica, come già era negli artificiosi “a capo”! Non così se operiamo nello stesso modo con un’OTTAVA ariostesca:

Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
Il mover de le frondi e di verzure,
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di là strani viaggi;
ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,
temea Rinaldo aver sempre alle spalle.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XXXIII,1

Fugge tra selve spaventose e scure, per lochi inabitati, ermi e selvaggi. Il mover de le frondi e di verzure, che di cerri sentia, d’olmi e di faggi, fatto le avea con subite paure trovar di qua di là strani viaggi; ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle, temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

La versificazione e la musica sono intatte! La poesia è conservata, perché c’era e non poteva smarrirsi. Questa è arte!
Quindi bando alle esaltazioni gratuite, insussistenti, come quelle di Silvio Raffo che scrive: «La sua opera, di recente consacrata dal Meridiano Mondadori, è la prova più lampante della possibilità di coesistenza di registro alto e leggibilità, dunque di “tradizione” e comu-nicazione», dove per “registro alto” non si sa che cosa Raffo voglia intendere e dove si dimentica che già l’Ariosto aveva dato prova, ma prova schietta, insuperabile, della possibilità di convivenza di leggibilità ed altezza di poesia.

Cuce sempre veste goffa
chi non sa d’ago e di stoffa.
Amato Maria Bernabei

È forse il caso di abbandonare i preamboli e di accedere al cuore della questione.
Cominciando dal vanto che l’autrice fa della sua opera, accostandola spudoratamente, benché in modo in apparenza velato, ai capolavori dell’Ariosto e del Tasso, accanto a quello di riprendere un genere poco frequentato in Italia: «È un poema in ottave, genere popolare alle origini della nostra letteratura, tipico dei cantastorie, poi nobilitato dal Boccaccio prima d’imporsi come forma classica e illustre con l’Ariosto e il Tasso. È quindi in endecasillabi, sia pure senza la canonica rima finale […] Ed è soprattutto, con i suoi 1392 versi, un romanzo popolare, come dice il sottotitolo, genere raro in Italia e pressoché ignoto nel nostro secolo» [1].
In realtà, a mio modestissimo e forse irriverente parere, il risultato che l’opera della poeta torinese consegue non è romanzo, per l’impedimento della scelta metrica che produce (per imperizia?) una prosa elementare e sbiadita, né poema, per la versificazione piatta ed impotente, in cui la musicalità decantata dai più non è di sinfonia, di melodramma, di sequenza di lied o di ballate (molto più convincenti sono, per melodia e parole, i compo-nimenti di Fabrizio De Andrè) e non riesce ad avere nemmeno la leggerezza ritmata e la poesia dei testi espresse dai migliori cantautori.
La prima pagina dell’ibrido spazianiano (né romanzo, né poema, come abbiamo appena rilevato) già presenta più di qualche bruttissimo verso (in camera ci stavano gli uomini, che, fra l’altro, per essere endecasillabo sdrucciolo ha bisogno di una sgradevole dialefe: gli-uomini, essendo noto al lettore educato che il verso sdrucciolo è sempre un ipèrmetro e che di conseguenza la sillaba finale non va metricamente computata).

L’incipit è banale, e sembra difettare perfino di logica:
Vedevo un muro bianco. Voi direste
uno schermo […]
Noi non potremmo dire proprio niente, nulla potendo intuire di quello che viene introdotto… anche perché un muro non può richiamare in nessun caso uno schermo da proiezione per “una storia che si illumina”, ma al massimo uno schermo nell’accezione di riparo, o di barriera.
Da scolaretta maldestra, poi, la Spaziani avvia la sua  sciatta “prosa versificata”.
Da tre anni aspettavo. Che cosa?
Mentre aspetto vi dico della casa…
Proprio scrittura degna di “una delle voci più autorevoli e suggestive della poesia contemporanea”!
A volte si ha proprio l’impressione che la critica, anziché muovere dal testo e dai contenuti di un’opera, parta dall’autore in quanto personaggio (divenuto tale per qualsivoglia ragione di carattere esterno al di lui valore) e dalla rilevanza delle sue vicende biografiche (nel caso della Spaziani soprattutto dal legame affettivo che l’astuta “volpe” strinse con Montale).
Dopo aver avvertito il lettore che
Alle cinque d’estate e d’inverno
puntuali ci svegliavano le pecore…
volendo forse suggerire che in primavera e in autunno si riuscisse a dormire di più… [2] la poeta s’incammina lungo 1392 noiosissimi versi, non senza qualche idea cervellotica, più adatta a un contesto da Mille e una notte, come l’incomprensibile e goffa lingua parlata dall’angelo, che rientrerebbe in un’esigenza teorico-estetica non nuova nella produzione della Spaziani:

Marò mivalla univallentes pria
cresciò bundantia crivellò carene,
multa de Dio convene arcisaviota
marlinevelle adasto. Lunsitoni,
gronsilampe sarrete ultravalente
microlombat antares unisarfiota
 [3]
crenalantoni crivellò carene,
unisarfiota ter unisarfiota.

Una lingua «composta da un miscuglio di suggestioni latine, greche, provenzali, francesi e tedesche. La lingua inesistente, inaudita, con cui la Spaziani fa parlare l’angelo non rappresenta un unicum nell’opera della poetessa torinese. Spesso torna, in diversi momenti e luoghi della sua produzione, il tema della lingua, del logos che si pone al di fuori di ogni interpretazione simbolica, della glossolalia o della voce pura [4]. L’angelo che porta questa voce è, per la Spaziani, la poesia stessa, ovvero quella forza che preme costantemente dai confini del territorio della lingua e del dicibile, deformando tali confini, facendo scorgere spiragli di enunciazioni inesplorate, zone di voce ancora pure»
(Riccardo Giacconi in http://helicotrema.blauerhase.com/maria-luisa-spaziani/).

Insomma, per tagliar corto: di classico la Giovanna d’Arco non ha proprio niente, se non il fatto che dal punto di vista della versificazione e della poesia (ma in larga parte anche della stessa scrittura) è un vero e proprio… classico bluff.


[1] Spaziani Maria Luisa, Giovanna d’Arco, Postfazione, Venezia, Marsilio 2000, pp.104-105. Con candida, ma inaccettabile ingenuità, purtroppo avallata dal relatore (relatrice) Prof.ssa Ricciarda Ricorda e dai correlatori Prof. Aldo Maria Costantini e Prof. Paolo Leoncini, la laureanda Giulia Dell’Anna scriveva nella sua Tesi di Laurea L’universo poetico di Maria Luisa Spaziani, discussa all’Università Ca’ Foscari di Venezia nell’Anno Accademico 2011-2012, «Se si dice che L’Orlando Furioso fu il poema della vita dell’Ariosto, sul quale pose mano fino alla morte, ebbene la Giovanna d’Arco è L’Orlando Furioso della Spaziani. Credo che il parallelo calzi a pennello, non solo per il continuo lavorio (che tuttavia per la Spaziani fu tutto un brulichio di idee che per anni rimasero chiuse nel profondo della mente) bensì anche per il metro dell’ottava».
http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/1601/819906-1165705.pdf;sequence=2
Con il “trascurabile” particolare che l’Orlando Furioso si compone di 38.736 versi, circa trenta volte il poemuccio della Spaziani, essendo poi, per grandezza poetica, sideralmente più in alto. Senza contare il fatto che quelle della Spaziani NON SONO OTTAVE (se non perché formate da otto righe) e tanto meno sono classiche.
[2] Per i meno avveduti precisiamo che l’osservazione è puramente ironica.
[3] Chissà quale giustificazione contestual-semantica ci darebbe la Spaziani per questo brutto dodecasillabo! Più facile dedurre che l’orecchio della sessantottenne signora abbia toppato.
[4] Evidentemente la Spaziani privilegia il livello fonico della scrittura poetica, pur non essendo capace di conseguire risultati di eccellenza sotto questo profilo. Del resto il livello semantico, povero delle caratteristiche che il linguaggio poetico esige, non è certo superiore. Poco si comprende la necessità della punteggiatura in un “testo” che sa di formula fiabesca.

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S C A R T I L E G I O
Una raccolta dei passi fonicamente e semanticamente più brutti
del brutto “ro-manzo popolare” della Spaziani

 

Vedevo un muro bianco: voi direste
uno schermo, una storia che s’illumina.
ottava 1

Da tre anni aspettavo: che cosa?  (decasillabo canonico, o dialefe ni-a)

Mentre aspetto vi dico della casa
rustica, dall’unico spiovente. (decasillabo)
In sei ci abitavamo, tutte insieme
dormendo, le tre femmine, in cucina.
In camera ci stavano gli uomini, (decasillabo sdrucciolo, salvo sgradevole dialefe gli-uo)
mio padre Jacques insieme ai miei fratelli.
Alle cinque d’estate e d’inverno (decasillabo canonico, o altra dialefe, pessima, te-e)
puntuali ci svegliavano le pecore.  (endecasillabo sdrucciolo, ma con sineresi tu-a)
ottave 1-2

Per caso da bambina avevo inteso
il parroco informarsi da mia madre
“se io sapessi”. Poi dimenticai,
ottava 4 p. 10

Mia madre la nutriva con la carne
di capra, a noi da sempre proibita (decasillabo, o dialefe pra-a)
tranne alle feste grandi e con decotti
ottava 5 p. 10

Non imparava a mungere le capre
rifiutava i lavori in cucina. (decasillabo, o dialefe ri-in, migliore di va-i)
ottava 6 p. 11

Anche il paggio era splendido. E portava
un misterioso rotolo pesante
che sciorinato risultò un tappeto.
ottava 7 p. 11

Secondo le istruzioni di quel paggio,
il tappeto fu issato accanto al letto
di Caterina ad attutire il gelo.
ottava 9 p. 12
__________________________

Le ottave 11 e 12 meritano una riflessione a parte.
Quella di far parlare l’Angelo con una lingua che sembra un grammelot teatrale usato per effetti comici o farseschi, appare una trovata di cattivo gusto, a prescindere dalle giustificazioni di carattere teorico, come quelle sostenute da Riccardo Giacconi (http://helicotrema.blauerhase.com/maria-luisa-spaziani/), per il quale «questa voce è, per la Spaziani, la poesia stessa, ovvero quella forza che preme costantemente dai confini del territorio della lingua e del dicibile, deformando tali confini, facendo scorgere spiragli di enunciazioni inesplorate, zone di voce ancora pure». Non c’è teoria che possa redimere un’invenzione più appropriata al mondo delle favole che ad un ambito epico che intende celebrare la figura e le gesta della “Pulcelle d’Orléans”, tanto più che la Spaziani non si dimostra in grado di reggere l’endecasillabo nemmeno in questa circostanza, inserendo, non si sa per quale recondito fine, un inspiegabile dodecasillabo, qual è il cervellotico verso microlombat antares unisarfiota, le cui sillabe di seguito vengono conteggiate:

1         2         3         4         5         6         7         8         9         10         11         12
mi     cro      lom    bat     an       ta       res       u        ni        sar        fio        ta

Se le «zone di voce ancora pure» devono essere costituite da un’indecifrabile lallazione, non raramente sgradevole all’udito, anche a quello puramente interno e silenzioso, ben trionfi l’impurità vocale capace di far risuonare significati, più che novelli significanti (meno nobilmente balbettii) privi di convenzione semantica.
__________________________

Ripartiamo da un distico del tutto privo di buon gusto estetico:

La gloria della Francia e di Gesù.
Tutto ciò che lui disse un giorno fu.
ottava 14 p. 13

Finché un astuto a corte ricordò
la profezia di Merlino e disse:
«Un simbolo ci serve. Una bandiera
Basterà a rincuorare i Francesi. (necessaria almeno una brutta dialefe)

Portiamo Caterina (che comunque
è di sangue reale) fra i soldati.
Diamole un bel cavallo, suggeriamo
le frasi a effetto che dovrà gridare.
ottave 15-16

…Seguono scialbe (spesso sgraziate) ottave fino alla 27a, che conclude il primo canto.
Davvero siamo di fronte agli endecasillabi probabilmente più brutti della storia della letteratura italiana! Una versificazione da scolaretto apprendista in cattiva scuola!
Se l’endecasillabo doveva essere uno strumento per rendere ritmica una bella prosa “popolare”, il tentativo è mal riuscito, sia per quanto riguarda il modo di trattare il nobile verso che per una prosa non più tale, perché versificata (male) e decisamente brutta nel suo andamento e nei suoi contenuti. Quanto sostenuto risalta in modo evidente scrivendo di seguito, senza andare a capo, i versi del “romanzo” della Spaziani.

Per i canti successivi sarebbe interminabile e noioso continuare a riportare tutti i brutti passi: pertanto, ed eventualmente, ne sceglieremo in futuro alcuni particolarmente idonei ad arricchire lo “scartilegio” e ci dedicheremo se mai al bruttissimo Epilogo del “romanzo”.

In conclusione, fiacchissima opera di poesia (se tale possa essere considerata) la Giovanna d’Arco  e, in ogni caso, modesto esempio di letteratura. Non si capisce come nessuno se ne sia accorto o abbia voluto accorgersene.
Probabilmente la migliore “ottorighe”  (abbiamo già detto che quelle della poeta non sono ottave classiche) è quella riportata, forse non a caso, nella quarta di copertina, peraltro nemmeno adeguatamente riassuntiva, come avrebbe dovuto essere per la sua collocazione, dello scopo e dei contenuti del volumetto (tale perché piccolo e perché di poco valore).

Amato Maria Bernabei

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Per una terapia del mito: 7. Procne e Filomèla

 

Viviamo anni in cui il potere si diverte a risolvere il problema della parità dei sessi giocando con le vocali, come se modificare una grammatica asessuata (grammatica i cui generi non dispongono cioè di genitali: volpe è femmina grammaticalmente ed indica, guarda caso, anche il maschio!) risolvesse il problema degli stupri, degli omicidi di femmine (pardon dei femminicidi, in contrapposizione ad un maschicidi da creare), la questione del lavoro femminile sottopagato e così via. Del resto è ben più rapido (ma ben meno importante) intervenire su una “o” sostituendola con una “a”, che risolvere gli altri annosi, veri, quanto scomodi, problemi.
Così la femmina continui pure a subire stalking, mobbing, e stupidaggining del genere, nonché a percepire stipendiuccing, e si senta appagata di poter essere finalmente chiamata sindaca, ministra e magari, con un orrore grammaticale, perfino presidenta (e perché no? passanta, ipovedenta e simili).
Meglio abbandonare il sarcasmo e rendersi conto che da secoli per la donna nulla cambia, come risulta chiaro dall’orrore del mito greco di Procne e Filomèla.

Nella guerra contro il re di Tebe Làbdaco, il re dei Traci Terèo aveva prestato aiuto al re di Atene Pandìone, il quale, per riconoscenza, gli aveva dato in moglie la figlia Procne.
«Tereo, però, desiderava anche l’altra figlia di Pandione, Filomela; la sua storia assume, da questo punto in avanti, connotazioni infernali. Per riuscire nel suo intento, infatti, egli ritornò ad Atene e diede a Pandione la notizia della morte di Procne, chiedendo al suo posto di avere Filomela. Pandione gliela concesse, e Tereo la portò nel fitto di una foresta, dove da quel momento la tenne come prigioniera, impedendole di comunicare con l’esterno, a sua completa disposizione; per evitare che potesse parlare, non esitò a tagliarle la lingua. Per completare la sua messinscena, Tereo fece credere a Procne che Filomela fosse morta.
Ma benché isolata dal mondo, Filomela, che era un’abile tessitrice, riuscì nella sua prigione a tessere un abito sul quale erano rappresentate le scene della sua storia; riuscì poi a far avere il suo lavoro alla sorella. Procne seppe così che Filomela era viva e riuscì a trovare il modo di liberarla.
In occasione delle feste in onore di Diòniso, un corteggio bacchico si diresse nel folto del bosco, capeggiato dalla regina. Essa potè avvicinare Filomela e farla entrare nella schiera senza che venisse notata. Le due donne trovarono poi il modo di vendicarsi di Tereo. Procne gli aveva dato un figlio, Itis; la stessa Procne, con Filomela, lo fece a pezzi e lo mise a cuocere in un calderone, dandolo poi da mangiare a Tereo. Il re si accorse della macabra verità solo quando la moglie gli presentò la testa del bambino. Furente, si scagliò contro le due donne con la spada sguainata, e le avrebbe certamente uccise se Zeus non fosse intervenuto, trasformando tutti i tre personaggi coinvolti in uccelli. L’esatta identificazione è discussa, ma sembra che Tereo venisse trasformato in falco o in upupa, e le due sorelle in rondine e in usignolo».
(Anna Ferrari, Dizionario di miologia greca e latina, Torino, UTET, 2002, alla voce Tereo).
Non è necessario alcun altro commento, ma non si può non osservare che, alle violenze subite, le donne reagiscono in un modo che non fa loro onore, aggravando l’immagine di subalternità della figura femminile, visto che il potere, Zeus, riserva un’uguale, e tutto sommato permissiva, giustizia ai tre personaggi.

*  *  *  *  *  

Procne e Filomèla

tratto da: Amato Maria Bernabei, Mythospoema epico drammatico, Marsilio Editori, Venezia 2006

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   Menestrello

Quando dall’equinozio più si svela

il giorno e la tristezza più contrasta,

garrisce Progne e piange Filomèla. [1]                                   3

Non sempre l’occhio guarda come basta,

e negli affreschi traci oracolari

quello che vede, la figura guasta:                                              6

non i modi tradotti ed esemplari

scorge, ma, come il nesso non prevede,

intreccia almeno tre destini amari,                                             9

l’usignolo, la rondine e l’erede

del re dei Traci. Come nella scena

che interpreta l’errore che travede,                                          12

dove legge per l’estasi la pena,

e la foglia di alloro che asseconda

mutila e stride, e quel che segna aliena. [2]                          15

Il verso che sorride e che feconda,

che solo l’afflizione sente mesto

quando la luce scalda e sovrabbonda,                                    18

vola dalla pietà, però è funesto

nel mito, che riserva al tradimento

e alla violenza l’infernale gesto. [3]                                       21

 

   Meròpe

Il suono dei crepuscoli e il fermento

come poté legare il senso greco

all’abissale e al macabro tormento?                                        24

La rondine sui fuochi nello sbieco

grido che fa sperare nostalgie,

quasi riflesse dove spegne l’eco.                                            27

Come l’assenso delle melodie

dell’usignolo, liquide e fluenti,

dentro la luce e l’ombra delle vie? [4]                                   30

 

   Una vecchia indovina

Intus habes… le redini furenti

e il senno scarmigliato e sanguinario

scuotono dai capelli gli occhi assenti                                      33

e l’assassinio che non ha sudario,

che più lo specchio del paterno aspetto

muove, che salvi il materno divario. [5]                                 36

 

   Menestrello

Non salva il ventre, che curò l’affetto,

ma il seme offese e il frutto non consiglia,

che quanto più impotente, è maledetto.                                   39

Pandìone chiede e il debito aggroviglia

quando riconoscente Progne affida

ed uccide la prima e l’altra figlia.                                              42

Il quinto autunno per il cielo guida
la folle ruota che non fa rumore

logorando il sentiero che si fida. [6]                                       45

 

   Procne

L’estate stinge e riduce il colore

come una giovinezza che si sveste,

forse perché rimpiange dà languore…                                    48

Perché il passato affiora e si riveste

come rifrange e inganna una morgana,

che se ti accosti non ha più la veste.                                      51

Non c’è pienezza che non sia lontana,

anche dove il presente sia contento,

il tratto falso che si mostra e frana.                                         54

Se strugge, ma non urta il sentimento,

fa’ che ritrovi la stagione persa,

in chi le sopravvive e non ha spento                                       57

e dove condivise e si riversa;

fa’ che ritrovi almeno Filomèla,

che il tempo che più cambia fa diversa. [7]                           60

 

   Menestrello

Il desiderio ha il vento ed ha la vela,

solco dall’orizzonte rinascente

al fuso che finisce e non rivela. [8]                                       63

 

   Una vecchia indovina

Il filo, sempre corto, è incongruente…

l’istante ha mille rantoli ed un taglio

che pareggia l’involto differente.                                            66

Fende il dritto di prora ed ha l’incaglio,

come tutto che appare, ma nasconde,

ed è il panno tessuto e non lo smaglio,                                 69

consenso che all’intreccio corrisponde.

La morte vola come l’illusione,

illude il bene e al male lo confonde.[9]                                72

 

   Menestrello

Tocca il Pireo l’amara devozione,

uno dei cieli che l’azzurro splende

come un’insidia nella seduzione. [10]                                 75

 

   Terèo

Progne rimpiange e Progne si protende,

la nostalgia che navigando perde

il profilo dell’aria che discende.                                             78

Nell’anima il passato non si sperde,

bello perfino quando fu infelice

se l’istante felice non disperde.                                             81

E ricordando, se non contraddice,

non ha più dighe e Progne lo richiama

e non ha più dolcezza che le dice.                                        84

Un padre vuole sempre come ama

e raccoglie così come dispose,

che per il frutto al seme si dirama. [11]                               87

 

   Menestrello

Se mai vedesti belle le mimose,

non per l’anima vaghe e per il moto

ma per moto dell’anima alle cose,                                           90

come incanta se sboccia e non è vuoto

Maggio negli occhi di corolla e vento,

dove il prossimo fiore è sempre ignoto?                                  93

Quando assale la stoppia, in un momento

il fuoco scroscia, e la passione tace,

o parla con un altro sentimento                                               96

ma non rivela che diventa audace,

tanto che la richiesta pare franca.

Filomèla già canta come piace                                                99

a quelle notti che la luna imbianca

e rarefà le stelle, e i caprifogli

suona, o desiste se la luce è stanca;                                      102

alle frange dei boschi e dei rigogli

dove traluce il giorno o dove sgronda,

pulsando nelle pieghe dei gorgogli. [12]                               105

 

   Terèo

Solo per poco lascerà la sponda,

e senza rischio, per la sàrtia breve

al vento che propende e non abbonda.                                   108

E a Progne, che l’aspetta, sarà lieve

la lontananza; a me, l’ospite, sacra:

la nobiltà che rende se riceve. [13]                                        111

 

   Menestrello

La falsità che venera dissacra,

ed è più fredda quanto più abbellisce

e più insidiosa quanto più consacra. [14]                              114

 

   Una vecchia indovina

L’erba è profonda, e dove più infoltisce

l’agguato del felino ha gli occhi fermi

e trattiene lo scatto, che stormisce.                                        117

Odora il fieno nei respiri inermi,

distoglie le tiranniche salive

dall’attenzione oscura degli schermi.                                      120

Le barre salde sono alle derive

ed i gabbiani dentro l’acqua rossa

spillano i nati dalle carni vive. [15]                                         123

 

   Menestrello

Filomèla blandisce, perché possa,

e la brama sarebbe già paterna,

per avere ogni abbraccio ed ogni mossa.                               126

Così cieca è la notte che governa! [16]

Il presagio resiste, e poi permette

l’onda senza ritorno che costerna. [17]                                 129

 

   Il Sogno

Mentre il Sonno sospende, s’intromette

l’ùpupa fulva dal becco sfilato

che il cielo all’improvviso circonflette                                      132

capovolgendo, come tormentato,

verso lo sfondo che diventa ondoso,

per uno sbarco d’ombre destinato.                                          135

Perché il volo si espande minaccioso,

snuda su due fanciulle trasparenti

un rostro che se tocca è rovinoso.                                          138

Quando un fulmine, prima dei fendenti,

rompe ed annienta l’angosciosa scena

per tre canti diversi e tre fuggenti                                            141

che nella notte piangono una pena. [18]

 

   Menestrello

Solca la nave e solca l’orditura:

per Filomèla il cielo o l’acqua piena                                         144

una grétola azzurra prefigura.

E l’aquila ha ghermito e differisce,

che spacciò per affetto la congiura. [19]                                     147

 

   Una vecchia indovina

Presta drappi al delitto e custodisce

la notte, e dentro l’ombra il re trascina,

fra terra e mare che non differisce. [20]                                      150

 

   Orióne

Lo stupro implora la virtù divina:

la custodia celeste si addormenta

o gusta una passione concubina. [21]                                        153

 

   Menestrello

Prega gridando e di sfuggire tenta,

ma più si scuote e più la voglia sforza

che prende il corpo e l’anima violenta. [22]                                 156

 

   Una vecchia indovina

L’incubo sveglia un sonno senza forza

quando l’ora paterna sente un grido

al ventre penetrato che si smorza… [23]                                    159

 

   Il Sogno

Dove la primavera intreccia, un nido

sembra protetto e salvo dal rapace,

fino all’unghia inattesa ed allo strido,                                       162

che si prolunga e non è più nidiace,

e quando desta ha voce familiare… [24]

 

   Una vecchia indovina

La fame getta e finalmente tace. [25]                                          165

 

   Menestrello

Non chi non volle e non poté pregare

e perse tutto in un oltraggio solo,

più che con sé, con chi non sa stimare                                   168

che non abbraccia il prepotente assolo. [26]

 

   Meròpe

Non è l’ostio varcato che corrompe,

il taglio secco al cuore del garzuòlo                                         171

per la fiacca membrana che si rompe!

Solo l’anima sceglie ed è inviolata. [27]

 

   Filomèla

Fu dolce il fiume e il vento lo dirompe                                      174

e la natura mite è devastata.

Saprà il bosco, e dal bosco ogni respiro,

ed ogni senso per ogni ventata.                                              177

Perché nessun rispetto, ma il raggiro

ad Atene mentì, mentì al filiale

affetto, come torse a giro a giro                                               180

la castità ed il pegno coniugale. [28]

 

   Menestrello

Senza la punta un’arma non infigge,

e non lede l’ingiuria disuguale                                                  183

dove l’ombra e la luce non confligge;

ma il bianco al bianco che rileva il vero

e la bieca onestà, Terèo trafigge. [29]                                         186

 

   Terèo

Non avrai suono che sarà sincero,

e saprai la parola che ritratta

perché non tratta più nessun pensiero! [30]                               189

 

   Menestrello

Spera la morte, ma la spada tratta

fende la bocca che la mano afferra…

guizza l’ultima lingua ed è contratta                                         192

nella gola, che rantola ed aberra,

perché vibra e non sillaba nell’ancia

la voce che mortifica e rinserra.                                              195

Quale sorte dirà? quale bilancia

terrà la scena per l’ipocrisia

e per l’attore quando cambia guancia?                                    198

Piange la morte e sa la prigionia,

né si dà pena per la fondatezza

la verecondia della signoria:                                                    201

le basta come piange la doppiezza.

Sveste i monili e indossa le gramaglie

il lutto vero, per diversa asprezza,                                           204

che non piange l’inganno delle draglie,

e sente il desiderio che lo spinse

come la mano che intrecciò le maglie. [31]                                 207

 

   La Vendetta

Dalla scintilla atroce dove attinse,

muta, la brace, ha un solo focolare,

ma nutre le due fiamme in cui s’incinse.                                  210

Se tace, non finisce di guardare,

che mentre cova ha gli occhi aperti e fissi,

come la freccia che non può mancare                                    213

ha soltanto il bersaglio ed ha l’eclissi;

ma soffre il dolceamaro che corrode,

i sentimenti che si sono scissi. [32]                                            216

 

   Menestrello

L’impotenza al potere ed alla frode

oppone l’impensabile parola

che udrà nell’orditura chi non ode.                                           219

Non la deprimerà la rozza spola,

che invece porta il fuoco nella traccia

ed ha la stessa rabbia della gola                                             222

nell’indizio che maschera e rinfaccia.

Tesse la veste rara, e poi l’affida

al cenno, che rivela benché taccia. [33]                                     225

 

   L’oracolo

La mano familiare già si annida

insospettata, prossima e Fatale…

la mano scellerata e infanticida. [34]                                           228

 

   Menestrello

La difesa del trono è viscerale:

interpreta, assoggetta e non è dritta,

e sconfina, nel colpo trasversale.                                            231

Così Terèo raddoppia la sconfitta:

teme che usurpi, ed assassina Ariante,

e avvolge la deriva, non la bitta. [35]                                           234

Progne spiega la veste, trepidante,

come svolgesse dall’offerta il danno,

ed il sorriso è quasi debordante                                              237

per la bianchezza, vergine di ranno,

dove il cinabro splende nelle scene…

ma spengono le scene dove vanno!                                       240

…dove la nave immerge le carene

fra l’onda e il legno, dove si confonde

il simbolo che sa soltanto Atene;                                             243

dove nella boscaglia si nasconde

Atena intatta e Pan che si congiunge,

e l’eroe del silenzio è sulle sponde. [36]                                246

Nessun altro potere così funge

che dà l’opposto e cambia la natura,

come l’amore l’odio che raggiunge                                          249

- che nemmeno più sente la frattura -,

dall’intreccio del filo che denuncia

e non dà scampo al cuore che scongiura. [37]                           252

Era il tempo che Bacco non rinuncia,

Bacco che lungo il Ròdope incorona

le donne di Sithònia e l’orgia annuncia                                    255

dove brulica il bosco, che risuona,

di fervide baccanti. Le furiali

insegne indossa Progne, che impersona                                258

il rito delle smanie più carnali,

e nella notte complice dilegua

le compostezze scomode e regali.                                          261

Non sa se come apprese, oppure segua

l’istinto, dove maschera il sentiero

il sottobosco, e l’ombra non ha tregua,                                    264

il passo malsicuro è il passo vero.

Al cascinale il grido è più furioso

del sesso che divampa per il nero:                                          267

forza, rapisce e imperversa a ritroso. [38]

 

   Una vecchia indovina

Ora l’ordito non è più la veste

e intesse nella notte, premuroso,                                            270

più ladro nel piacere delle feste,

l’ultimo dito l’ultima rovina

che tradì, sovvertendo, le richieste. [39]                                     273

 

   Menestrello

La vergogna si sente più meschina

se più il furore abbraccia e più rincuora,

come se fosse mano, ed è pedina.                                         276

Chiedesse al male che la disonora

almeno umanità, perché contese…

ma piange, e la preghiera trascolora. [40]                                   279

 

   Procne

Non fu adulterio quello che si arrese,

non fu la colpa che strappò la voce,

ma piuttosto l’accusa che protese.                                          282

Qualunque strazio sarà meno atroce

e non esiste ostacolo che frena,

non c’è contrasto all’impeto, che nuoce                                  285

come stritola il guscio la dracèna. [41]

 

   Menestrello

Iti, che la cercava, la sorprende,

si sorprende che guardi a malapena…                                   288

…è dentro l’ossessione e non discende

e oscilla, come culla una follìa…

Iti l’abbraccia e appena la riprende,                                         291

ma poi guarda negli occhi la pazzia.

Come trascina per la selva scura

la più piccola preda, che già stria,                                           294

la disumana tigre; come dura

nell’anima sgomenta che si vuota

la nebbia di una morte, prematura,                                          297

Progne costringe e costringendo svuota: [42]

striderebbe la reggia, per orrore,

se non c’è più richiamo che la scuota…                                 300

La madre ha chiesto sangue fino al cuore.

Bolle nel bronzo e scotta allo schidione

le carni fresche, e imbandisce, il livore.                                  303

Siede Terèo, che gusta l’abiezione,

e quando sazio apprezza e si profonde,

il corso non trattiene l’avversione.                                           306

Chiede del figlio, e la pazzia risponde. [43]

 

   Procne

Come lo désti, nel ventre lo porti!

Fame che nell’infame si nasconde,                                         309

che appena basta per sfamare i torti,

il re di Atene, Progne e Filomèla. [44]

 

   Menestrello

Afferra il capo e sbatte gli occhi morti.                                    312

Urla il ventre alla carne che si svela

e rovescia la mensa, e sforza il bolo,

e già rincorre il colpo che raggela…                                        315

ma la pietà divina innalza il volo,

e dà le piume all’ùpupa, commossa,

alla rondine insieme e all’usignolo,                                          318

e una traccia di sangue che le arrossa. [45]

  


[1] Inevitabilmente il mito di Procne e Filomèla induce reminiscenze petrarchesche (e garrir Progne e pianger Filomena; Canzoniere, 310, v. 3; era ne la stagion che l’equinotio / fa vincitore il giorno, e Progne riede / con la sorella al suo dolce negotio; Triumphus Cupidinis, 4, vv. 130-132) non gratuite, come si vedrà nel prosieguo, nell’introdurre la “favola”. Nella stagione primaverile, quando dopo l’equinozio le giornate si allungano, e chi è triste sente acuire la propria sofferenza, per contrasto di fronte alla stagione che torna bella (come accade al Petrarca, appunto, nel sonetto citato: ma per me, lasso, tornano i più gravi / sospiri), garrisce la rondine e si lamenta l’usignolo (nei versi preferiamo Progne, più dolce di Procne), i due protagonisti del racconto.
[2] Non sempre l’occhio è sufficientemente sagace (guarda come basta), sicché a volte non decodifica in modo corretto quello che vede; come accadde a chi, trovatosi in un tempio a Daulide di fronte agli affreschi tracio-pelasgici, che volevano raffigurare i diversi metodi oracolari usati nel luogo, interpretò male i dipinti (quello che vede, la figura guasta, altera il contenuto della raffigurazione), creandone la favola di Procne e Filomèla. Infatti non vi scorge quello che era nell’intento del pittore, i metodi locali di divinazione esemplificati nei dipinti (i modi tradotti ed esemplari), ma, contro il nesso delle figure, intreccia un racconto i cui protagonisti, almeno in tre casi, quello di Filomèla, di Procne e di Iti (l’erede, figlio del re Terèo), sono destinati ad una fine amara (tre destini amari). Così viene fraintesa la scena che finisce per rappresentare l’errore che travede, dovuto al travisamento: cioè il dolore per la mutilazione della lingua inferta a Filomèla dal cognato Terèo, che l’aveva posseduta con l’inganno, perché non raccontasse i suoi misfatti, in luogo della smorfia della sacerdotessa stravolta dalla trance, che sembra perdere dalla bocca una foglia di alloro che un altro ministro le ha porto per favorire la divinazione (legge per l’estasi la pena); nella falsa interpretazione la foglia mutila quindi Filomèla, divenendo la sua lingua che cade, e sembra già stridere per il mito nel garrito della rondine in cui la sorella sarà trasformata (ma per metafora anche nel suo “pianto” di usignolo), “alienando”, alterando quello che indica davvero (naturalmente non è la foglia che mutila e stride, ma la lettura errata di chi la scambia per una lingua).
[3] I versi della rondine e dell’usignolo che “ornano” la stagione sorridente e feconda della primavera e che soltanto le tristezze e le sofferenze possono avvertire come strido e come pianto (sente mesto, come si è detto per il Petrarca) quando la luce del sole diventa più calda, e dura più dell’ombra nell’arco intero del giorno (sovrabbonda), scaturirono dalla pietà degli Dei che trasformarono Procne e Filomèla, che rischiavano di essere uccise, in rondine ed usignolo; in realtà le due figure nel mito sono tutt’altro che degne di pietà, visto che vendicarono il tradimento (Procne) e la violenza, lo stupro (Filomèla), con l’uccisione feroce (l’infernale gesto) del piccolo Iti avuto da Terèo, materialmente attuata dalla madre Procne, che poi imbandì, con le carni del figlio assassinato la mensa del marito.
[4] In che modo il senso greco (qui non solo come “modo di esperire il reale” – cfr. Il mito di Tesèo: l’emulo, v. 10 – ma anche e soprattutto come sentimento) poté associare il garrito (il suono dei crepuscoli; il crepuscolo è la luce fioca che segue il tramonto, ma anche, meno comunemente, quella che precede le aurore: qui estensivamente la parola si riferisce alla pienezza dei tramonti e delle aurore) ed il fermento incantevole dei voli ad una passione così disumana e raccapricciante, tormento degli abissi dell’anima dagli effetti così macabri? (Si evidenzia qui la non gratuità della reminiscenza iniziale). La rondine sui cieli rossi (fuochi) negli stridenti voli obliqui (nello sbieco / grido), il cui suono dà speranza perfino alle nostalgie brucianti, che accende e che porta quasi riflesse dove l’eco del grido si spegne. In che modo concepì l’assenso, la condivisione dell’infanticidio da parte delle melodie dell’usignolo che si sciolgono fluenti come fossero liquide, dentro vie di ombra e di luce? (L’usignolo canta sia di giorno che di notte).
[5] Nella narrazione di Graves, la lingua viene tagliata a Procne, ma nella versione di Ovidio, che seguiamo, è Filomèla che subisce l’amputazione, e Procne prorompe nel grido intus habes, quem poscis – chi cerchi è dentro di te -, quando Terèo, che ha appena ingerito le carni del figlio Iti, chiede di lui; questo avviene probabilmente per il fatto che quasi tutti i mitografi, tranne Igìno, hanno invertito i ruoli delle due sorelle (Robert Graves, I miti greci, Longanesi, Milano, 2002, p. 150, 46.4). Procne dunque, sfrenata, senza più redini (la furia ha perso ogni controllo) ed orrendamente stravolta (il senno scarmigliato… fuori di sé, spettinata e sanguinaria) scuote di fronte a Terèo la testa dagli occhi vuoti del figlio assassinato che, essendo stato fatto a pezzi, cucinato e mangiato, non potrà mai avere lenzuolo funebre (non ha sudario); scuote l’assassinio, che fu mosso più dalla somiglianza esteriore di Iti con il padre (lo specchio del paterno aspetto) di quanto non abbia evitato (salvi) la diversità di indole della madre (il materno divario: presunto!).
[6] Nemmeno il ventre che lo aveva nutrito con affetto difende il figlio, il ventre offeso dal seme traditore di Terèo, il cui frutto, per essere di un uomo così spregevole, non suggerisce pietà (il frutto non consiglia), tanto più sciagurato (maledetto) perché effetto dell’impossibilità di sapere, dell’impotente soggezione alla perfidia. Il re di Atene Pandìone chiede aiuto a Terèo, che regna nella Fòcide, e per debito di riconoscenza gli dà in isposa la figlia Procne, rendendo intricate le vicende del destino (il debito aggroviglia: il debito è soggetto e contiene anche la personificazione del debitore) ed inconsapevolmente condannando alla sventura (uccide) sia Procne che l’altra figlia più giovane Filomèla. La tradizione è alquanto ingarbugliata, sia sui ruoli assegnati alle due fanciulle, sia sui rapporti di parentela che esse ebbero con Terèo: per qualche mitografo infatti Procne è sorella di Pandìone, per altri figlia. Noi abbiamo seguito la tradizione cui attinse Ovidio. Erano trascorsi cinque anni dalle nozze. Il quinto autunno, infatti, guida lungo il corso del sole il carro dalla corsa frenetica e silenziosa, che però corrode il sentiero del tempo lungo il quale viaggia e che è ignaro del suo trascorrere (il sentiero che si fida è però soprattutto la vita umana, che illuminata e riscaldata dal percorso del sole, ha in esso piena fiducia, ma dalla sua corsa inesorabile viene tradita).
[7] Procne parla a Terèo. L’estate stinge i colori e riduce lo spazio di quelli che restano, come una giovinezza che sfiorisce (si sveste), e forse nel rimpianto della floridezza smarrita rende languidi per nostalgia. Perché il passato sembra affiorare e recuperare la sua forma, solo però come un miraggio, come una fatamorgana, che nell’aria rarefatta devìa (rifrange) e riflette i raggi luminosi capovolgendo i profili delle cose, ingannevolmente, visto che quando ci si accosta ogni figura svanisce (che è congiunzione con valore consecutivo: fatamorgana tale che…). Le certezze ed ogni pienezza risiedono solo nel passato (non c’è pienezza che non sia lontana), anche laddove il presente sembri appagante (sia contento), perché solo il passato è fermo nella sua sostanza, al contrario del presente che è una dimensione falsa, che sfugge (frana) mentre si mostra. Se il sentimento di nostalgia che mi strugge non ti offende (non urta) concedigli di rivivere il tempo smarrito attraverso chi sopravvive a quella stagione e quel tempo non ha spento, fa’ che esso (il sentimento), che si protende verso chi condivise quell’età, possa ritrovare almeno Filomèla, vedere quanto è mutata nel quinquennio più fertile di cambiamenti nell’arco dell’intera vita, quello che segna il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza (che il tempo che più cambia fa diversa).
[8] Terèo asseconda i desideri della moglie e si reca ad Atene, per pregare il suocero di permettere a Filomèla di soggiornare per qualche tempo con la sorella. Il desiderio di Procne già veleggia verso Atene, sulla rotta sud-occidentale che porta in Attica (solco dall’orizzonte rinascente, da Est, sia pure di poco), rivolto inconsapevolmente verso la sventura e la fine della vita, verso il fuso delle Moire, che non rivela quando il filo si esaurisce.
[9] Non c’è coerenza nella lunghezza delle varie vite, tutte diverse, ma sempre e comunque brevi; in ogni momento mille vite si spengono, colpite contemporaneamente e livellate, qualunque durata abbiano raggiunto (l’istante ha… un taglio / che pareggia l’involto differente, la diversa lunghezza del filo avvolto intorno al fuso). L’elemento verticale che chiude lo scafo nella parte anteriore della nave (il dritto di prora) fende l’acqua velocemente, e non lascia sospettare la possibilità che si incagli (ha l’incaglio: metaforicamente si allude al destino funesto del viaggio), come ogni cosa che in apparenza è diversa dalla sostanza che cela, non per accidentale errore, ma per preciso disegno (ed è il panno tessuto, non lo smaglio, il tessuto così come è stato concepito, non una fortuita smagliatura; smaglio è licenza di rima), come in questo caso la gentilezza consenziente di Terèo che asseconda (corrisponde) la trama tessuta dal Fato. La preveggenza è oscura, ma allude alla morte di Procne e Filomèla che avverrà per metamorfosi, volerà nella rondine e nell’usignolo: la morte vola come l’illusione, la morte vola come i sogni, ma se “illude”, è perché inganna il bene, che fa sembrare tale essendo invece male, quando sembra pietà divina ed è due volte malvagità, perché “predisposta” dagli dei e perché data in premio per un infanticidio (illude il bene e al male lo confonde).
[10] La gentilezza infausta (l’amara devozione) di Terèo approda nel porto di Atene, in uno di quei giorni (cieli) splendidi dell’autunno, che nascondono il morire della stagione in una luce smagliante, come un’insidia che si nasconde in una seduzione.
[11] Terèo parla a Pandìone. Tua figlia Procne rimpiange il passato e verso il passato si protende: la sua è la nostalgia di chi si allontana dalla terra natìa (navigando perde) e vede quasi discendere nell’acqua e scomparire il familiare profilo di cielo che lascia. (Terèo ancora non esprime la sua indole perversa, al raggiungimento dei cui intenti giova la componente di sensibilità e di gentilezza che la arricchisce). Nell’anima il passato viene mitizzato, e non viene mai dissipato (non si sperde; il “si” è passivante: non si disperde, non viene distrutto), ed è bello perfino quando fu infelice (Leopardi: per quanto triste e che l’affanno duri), dal momento che sa conservare anche un unico istante di felicità e solo quello rivive (c’è nell’uomo la tendenza ad edulcorare il passato). Se poi quello che ricorda coincide in tutto con quello che fu (se non contraddice), allora non c’è argine che trattenga il desiderio che il passato ha di rivivere, come accade a Procne, che ardentemente lo rivuole (lo richiama) e non conosce nessun’altra cosa che le parli e la accarezzi con altrettanta dolcezza. Terèo è abile nel discorso: un padre agisce sempre (vuole) nel modo in cui ama, dimostra l’amore con quello che fa e tutto quello che raccoglie nei figli dipende da quello che seminò (come dispose, in rapporto a come agì) e che dai frutti, attraverso nuovi semi, sarà trasmesso alla discendenza (si dirama).
[12] Mentre Terèo parla, entra Filomèla. Se la tua sensibilità ti ha mai permesso di apprezzare la bellezza incantevole delle mimose (la seconda persona ha valore impersonale), incantevoli (vaghe) non per i moti di un’anima che non possono avere, ma per lo slancio dell’anima verso le cose belle, pensa quanto più delizioso possa essere Maggio, il mese pieno della primavera, che sboccia negli occhi e non è vuoto, ha un’anima (Maggio negli occhi di corolla e vento, occhi che sono insieme fiori e vento che li muove; ma il vento è qui spazio, cielo, e soprattutto anima) e dove ogni boccio che si apre successivamente è sempre una sorpresa (ignoto). Quam si quis canis ignem subponat aristis (Ovidio, Metamorfosi, VI, 456): il fuoco rapidamente avvampa e crepita (scroscia) quando assale le stoppie, la passione che investe l’animo di Terèo però non fa rumore, tace; o meglio, Terèo continua a parlare, ma ora con un sentimento diverso, che tuttavia riesce a mascherarsi nelle argomentazioni (ma non rivela che diventa audace; Terèo non pèrora più la causa di Procne, ma la propria, preso com’è dal desiderio di possedere Filomèla, tuttavia lo fa con abilità, dissimulando le intenzioni), al punto che la sua richiesta sembra leale. Filomèla è incantevole già come sarà il suo canto che piace particolarmente a quelle notti che la luna rischiara (imbianca) rarefacendo la luce delle stelle e sembra lei suonare i sambuchi (i caprifogli: il sambuco è una pianta delle caprifogliacee), da cui si effonde il verso degli usignoli, o sospendere la musica quando, stanca, ritira la luce. E canta, Filomèla, come piace anche ai ricami fitti e rigogliosi dei boschi, dove i raggi tralucono dalle foglie o sgrondano negli spazi aperti fra i rami, pulsando nelle increspature dei gorgheggi, quasi ricalcandoli (la parola gorgòglio è qui in luogo di gorgheggio).
[13] Solo per poco Filomèla si tratterrà presso la sorella e non correrà alcun rischio, perché il viaggio sarà breve, ora che il vento propende, gonfia favorevolmente le vele e non abbonda, non è eccessivo (la sàrtia breve per metonimia è la nave rapida che renderà breve il viaggio). Così a Procne, che aspetta la sorella, sarà più accettabile la lontananza; quanto a me, l’ospite sarà sacra: è l’imperativo della nobiltà, che non può non rendere un favore quando lo riceve.
[14] Quando il rispetto è falso, è l’antitesi del sacro (dissacra) e più cerca di vestirsi di belle forme, più risulta insincero e freddo, e tanto più pericoloso, quanto più si appella a principi solenni (consacra; si allude naturalmente al secondo intervento di Terèo, che con molta evidenza ha perso lo slancio e la sincerità che le parole avevano prima che entrasse Filomèla, divenendo untuoso, convenzionale e freddo, perché animato solo da secondi fini).
[15] L’erba è alta e dove è più fitta il felino è immobile nel suo agguato, con gli occhi fissi sulla preda, ed aspetta il momento opportuno per piombarle addosso; ma il suo intento per ora si mimetizza nello stormire del vento che arriva dagli steli (lo scatto fatale è per ora nell’intenzione, e si nasconde, stormisce con il vento). Nelle narici indifese (respiri inermi) della vittima il fieno profuma, e distrae il gusto, il desiderio insopprimibile di assaporarlo (distoglie le tiranniche salive), dall’oscura minaccia, dall’attenzione che il felino riserva rimanendo ben nascosto (gli schermi, per metonimia, sono protési all’assalto). La barra del timone è salda, eppure è alla deriva (la nave di Terèo per Filomèla sarà sciagurata, ed il viaggio, seppure favorevole, la porterà alla rovina) e nell’acqua del mare, arrossata, i gabbiani sembrano spillare ferocemente il sangue dalle carni vive dei piccoli nati (l’allusione divinatoria è rivolta all’infanticidio che Procne e Filomèla porranno in atto.
[16] Filomèla cerca di convincere suo padre (perché possa), che si mostra riluttante, quasi presagisse, con ogni genere di moine (blanda tenens umeros, ut eat visura sororem: Ovidio, Metamorfosi, VI, 476) e l’incontenibile libidine di Terèo sarebbe disposta a diventare paterna (Terèo vorrebbe quasi essere il padre della fanciulla) per potere avere da lei ogni abbraccio ed ogni carezza. Tanto è cieca la notte che assoggetta l’animo umano (pro superi, quantum mortalia pectora cecae / noctis habent! – Ovidio, Metamorfosi, VI, vv. 472-473).
[17] Pandìone, come si è detto quasi presago, alla fine cede e lascia che Filomèla intraprenda il viaggio che non avrà ritorno e lo addolorerà mortalmente (costerna).
[18] Mentre il Sonno – qui divinizzato -, sospende la coscienza e la volontà, s’intromette il sogno di un’ùpupa, uccello dal pelo fulvo e striato e dal becco sottile (uccello che nel sogno rappresenta Terèo, che sarà in tale foggia trasformato da Zeus) che all’improvviso curva il volo (il cielo) invertendolo e tornando indietro (circonflette), come assalito da un fastidio (come tormentato), verso lo sfondo della scena, che si trasforma in distesa marina (diventa ondoso) e permette lo sbarco destinato, quasi predisposto, di ombre umane. Non può essere casuale l’approdo, per la scena che lo segue, dato che subito il volo dell’ùpupa si espande, l’uccello diventa gigantesco e minaccioso, e punta (snuda) contro due ombre, due profili indistinti di fanciulle (due fanciulle trasparenti; nel verbo “snudare” c’è la premonizione: la spada che Terèo rivolgerà contro Procne e Filomèla prima della metamorfosi), non il becco, ma addirittura un rostro micidiale, che se tocca è rovinoso. Ad un tratto un fulmine (premonizione dell’intervento di Zeus) si abbatte, prima dei colpi del rostro portati dall’alto (fendenti: ancora l’allusione alla spada) ed incenerisce la scena angosciante, dalla quale si alzano in volo tre differenti uccelli dal canto diverso, e tutti e tre in fuga (per tre canti… in cambio di tre, a favore di tre) che nella notte di Filomèla sembrano piangere per una dolorosa sofferenza.
[19] Con la nave che riprende il mare viaggia anche la macchinazione di Terèo (l’orditura). Per Filomèla il cielo o il mare aperto (l’acqua piena, perché riempie lo scenario) mentre sembrano sorriderle, sono soltanto una stecca per la gabbia (grétola) che preannunciano (nell’aggettivo azzurra c’è il sorriso apparente che contrasta quasi in ossimoro con la stecca per l’intelaiatura della gabbia). E Terèo ha ghermito la preda con i suoi artigli, ma rinvia il piacere (differisce) al momento più opportuno, pregustandolo, dopo aver spacciato per affetto la sua trama segreta.
[20] La notte copre i delitti (presta drappi al delitto) e sorveglia che si compiano (custodisce), e così il re (Terèo) trascina la sua vittima dentro l’ombra quando terra e mare, nel buio, si confondono (non differisce; nel momento in cui fra il mare e la terra non appaiono differenze; ma, con doppio senso, il buio della terra e del mare non permette di rinviare, “differire” la violenza, come fosse complice).
[21] La consueta amarezza ironica di Orióne. La violenza che Filomèla sta subendo supplica gli Dei, chiede aiuto al loro potere (implora la virtù divina; Orióne non racconta, ma presuppone), evidentemente, però, la vigilanza celeste si è addormentata o sta gustando i piaceri di amori illeciti (concubina è aggettivato).
[22] In realtà, racconta il Menestrello, Filomèla urla e prega e si dimena nel tentativo di sottrarsi, ma più si sforza e più costringe la voglia di Terèo, che si impadronisce del corpo della vittima, ma fa violenza soprattutto alla sua anima.
[23] Ad Atene il padre di Filomèla dorme, ma il suo sonno è leggero (senza forza) ed agitato, e si interrompe all’improvviso, allorché, nel momento della violenza, egli sente urlare (l’ora paterna sente un grido, la medesima ora, vissuta dal padre, sente gridare nel sonno), come udisse il grido della figlia il cui ventre, posseduto, perde ogni sensibilità, refrattario (si smorza).
[24] Pandìone sogna che è primavera e vede un nido che sembra ben riparato, al sicuro dagli attacchi dei rapaci… fino a quando non piomba un artiglio inatteso e si sente stridere la nidiata, strido che si prolunga e diventa umano (non è più nidiace, di uccellini indifesi, incapaci di volare), e nel momento in cui provoca il risveglio sembra addirittura familiare.
[25] La fame libidinosa è al culmine, eiacula (getta), e finalmente tace.
[26] Non tace però chi cercò di sottrarsi alla sopraffazione e non fu ascoltata nelle preghiere (non poté indica la preghiera impotente, la non efficacia della preghiera, non l’impossibilità di pregare), ed in una sola offesa perse tutto, più che nei confronti di se stessa, nella valutazione di chi (Terèo e chiunque come lui) non è in grado di capire (non sa stimare) che l’assolo violento dello stupro non abbraccia, non ama e non è amato, e dunque non tradisce la fede.
[27] Meròpe aggiunge il suo sostegno a Filomèla: non è l’orifizio violato (l’ostio varcato) che strappa la verginità, il taglio bruscamente penetrato fino al cuore del grùmolo (il garzuòlo, o anche grùmolo, è la parte più tenera ed interna di un cespo di verdura) per la fragile opposizione e per la rottura dell’imène (fiacca membrana). Solo l’anima può essere considerata vergine, che può scegliere di esserlo indipendentemente dal sopruso (la verginità è nell’anima).
[28] Il fiume era calmo e la tempesta lo fece straripare (il verbo dirompere è reso transitivo: lo rende dirompente, lo fa straripare), e l’indole che era mite è stata devastata dalla violenza, diventando feroce. Per quanto tu mi voglia tenere prigioniera nel bosco, griderò al bosco il delitto, e dal bosco lo saprà ogni respiro dell’aria, ed attraverso ogni soffio di vento, ogni udito (ogni senso). Griderò perché non fu certo il rispetto, ma l’imbroglio a mentire a Pandìone (ad Atene) ed a tuo figlio Iti, nello stesso modo in cui avviluppando (come torse) una spirale dopo l’altra, poté tradire la mia verginità e la fede coniugale.
[29] Un’arma senza la punta non infilza, così un’ingiuria ingiustificata, non adeguata all’oggetto offeso (disuguale), non offende nella dimensione psichica, dove non c’è conflitto quando c’è un contrasto simile (dove l’ombra e la luce non confligge; bianco e nero non contrastano con ostilità nella mente: chi non claudica non può offendersi se lo chiamano zoppo; confligge è latinismo, da confligěre). Ma il sentire accostare il bianco al bianco, il sentir dire quello che è vero, e l’avvertire smascherato il “pudore” che mira solo a “salvare la faccia” (e la bieca onestà, il volere apparire onesto, l’onestà apparente e quindi falsa) trafiggono Terèo.
[30] Non pronuncerai più nessuna verità  (suono che sarà sincero) e scoprirai come sa ritrattare la parola quando non è più in grado di esprimere alcun pensiero.
[31] Filomèla spera che la minaccia sia mortale, ma la spada che Terèo sfodera taglia la lingua che egli ha afferrato e stringe con l’altra mano. La radice dell’organo (l’ultima lingua) guizza contratta nella gola rantolante (…radix micat ultima linguae, Ovidio, Metamorfosi, VI, 357), che produce solo gutturalità aberranti (aberra), perché vibra, ma non può più scandire i suoni nell’ancia, nella lingua, articolare la voce, che delude i tentativi e rinchiude il segreto della scelleratezza (mortifica e rinserra). Che cosa inventerà Terèo? Che sorte dirà, toccata a Filomèla? Quale equilibrio (bilancia) riuscirà a velare, sulla scena, la recitazione dell’ipocrisia? E quale avveduto espediente avrà il trucco (cambia guancia) dell’attore? Terèo racconta che Filomèla è morta, mentre sa che la tiene segregata, e non si preoccupa minimamente della fondatezza delle sue affermazioni, visto che non potrebbe appoggiarsi alla testimonianza di chi era con lui: si comporta come di solito la spudorata tirannia (la verecondia della signoria; “verecondia” è soggetto di tutto il periodo, e personifica sarcasticamente Terèo), ma il pianto finto (come piange la doppiezza) gli basta per convincere Procne. Il cordoglio sincero di Procne smette l’abbigliamento ricco di ori ed indossa gli indumenti da lutto (le gramaglie), espresso per una sventura (asprezza) diversa da quella reale (lutto vero), che non piange l’inganno nato dal viaggio di Terèo (draglie, cavi di appoggio delle vele, metonimicamente sta per imbarcazione a vela e quindi per viaggio), ed avverte un profondo senso di colpa, attribuendo al desiderio che lo spinse (il lutto è soggetto e personifica Procne) a voler rivedere la sorella la causa della sciagura (intrecciò le maglie, preparò la rete in cui la sorella è caduta, rete del destino, per Procne).
[32] La Vendetta sembra una voce narrante: in realtà parla in terza persona di se stessa. Dalla scintilla feroce alla quale attinse il fuoco (il fuoco della vendetta fu acceso dalla violenza carnale e dalla mutilazione), ora la brace cova in un solo focolare, nell’animo di Filomèla, si nutre silenziosa, sia metaforicamente che realmente, ma prelude allo scoppio di due incendi (cova le due fiamme), perché fu fecondata (s’incinse) dal torto sia per la rivalsa di Filomèla che di Procne. La brace, la vendetta, cova in silenzio, ma non distoglie nemmeno per un attimo lo sguardo dalla vittima, tanto che mentre coltiva l’odio e la rivalsa, tiene gli occhi spalancati ed immobili, come la freccia che punta sul bersaglio e per la quale tutto il resto è vuoto, buio (eclissi); la vendetta, tuttavia, rode con gusto dolceamaro (il gruppo “cea” forma sillaba unica per sinèresi), avverte come una frattura dentro, dovuta a sentimenti contrastanti (scissi: la dolcezza di ripagare con moneta uguale e l’amarezza del doverlo fare).
[33] L’impotenza in cui versa Filomèla escogita un espediente capace di combattere contro il potere e la frode: la parola a cui Terèo non può pensare, il messaggio attraverso il ricamo, che, inudibile, potrà essere udito (chi non ode potrà udire); Filomèla non può parlare, ma trova il modo di farlo in altra maniera: all’orditura metaforica – v. 143 – la vendetta contrappone un’orditura reale). Non si lascerà deprimere dal fatto di poter disporre solo di un rudimentale telaio (rozza spola), che anzi, per quanto primitivo, imprimerà il codice di comunicazione a caratteri di fuoco nella traccia, nel ricamo (purpureasque notas filis intexuit albis: Ovidio, Metamorfosi, VI, 577), gridando con la stessa forza e con la stessa rabbia che avrebbe la voce (gola) della tessitrice nell’accusa provata (indizio; indicium sceleris, Ovidio, Metamorfosi, VI, 578) che Filomèla esprime in modo velato e chiaro nello stesso tempo (maschera e rinfaccia), in modo che soltanto la sorella Procne possa capire. Tesse la veste rara, preziosa nell’ordito, ma soprattutto insolita per il compito che le è assegnato e poi prega una donna che la recapiti alla regina, e dal momento che non può usare la voce, si fa capire con i gesti che sanno rivelare senza parlare.
[34] Già una mano familiare è in agguato (si annida), una mano insospettabile, imminente e voluta dal Fato, la mano che compirà la scelleratezza di uccidere il piccolo Iti (infanticida). Un oracolo aveva annunciato a Terèo che suo figlio sarebbe morto per mano di un congiunto.
[35] La difesa del potere regale è istintiva e profonda (viscerale) e Terèo, più che decifrare davvero il vaticinio, lo sottomette alle proprie paure, assoggetta e non è dritta, non colpisce con precisione “verticale”, ma con approssimazione obliqua, che investe anche l’estraneità (sconfina, nel colpo trasversale). I versi presentano lo specifico in forma generalizzata, intendono affermare che chi gestisce il potere è più attento a mantenerlo con ogni mezzo che a salvaguardare i criteri del buon governo, vagliando di volta in volta e con attenzione le circostanze, ed intervenendo in modo equilibrato e saggio. Per questo Terèo incontra una doppia sconfitta: quella per la quale uccide inutilmente il fratello Ariante, perché teme che possa essere lui a voler uccidere Iti per impadronirsi poi del trono, e quella che deriva dalla prima, per la quale avvolge paradossalmente il cavo alla deriva anziché alla bitta.
[36] Procne srotola la veste, in preda ad una strana ansia, come se dal dono che le è stato recapitato dovesse derivarle una sventura; ma quando vede il purissimo bianco non ancora sbiadito dalle lavature (vergine di ranno; il ranno è un miscuglio di cenere e di acqua bollente che in passato veniva usato per lavare i panni), sul quale splende il rosso vivo delle scene ricamate a mano (il cinabro, solfuro di mercurio, ha colore rosso vivo), si rassicura e sboccia in un sorriso aperto (quasi debordante)… Per poco, perché le scene rappresentate, a causa dello scopo che rivelano, della meta dove si dirigono (dove vanno), spengono subito quella letizia. E le scene vanno dove un segnale, un indizio che solo la sorella ateniese può conoscere, si mimetizza (si confonde) sulla linea d’acqua nella quale una nave (che allude al viaggio dall’Attica alla Tracia) immerge la carena, nelle increspature delle onde. (Abbiamo voluto immaginare che Filomèla non abbia ricamato le scene della sua disavventura, troppo pericolose qualora fossero state accidentalmente viste da Terèo, ma che abbia usato dei codici che solo Procne avrebbe potuto decriptare); [le scene vanno] dove in una boscaglia spicca l’improbabile accoppiamento della vergine Atena con il Dio Pan, così strana rappresentazione da poter alludere solo allo stupro; meno chiara, ma intuitivamente anch’essa allusiva, la figura di Orfeo, l’eroe del silenzio (Anna Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina, UTET, 2002, p. 644, alla voce silenzio), che siede immobile ai bordi (sulle sponde) della boscaglia medesima. La composizione dei ricami è frutto della nostra immaginazione. Attraverso questi segni Procne comprende che la sorella è viva, che è stata violentata ed è tenuta prigioniera, ed è in qualche modo costretta al silenzio.
[37] Nessun accelerante può modificare così prontamente una natura rendendola opposta (dà l’opposto e cambia la natura: l’ordine è inverso, cambia e dà l’opposto), come l’odio che sostituisce (raggiunge) l’amore, colpendolo, cancellandolo, ed almeno equivalendosi ad esso per intensità; “l’accelerante” è naturalmente quello che il ricamo rivela e che genera l’odio, con tale rapidità da non avvertire nemmeno la transizione (la frattura, la diversità fra i due sentimenti ed il momento del passaggio), a causa della rivelazione del ricamo che accusa (denuncia; “dall’intreccio” indica appunto la provenienza, la ragione della metamorfosi sentimentale) e non dà al sentimento nessuna via di uscita, nessun modo di sperare che non sia vero quello che appare, non dà al cuore la possibilità di allontanare il sospetto.
[38] Continuiamo a seguire la versione ovidiana: tempus erat, quo sacra solent trieterica Bacchi. Era il tempo in cui Bacco, ogni tre anni, sfrena l’orgia (non rinuncia) nei boschi di Sithonìa (E42T<Â, nell’antica Tracia, una delle penisolette della Calcìdica) lungo il fiume Ròdope, ed incorona di tralci le donne pronte al rito, e dai bronzi che tintinnano (nocte sonat Rodhope tinnitibus aeris acutis, Ovidio, Metamorfosi, VI, 589) annuncia l’orgia nel fitto delle piante, dove pullulano le baccanti infervorate. Procne si traveste, indossando l’abbigliamento delle furiose baccanti, le furiali / insegne ed interpretando il ruolo di una mènade, il rito in cui si può dare sfogo agli istinti più bassi (furialiaque accipit arma, Ovidio, Metamorfosi, VI, 591) ed in tal modo, con la complicità dell’ombra, riesce a nascondere (dilegua) la scomoda dignità regale. Che ricordi con precisione le indicazioni ricevute, oppure si lasci guidare dall’istinto, il passo incerto, che ha dubbi sul tragitto, perché il terreno è uniforme, non ha sentieri, coperto com’è interamente da erbe, foglie ed arbusti (maschera il sentiero / il sottobosco) e l’ombra è sempre fitta (non ha tregua), alla fine si rivela quello giusto (il passo vero). Quando finalmente Procne giunge alla porta del cascinale dove Filomèla è tenuta prigioniera, il suo grido è più furioso delle orge che imperversano dentro il buio della notte (per il nero): forza l’ingresso, rapisce Filomèla e ritorna indietro con furente veemenza (imperversa a ritroso).
[39] Adesso l’intreccio non è più nelle mani di Filomèla, non è più la veste che lei ricamò (l’ordito non è più la veste): un altro tessitore, il Fato, si affanna per portare a termine il suo lavoro, premurosamente nella notte, più perfido e più ladro (dei destini, della vita, della felicità), perché opera in contrasto con la ricorrenza dionisiaca che impazza, si accinge a “ricamare” con l’ultimo gesto, l’ultima trama rovinosa (l’ultimo dito è soggetto e personifica il Fato tessitore), esso che già in precedenza aveva tradito i desideri e le richieste di Procne, capovolgendoli addirittura.
[40] Al palazzo Filomèla non ha nemmeno il coraggio di guardare la sorella e si sente tanto più in colpa (meschina) quanto più Procne, infuriata contro Terèo, l’abbraccia e cerca di consolarla, come se avesse lei preso l’iniziativa invece che subirla senza poter reagire, come se fosse la mano che muove e non la pedina mossa. Se almeno avesse voce per chiedere pietà (umanità) per la colpa alla quale si oppose con tutte le sue forze (perché contese) e che la disonora… Invece non può fare altro che chiedere perdono piangendo, e la preghiera le impallidisce il volto (trascolora: la preghiera, personificata, impallidisce).
[41] Se ti è stata strappata la voce non fu certo perché acconsentisti al rapporto adulterino, non fu certo per la colpa, ma piuttosto per le minacce che la tua voce lanciò contro lo stupratore (l’accusa che protese). Qualunque supplizio io scelga per vendicarmi, sarà meno atroce di quello che lui ci ha inflitto, ma sono disposta a tutto, non c’è ostacolo che possa governare la briglia e darmi un freno e non c’è forza che possa contrastare il mio furore che è in grado di nuocere, come la dracèna aggredisce e stritola i gusci delle chiocciole (la dracèna è un rettile dei Tèidi, dalla forte dentatura, che si nutre di chiocciole, delle quali stritola il guscio).
[42] Entra Iti, che cercava la madre, e scosso dai rumori e dalla voce concitata finalmente la trova con Filomèla… è sorpreso che la mamma lo guardi a malapena. Procne è ormai dentro la sua ossessione e non riesce ad uscirne (non discende), oscilla con il corpo come chi si culla in una qualche follia (nel modo in cui una follia fa dondolare). Iti corre verso di lei e l’abbraccia e per un attimo la recupera, la intenerisce (la riprende), ma poi scorge con terrore lo sguardo impazzito della madre. …veluti Gangetica cervae / lactentem fetum per silvas tigris opacas (Ovidio, Metamorfosi, VI, 636-637): come una tigre feroce (l’aggettivo disumana è più riferito a Procne che alla belva, che evidentemente non può essere tale, ed è semmai sanguinaria, parola di cui la donna in questo caso diventa sinonimo) trascina dentro l’ombra profonda del bosco una preda appena nata, che fra i suoi denti già lascia tracce di sangue sul terreno (stria); come lo spavento, il terrore crea nell’anima un vuoto che paralizza e perdura, quasi fosse annebbiata prematuramente dal sopraggiungere della morte (prematura si riferisce a nebbia; la seconda similitudine riguarda Iti), nello stesso modo Procne trascina con forza il piccolo figlio e trascinandolo lo svuota per il panico.
[43] Non c’è più voce, non c’è più richiamo che possa fermare Procne: Iti la chiama… e, se potessero, le pareti striderebbero per l’orrore. La spada di Procne ha trafitto il figlio fino al cuore (la madre ha chiesto sangue fino al cuore; il senso è però doppio, e si riferisce anche all’affetto materno che nella follia ha ferito se stesso “fino al cuore”). Il rancore non è ancora appagato, e bolle in pentole di bronzo ed arrostisce allo spiedo le carni fresche del piccolo Iti (scotta allo schidione; lo schidione è un lungo spiedo), ed apparecchia la tavola per il pasto orrendo di cui Terèo si ciberà (e imbandisce, il livore; il livore è soggetto). Terèo siede a tavola e gusta l’infamia, la scellerata mensa (siede Terèo, che gusta l’abiezione) e quando sazio fa eccessivi complimenti alla moglie per la bontà dei cibi (apprezza e si profonde) ormai il corso degli eventi non riesce più a trattenere l’avversione di Procne nel suo esito finale. Terèo chiede del figlioletto Iti e Procne, in preda alla follia, gli risponde.
[44] Come tu me lo désti dentro, così adesso lo porti dentro. Tuo figlio è ora la fame (il pasto ingerito) che si nasconde nel ventre dell’infamia, ed è appena sufficiente per togliere la fame di vendetta al re di Atene ed alle sue figlie per i torti subiti (l’insistenza per significato o per suono, fame, infame, sfama, rimarca il delitto).
[45] Mentre urla, Procne afferra per i capelli la testa di Iti e scuote i suoi occhi morti davanti al padre esterrefatto (cfr. v. 33; nella voce sbatte c’è anche, per contrasto tragico, il muoversi delle palpebre vive). Nell’apprendere che carne ha gustato, Terèo si ribella ed urla, rovescia la tavola apparecchiata ed è assalito da conati di vomito (sforza il bolo) e rincorre le due sorelle (Filomèla è evidentemente entrata al culmine della tragedia) per ucciderle (e già rincorre il colpo che raggela, che dà il gelo della morte; il colpo è complemento oggetto). Ma la pietà di Zeus interviene, commossa, e trasforma i protagonisti della tragedia in uccelli: Terèo in ùpupa, Procne in rondine, Filomèla in usignolo; sulle piume di tutti e tre, sfumature di rosso ricordano il sangue del misfatto.

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Verba volant, scripta manent…

 ADESSO ANCHE LE PAROLE RESTANO

________________

E VEDE QUESTE DUE CHE ABBRACCIATI, ABBRACCIATI VOLA
E LUI GLI INTERESSA QUESTE DUE ANIME 
(Roberto Benigni, Inferno, Canto V, RAI)

* * * * * * *

Le parole volano, gli scritti restano. Un motto che va sicuramente aggiornato, perché la moderna tecnologia incide su nastro o in Kb anche immagini e suoni: tanto che possiamo ormai affermare che sicut olim scripta, nunc verba quoque manent (come un tempo gli scritti, adesso anche le parole restano).
Le parole dunque non “volano” più, e chi le dice dovrebbe usare la stessa prudenza, la medesima assennatezza che una volta si suggeriva agli estensori di documenti scritti, prove incontrovertibili del pensiero espresso.
Eppure nessuna accortezza sembrano manifestare le sfacciate ignoranze contemporanee, che non hanno alcun pudore, né forse possono averlo, se questo è frutto di consapevolezza della cosa di cui aver ritegno.

Così Umberto Broccoli può ostentare un Latino dalla grammatica improbabile che esiste solo nella sua mente e spacciare sinestesie per ossimori, o citare a vanvera il Manzoni (http://www.odanteobenigni.it/?p=815); professoroni universitari possono permettersi svarioni da alunnetti (l’Onorevole Professor Francesco Boccia dichiara per radio, di un giornalista: “Spero non cadi nella tentazione”…); giornalisti e personaggi di vario genere parlare in modo sgrammaticato (http://www.odanteobenigni.it/?p=1548); il Nobel 1997 per la Letteratura, Dario Fo, al settimo posto nel 2007 nella lista dei maggiori geni viventi (The Daily Telegraph) può riferire che Dante ha scritto il “De vulgarIS eloquentiAM” e dire, del trattato, inaudite sciocchezze radiofoniche, in un Italiano per giunta precario per un genio insignito a Stoccolma (http://www.odanteobenigni.it/?p=782); e Benigni può sproloquiare nefandezze su Dante, non curandosi che qualche meno abbagliata e più diligente persona possa accorgersi della sua vergognosa incompetenza
(http://www.odanteobenigni.it/?p=1382).

Se le parole non “volano”, si librano però fitte mandrie di asini, non più bizzarre creature della fantasia, ma incarnate metamorfosi collodiane, che ragliano ignoranza sbattendo ali pelose in foschi cieli di decadenza… un tempo azzurri, per le rincorse delle rondini.

Amato Maria Bernabei
19 Agosto 2013

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Mia Madre

.
.
…………………………Ho sempre saputo poco della vita di mia madre, ancor meno della sua giovinezza, meno ancora dell’adolescenza, niente dell’infanzia e della sua nascita. Perciò ho voluto tracciare a grandi linee le tappe della sua esistenza, immaginandola bimba, fanciulla, giovinetta, donna, e quindi guardando con gli occhi dell’anima la sua maturità, la sua vecchiaia, ricordando la morte direttamente ed esclusivamente vissuta. Tutto in un’aura sognante, di delicata mestizia e di profonda commozione.

_____________________

 

BIOGRAFIA

* * * * *

9 Luglio 1906

Forse pioveva, ed era l’aria
immersa in quel sapore
umido di pietre accalorate,
quasi fumanti
aliti di stalle. O forse
in un azzurro senza ombre
il sole profumava gli altipiani,
e dondolava il vento
foglie e canti
inaccessibili.
Nascevi,
tu come tanti fiori,
e già chiedevi petali
al tempo.

Infanzia

Sappiamo che durò
da soffio a soffio
la primavera,
che fuggì con ali
ingorde di rapace,
nel solare spazio
della stagione che tradisce,
e si piegò tradita
perdendo il volo.

Ma fu ridente,
spensierata e dolce
di giuochi e di lusinghe.
Colse negli occhi neri
notte e lampi
dei foschi vortici
montani,
gridò stelle purissime
scheggiate
da ventate taglienti,
si bagnò negli odori
che rincorse
nei vicoli incrociati tra le case
strette
in un affollato
desiderio.

E si stupì delle sere
sepolte nei silenzi di neve,
ed inseguì seduta al focolare
le frementi spirali
della fiamma e le faville
effimere…
Come sulla fuliggine del muro,
in una vampa sterile,
si propagava rapido
il sogno.

O rise l’abbandono spensierato
degli incontri festosi,
l’intesa solidale
che si accende
nei giuochi di bambina
fervidi;
pianse la rabbia del capriccio
e dello scontro ostile,
o tenne il broncio… quel velo
dell’infanzia
sopra l’onda che scintilla.

Nel letto, a sera, si sentì sicura,
se colse da uno sguardo intenerito
una luce
che avrebbe stemperato
l’ombra; o forse paventò
le gigantesche
braccia del buio e si raccolse
come in un guscio,
strinse gli occhi
ai fantasmi della mente.

E si compiacque, in una luce viva
come nessuna, di vezzi e gestri
e di carezze lievi sui capelli
d’inchiostro,
chiese più volte al silenzioso
vetro
se fosse bella.

Crebbe.

Adolescenza e giovinezza

Forse lo seppe dal silenzio
strano di oggetti familiari,
dal perduto suono
dei giuochi,
da contorni più chiari e senza frange,
dalle favole stinte…
o da uno sguardo che le scese
in cuore.

L’acquarello nebbioso
e senza bordi
era svanito.
Ma s’infiammava un orizzonte
chiaro di nuovi sogni…
il canto delle sere su ricordi
tremanti, l’invaghita
luce degli occhi, il volo
di pensieri fruscianti, l’abbandono,
l’improvviso trasalimento,
il vento senza voce
di un dolore
dolce, l’incantato
smarrimento.

Ora lo specchio
complice tramava
tele sottili di studiati sguardi,
di colori appoggiati all’incarnato
fresco del viso, di tessuti
arrendevoli, venati
di merletti,
e di capelli sciolti
ad invitare il vento.

Un suono di campana sul raccolto
paese già chiamava
al rito,
e nell’aria di festa, dal groviglio
di strade, lungo l’erta, convergeva
la gente ad un incontro.

Distolta dallo specchio
s’incamminava al canto, alla preghiera
ed al segreto desiderio.
Così lo sguardo divideva il tempo
tra i fiori dell’altare
e il fuggitivo lampo,
e la mente
tra il pensiero devoto
e l’invadente passo del cuore.

4 Ottobre 1930

Forse pioveva, ed era l’aria
immersa in quel sapore
umido di legna, già pervaso
di varchi di cantina,
o forse il sole
scioglieva da un cristallo
senza ombre le tinte
accese dell’autunno,
e il vento agli altipiani
dondolava foglie e canti
inaccessibili…

…e nello sguardo vago
le scintille d’argento dei vallivi
gàttici. Tremavi,
come se fosse nella mente
accesa un’onda, come il velo
d’arancio che la mano
spandeva ad ogni passo,
come il candore
della tua speranza.
Tremarono
le luci dell’altare
nei fumi dell’incenso,
fuggì la voce debole
nel timbro sontuoso
delle canne.

Maternità

Ora nel sogno respirava
inquieta un’altra fiamma
e si animava un tempo
di dolcezze ineffabili,
di riti
antichi e misteriosi,
di struggenti
intese: sorrideva indefinito
un volto…
e prese forma,
e richiamava
tenerezze impulsive, angosce,
canti, cullati errori
della mente, caldi
presagi inavverabili,
tenaci ardori.
Ma passò da soffio a soffio
la primavera,
e si ritrasse il volo
intimorito.

Maturità

Fu quando si spezzò
l’ordito fragile,
quando un timore
fu certezza, quando
irruppe dal sereno
all’improvviso
un lampo.
Si smarrivano le trame
cadendo come segni
di un autunno precoce,
ritesseva senza scampo
il telaio impazzito.

Ma il cuore ardì
comporre altre speranze,
si rifugiò tenace
nel pensiero, fervido
di promesse,
e fu colpito ancora,
come un cervo
che s’impiglia nei rami
correndo
ed è finito.

Vecchiaia

Così cadde la sera.

E dentro gli occhi
il sole si spegneva
in raggi bassi e lenti,
stormivano carezze
dell’anima smarrite.
Non c’era un’illusione
che fuggisse
dallo scrigno sepolto,
non restava
che un’àncora di grani
tormentati
da una speranza ultima.

26 Novembre 1986

Cadevano le foglie,
ultime foglie in una sfera
azzurra che gridava:
sembrava che ci fosse
luce soltanto.

Venne il momento altissimo
dell’ombra,
venne improvviso il vento
che cancella,
venne il silenzio
che più non si varca.

                       24 Gennaio / 9 Febbraio 1989

Amato Maria Bernabei

UN COMMENTO

Poesia altissima, caro amico, capace di toccare ogni corda dell’anima, per rinverdirne e, insieme, lenirne il dolore… Mi sono ritrovato “fratello” nelle pause, nelle parole e nella musica. Ho ripensato alla mia, di madre, alle cose che non le ho chiesto, al suo universo di fanciulla, alle ferite segrete, alle paure… L’ultima volta che sono andato a farle visita, le ho dormito accanto: mi ha svegliato con una carezza lieve; mi ha detto: eri inquieto, stanotte… Grazie, caro amico.

Professor Pasquale Matrone

 

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A proposito del nominalismo

A proposito del nominalismo

Stat rosa pristina nomine. Nomina nuda tenemus.
Permane la rosa originaria nel nome. Noi abbiamo soltanto nomi nudi.
(Bernardo Morliacense, De contemptu mundi)

Con questa citazione Umberto Eco chiude Il nome della rosa, schiudendo il senso al titolo del romanzo.
L’intelligenza latina distinse il tutto (universus) e ciascuna cosa (omnis), l’insieme (cunctus) e l’interezza (totus), attraversando l’arco che va dal tutto assoluto al particolare, al focus come messa a fuoco della singolarità, attraverso le varie categorie (ad esempio l’insieme dei senatori: senatus cunctus) ed il tutto relativo (l’integro sincero: tota Graecia), ed ogni distinzione è in un modus verbale che non è falso non essendo vero, che non è falso né vero, perché ha limiti nel contenere in parte o nel non distinguere le parti: dire universo, includendo tutto, trascura l’attenzione sulle sue componenti. Eppure non c’è vocabolo che neghi il contenuto che nel segno attesti, quello che effettivamente annuncia.
Quando il talento mentale, l’acuta stoffa della mente, è assediato da un pensiero che provoca angoscia in chi lo nutre (masochista) e in chi ne viene a conoscenza (sadico), che degenera in un opprimente assillo per tutti, rivelandosi in fondo cieco, incapace di pervenire alla verità, non si comprende come una prospettiva impossibile, che dà importanza a ciò che non può conseguire l’esito sperato, che dà cioè rilievo a ciò che non acquista, possa diventare attraente. Ricercare una montagna di carbonio puro cristallizzato (diamante) è una follia, e si rivela nocivo in modo estremo se diventa spina, se diventa un’ossessione.
Se il nome della rosa è solo un nome, o se invece è una rosa (predica una rosa, annuncia, indica una rosa), o ancora è la generalizzazione, il concetto di rosa, che contrasta con i casi particolari, cioè con ogni singola rosa, al punto da essere guasto di significato, perché fisicamente inesistente, o se infine esso (il nome) qualunque vedere infine sposa, indica ogni esperienza vissuta dal singolo essere umano (secondo la di lui mappa del mondo) di fronte a un oggetto considerato, che cosa cambia di quel fiore di cui parliamo e che si lascia vedere e che per ciò stesso deve esistere?
Esiste o non esiste quel fiore? non ne stiamo forse parlando? è cosa plausibile farlo o è cosa discutibile? se neghiamo precisi significati nell’uso delle parole ed ogni possibile vero dei medesimi – ammesso che per vero intendiamo la stessa cosa – di che parliamo? La comunicazione diventa impossibile. E poi siamo sicuri che il solo ad aver ragione sia chi nega ogni possibile verità? E se davvero tutto è negabile nel suo significato, a che pro scrivere, se tu nulla capirai, che tu sia morto o vivo? (Il sarcasmo gioca sui presunti “indefinibili” significati dei due termini).
Se quando scrivo la parola “lettore” tu che leggi intendi un’aquila che allarga nel volo le sue grandi ali, allora evidentemente nessuna parola si collegherà più all’oggetto di cui è il segno, e fiore non vorrà più significare fiore, ma qualunque cosa tu voglia; oppure la tua mente sarà velata, cieca al linguaggio, o avrai il candore schietto di un artista, che travisa favolosamente la realtà; oppure la realtà stessa sarà sconvolta al punto che vedrai spuntare peli da un tuorlo, perché potrà verificarsi qualunque cosa impossibile. Si vede dunque, con certezza, che per comunicare dovremo pure attribuire un senso alle parole che usiamo e che indicano sempre qualcosa di esistente, nell’accezione non solo di cosa realmente tangibile, ma anche di prodotto mentale (il concetto di cavallo, o l’astrazione di una qualità come ad esempio la bellezza) o di natura sentimentale (l’odio “esiste”, pur non avendo certo una sostanza materiale), o ancora di sensazioni (la tonalità emotiva del dolore), di propriocezione (il senso di posizione dei movimenti degli arti e del corpo), di spinte interiori (attrazione, fisica o spirituale) e via dicendo.
La generalizzazione, soprattutto, sembra creare difficoltà. Si dice ad esempio che la bellezza non esiste perché nessuno l’ha mai incontrata, ma è evidente che essa è in tutte le cose che diciamo belle, perché di quella idea incarnano le caratteristiche. Come si è visto in precedenza, non necessariamente una voce della lingua deve riferirsi a qualcosa di concreto: chi ha stabilito che un segno verbale debba alludere ad un corpo e non possa indicare un concetto che include tutti i casi particolari senza trascurarne alcuno? Nessuno ha mai visto il pensiero nella propria mano aperta, eppure tutti sappiamo che cosa vogliamo intendere allorché ne parliamo, sia quando ci riferiamo ad un’espressione unica del pensare che quando alludiamo alla facoltà.
La natura umana dispone di tre versi, tre meccanismi difensivi nei confronti del sovraccarico di stimoli che il mondo circostante invia ai nostri sensi, tre modalità psicologiche tramite le quali disegna la mappa del mondo, che ciascun individuo a modo suo descrive, traccia in modo differenziato: generalizza, deforma, cancella, ovvero e ad esempio organizza il mondo per categorie di persone o di comportamenti, modifica la realtà interpretandola, attua delle rimozioni o delle esclusioni (Giulio Granata, PNL, la programmazione neurolinguistica, Milano, De Vecchi Editore, 2001, pp.27-28). Dal punto di vista che ci interessa crediamo che la generalizzazione sia un universale non metafisico, ma comunque sovrasensibile, dimensione in cui albergano come bagaglio a-posteriori gli effetti dell’esperienza umana che diventano geneticamente a-priori dopo un lasso di tempo non quantificabile. Vale a dire che l’umanità, in un arco temporale x, fa esperienza della realtà secondo le precise modalità della propria natura e ne ricava delle conoscenze a-posteriori che vengono profondamente impresse nel patrimonio genetico e trasmesse in eredità come conoscenze a-priori alle generazioni successive. L’ottava, dunque, si richiama all’universale solo nel senso della generalizzazione di cui si è parlato  nelle strofe precedenti, ovvero dei casi particolari che vengono sintetizzati (sia pur in un senso molto più ampio) in una categoria della quale, nel modo in cui si è detto, non si può sostenere la non esistenza.
Non estraete dal vostro ingegnoso alambicco razionale insulse congetture, illustri dottori occupati in questioni del genere, affinché non debba mutare il mio giudizio e considerare menomati i vostri cervelli, intenti a dilapidare il patrimonio del vostro tempo e delle vostre risorse nel ricercare nocche ricoperte da baffi (sarcasmo che intende condannare futilità e vuotezza degli oggetti di interesse sui quali si arrovellano menti tanto qualificate): avviate dispute su “grattacapi” più seri e lasciate alle parole i loro chiari significati convenzionali, limpidamente emergenti dai contesti d’uso.
Nell’Eden delle parole non ci sono “nomi nudi”, nomi che si aggirino senza abiti, senza la veste semantica (significanti senza significato), né, per giunta, c’è una divinità adirata per una nudità che si riconosca e si dichiari a causa di una colpa commessa. Il paradiso terrestre verbale è il vortice che girando centrifuga le parole che esprimono e decorano i pensieri, separandole secondo le loro caratteristiche; le parole vuote sono soltanto quelle combinazioni accentate di sillabe (quasi una lallazione) che suonano sorde, vuote di senso per l’orecchio (qualunque significante privo di convenzione, ovvero di senso concordato)  e che un soffio d’aria già disperde.

ALLA PROSA ESPLICATIVA SEGUONO I VERSI

Universus et omnis, cunctus, totus,
il tutto ed ogni, l’insieme e l’intero,
l’intelligenza fra l’immenso e il focus
per dove assembla o l’integro è sincero,
ed ogni distinzione è dentro un modus                                        5
che non è falso non essendo vero.
Eppure non c’è lemma che contesti
il contenuto che nel segno attesti.

Quando l’acuta stoffa della mente
ha un sadico pensiero masochista                                            10
che per tutti degenera opprimente,
ma infine ha la mancanza della vista,
non si rivela l’ottica attraente
che dà rilievo a ciò che non acquista.
È folle una montagna adamantina                                              15
ed è funesta se diventa spina.

Se il nome della rosa è nome e basta,
e se quel nome predica una rosa
o della rosa è sintesi e contrasta
col senso singolare della cosa                                                  20
(tanto che quel che dice è roba guasta)
o qualunque vedere infine sposa,
¿che cambia di quel fiore che si vede
e che d’essere visto ci concede?

Esiste o non esiste? ne parliamo?                                             25
parlarne è discutibile o sincero?
¿di che parliamo più quando neghiamo
ogni senso del dire ed ogni vero,
se questo, almeno, è quello che intendiamo?
Chi tutto nega è il solo veritiero?                                                30
¿E se tutto è negabile, che scrivo,
se nulla capirai, da morto o vivo?

Se intenderai, quando dirò lettore,
il rapace che allarga il volo al cielo,
allora il fiore non sarà più fiore,                                                  35
o porterai sugli occhi qualche velo,
o di un artista vero avrai candore,
o spunterà dal tuorlo qualche pelo…
è dunque certo che per dialogare
un senso, il nome, dovrà pur cantare.                                       40

L’universale, soprattutto, affanna
e smentisce ch’esista la bellezza,
se non averla vista il senso appanna
e impedisce riscontro e concretezza:
¿ma chi guardò il pensiero in una spanna,                                45
per quanto la parola abbia contezza?
Chi prescrisse che un segno abbia la pelle
e non l’idea che abbraccia e non espelle?

L’umanità nella natura ascrive
tre versi per la mappa che pennella                                           50
e che ciascuno a modo suo descrive:
generalizza, adultera e cancella;
però, per quanto attiene a quel che scrive,
l’ottava l’universo non appella
se non come sorpassa il singolare                                            55
ed oltre i sensi mira a dilatare.

Non distillate allora frasi sciocche
voi dalle menti dotte ed elevate,
ch’io non muti il giudizio in menti tocche
intente a sperperare le giornate                                                 60
nel ricercare i baffi sulle nocche:
di crucci d’altro rango disputate!
Lasciate alla parola nel contesto
il senso che diventa manifesto.

Non c’è nome nell’Eden che si aggiri                                         65
senza l’abito proprio che lo chiama,
non c’è divinità, poi, che si adiri
per una nudità che si proclama:
il paradiso è il vortice che giri
centrifugando il verbo che ricama,                                             70
e la parola vuota è quell’accento
che suona sordo e che disperde il vento.

Amato Maria Bernabei
da L’infinito piatto, poema polemico-satirico inedito in ottave

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In ricordo del Professor Francesco Nicolosi

IN MEMORIA DI UN ILLUSTRE PROFESSORE

La Rete è un pozzo di paccottiglie dove i rari oggetti di valore affogano. Alcuni di essi risultano proprio ignorati o sprofondati senza possibilità di recupero. È indecente che ci sia un’inondazione di miti di nessun valore – quelli effimeri del mercato -, e che figure di rilevante spessore culturale ed umano siano del tutto ignote.

Professor Francesco Nicolosi

Ad una di queste certamente io devo l’amore per la Letteratura, la raffinatezza del gusto letterario, il rigore nella formulazione del pensiero, la cura dello stile (nei limiti delle doti che la natura mi concesse), e perfino la crescita dell’auto-stima, della fiducia nelle mie capacità di eloquio e di scrittura, grazie all’apprez-zamento sempre dimostratomi. Alludo al Professor Francesco Nicolosi, che ebbi la fortuna di avere come insegnante di Italiano nel triennio 1961-62, 1962-63, 1963-64 al Liceo Classico “Gian Battista Vico” di Chieti.
Riconoscente a quanto da lui ricevuto, intendo con questo articolo “eternare” la sua immagine e la sua perizia.
Contemporaneamente rendo omaggio all’amico d’infanzia ed egregio Professore Filippo Canci, drammaticamente scomparso nel maggio dello scorso anno, pubblicando un suo intervento in memoria del comune docente su “La Cronaca Locale d’Abruzzo” del 29 Dicembre 2005, n. 3.

Amato Maria Bernabei

Un ricordo della vita e delle opere
del professor Francesco Nicolosi
scomparso tre anni fa, ha lasciato un vuoto incolmabile

Di Filippo Canci. Tre anni fa, allo spirare dell’anno solare, veniva improvvisamente a mancare Francesco Nicolosi. Uomo vigoroso e vitale, leggiadro di schietta bellezza etnea, cordiale, gioviale, ironico, passionale quanto basta, amante della buona e non micragnosa tavola, figlio illustre e devoto della sua amata Sicilia, non meno innamorato dell’Abruzzo, sua terra di adozione, ha lasciato un vuoto profondo, soprattutto qui a Chieti, nei suoi amici e nei suoi alunni, non meno che nella sua compagna, Maria Rosaria Consoli, e nelle figlie, le dottoresse Marisa e Stefania. Così negli altri parenti tutti.

Nato nel 1923 a Catania, antica nobile città della Sicilia ellenizzata, vi compì i suoi studi, fino alla laurea in Lettere conseguita con lode addì 3 dicembre 1944. Nell’estate 1943, drammatica per la Sicilia e per l’Italia,  poté assistere ventenne agli aspri combattimenti tra i soldati tedeschi attestati sulle pendici dell’Etna e quelli britannici dell’VIII Armata sbarcati nel corno sudorientale dell’isola. Avrebbe ricordato, soprattutto, il valore con cui combatterono i canadesi della I Divisione di Fanteria, quelli che avrebbero combattuto, alcuni mesi dopo in Molise e in Abruzzo, quelli che dopo un’epica battaglia casa per casa, conquistarono, a prezzo di alte perdite in vite umane e in feriti, la città di Ortona a mare, la Stalingrado d’Italia. In Abruzzo egli arrivò, per insegnare ai giovani di questa Provincia di Chieti, nel 1948: aveva 25 anni. Cominciò con la scuola media di Atessa (“Jeder Anfang ist schwer!” [1] avrebbe ricordato con tono autoironico molti anni dopo). Dal 1950 fu a Chieti, prima nella Scuola media Giovanni Chiarini poi nell’Istituto magistrale Isabella Gonzaga del Vasto, infine nel Liceo ginnasio Gian Battista Vico, docente di Lettere Italiane e Latine fino ai primi anni sessanta, quando passò a dirigere in successione, quale preside in ruolo ordinario, i licei classici di Ortona e di Lanciano ed infine l’Istituto magistrale di Chieti nella nuova e propria sede alla Civitella.

Aveva frattanto accompagnato l’insegnamento con esemplari, nitidi saggi critici dedicati al grande conterraneo Giovanni Verga, con speciale riguardo al Mastro don Gesualdo. L’anno scolastico 1977-78 fu l’ultimo anno di servizio nella scuola media superiore: dal 1978 infatti egli lavorò presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università Gabriele D’Annunzio. Divenuto docente universitario, fu titolare della cattedra di Filologia italiana e incaricato di Letteratura italiana dall’anno accademico 1983-84 a quello 1998-99. In tale periodo la di lui attività scientifica si estese da Capuana e Pirandello a D’annunzio e Pomilio; da Sciascia, Bufalino e Buttitta alla Maraini e a Tobino. Collaborava intanto a vari periodici letterari e veniva chiamato nelle giurie di molti premi letterari, ormai personalità di fama non solo in Abruzzo sibbene anche in Sicilia e in campo nazionale.

Studioso convinto della stretta interdipendenza fra struttura socioeconomica e vita civile e letteraria, Francesco Nicolosi impostò la propria attività di critico letterario sulla storia e sulla filologia, coniugando in tal modo l’eredità storicistica di Francesco De Sanctis e quella idealistica di Benedetto Croce con gli apporti più aggiornati della critica strutturalistica e stilistica. La produzione saggistica di lui, pertanto,  si fa apprezzare per sicurezza di metodo, per puntualità di indagine e di raffronti filologici, per felicità ermeneutica, per chiarezza ed eleganza di stile. Vide infine postuma la luce l’ultima fatica di Nicolosi Pirandello e l’altre. Postfazione di Gianni Oliva, Casa editrice Rocco Carabba, Lanciano 2003, pp. 173, Piccola Biblioteca Carabba 2, euro 13,50. Il volumetto, evidentemente frutto di un lavoro editoriale affrettato, che ci si augurerebbe episodico, presenta purtroppo non pochi refusi, a cominciare da quello incredibile sulla costa della brossura. (Detto per incidens, l’adozione dell’elaboratore elettronico, se facilita e affretta i tempi di stampa, non per questo rispetta l’esattezza e la perfezione, a meno che la macchina non venga sorvegliata dall’attento occhio umano). In questo studio, che assume il valore di ultima testimonianza della sua militanza di critico e, come nota l’Oliva, di “estremo confronto autobiografico con il suo autore”, il Nicolosi esplora il rapporto fra Luigi Pirandello e il mistero trascendente dell’essere e della vita, di quel totalmente Altro, secondo la felice espressione di un famoso teologo [2]: dalla giovanile silloge poetica Mal giocondo agli ultimi drammi. E l’assunto sostenuto è che questo tema è sempre presente nell’arte pirandelliana ed è più importante di quanto la critica non abbia sospettato o non voglia ammettere.

Professore severo e cordiale, oltre che giusto, così lo ricordo da quando (era l’ottobre 1964 e in quell’anno scolastico ricorreva il VII Centenario della nascita di Dante Alighieri) lo ebbi mio insegnante al Liceo Classico di Chieti. Con i miei compagni di allora rammento, oltre all’indiscussa preparazione, la personalità spiccata e compiuta di uomo del Sud, di galantuomo e di gentiluomo, l’umanità profonda e varia di docente e d’intellettuale, la severità sollecita di educazione di tutti gli allievi, le battute ironiche ed allusive lanciate nel suo persistente accento catanese. Ricordo, soprattutto, una frase, che mi confidò agli inizi della mia carriera d’insegnante nel Liceo classico di Ortona e che non ho potuto dimenticare: “Bisogna amare gli alunni”. E perciò, in forza di questo, Francesco Nicolosi fu ed è professore amato e rimpianto.



[1] Ogni inizio è difficile (ndc).
[2] Karl Barth, Lettera ai Romani (ndc).

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Papa Roberto I, Sua Santità Benigni da Misericordia

dai DIECI COMANDAMENTI sul Sinai
ai Dieci Comanda-(de)menti sul Si-Rai

4 milioni per 10 Precetti: il mercante nel tempio, o Simon Mago…

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Tempo verrà in cui gli uomini non sopporteranno più la sana dottrina; ma, avidi di ciò che può solleticare le orecchie, si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole” (2Tm 4,3-8)

Predicatorio, scontato:
non fa né ridere né pensare…
Ho spento la tv.
(Vito Mancuso)

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La lunga analisi che segue non vuol essere una difesa delle verità e degl’ideali della Chiesa, ma soprattutto un’accusa a chi, nei panni del catechista ortodosso, rivela più volte, nel corso del suo “ammaestramento”, un pensiero eterodosso, paradossalmente acclamato dall’ortodossia. Si sottolinea, in questa ampia riflessione che si sforza di essere il più possibile accurata, l’interpretazione troppo spesso disinvolta, quando non arbitraria e per giunta frutto di una malsicura padronanza dottrinale, dell’insegnamento cattolico, mossa da nessun altro intento che da quello di costruire un ameno, ma presuntuoso, show per intascare la “povera cifra” di qualche milione di Euro per tre ore di “sudato lavoro”!

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PRIMA SERATA
i Comandamenti verticali

Incensazione dei 10 Comandamenti,
in linea con il Magistero ecclesiastico,
al fine di ottenere il consenso popolare
e delle Gerarchie della Chiesa

 

Preambolo generale

Benigni: la conversione… in Euro (4 milioni!)

…..
Il “parere del giorno dopo” è quello che dev’essere venduto, quello che, come la notizia del motto radio-giornalistico di Antonio Preziosi, “non può attendere”; il parere di chi, trafelato, scrive, o dice, troppo spesso senza aver riflettuto, o addirittura senza aver debitamente prestato occhi e orecchi a ciò che riferisce. Ci sono fatti che solo una reiterata attenzione, una diligente e lucida analisi possono giudicare con oculatezza, con ragionevolezza, in modo il più possibile adeguato.

Così sul Decalogo dell’onnisapiente (onnisciente suonerebbe un po’ troppo metafisico) attore-regista-poeta-costituzionalista-dantista-teologo-moltoaltrologo di toscani natali, ho evitato di pronunciarmi per settimane. Ora, data la riproposizione dello “show” da parte della Rai in occasione dell’ultimo Natale, ho deciso di rendere pubblica la mia “meditata” opinione.

I principali (fin troppi) lodatori delle “poliedriche prestazioni culturali” di Benigni esaltano di lui soprattutto un merito: il comico avrebbe indotto le folle a riaprire certi “dimenticati” volumi, a “rimeditare” su certi bistrattati argomenti, a seguire finalmente delle serate diverse dai soliti beceri intrattenimenti del servizio televisivo pubblico. Avrebbe promosso nientemeno che la conoscenza di Dante, restituito dignità alla Costituzione Italiana, resa “fresca” e accessibile la Bibbia… Perché egli “vanta la capacità rara di tradurre in popolare ciò che è in realtà coltissimo” (Andrea Scanzi [1]). Qualcuno dovrà spiegarci come si potrà mai “tradurre in popolare” ciò che è coltissimo (paradossale pensiero di moda)… Sta di fatto che pochi sono quelli che hanno rilevato, dietro il frastornante chiasso del prezzolato “CONTASTORIE”, le abissali lacune, gl’incalcolabili messaggi distorti, i rozzi travisamenti che non potranno mai essere ingredienti di un’efficace e salutare divulgazione, tantomeno della crescita culturale della platea, e gioveranno sempre, invece, a creare largo e vuoto schiamazzo dei media, a vantaggio esclusivo (economico, naturalmente) dello scaltro onnidocente, dell’unico “maestro” in grado di salire sulla cattedra di tutte le discipline.

LA CONVERSIONE… IN EURO!

http://www.liberoquotidiano.it/news/spettacoli/11731772/Roberto-Benigni–dalla-Rai-4.html
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Nel mezzo dei fatti (Orazio, Ars poetica, 148): il decalogo di Papa Roberto I

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Qualunque ragione si adduca, trovo oltraggioso che in tempi di grave crisi economica, in cui si legge di gente che si nutre frugando tra i rifiuti, in cui milioni di cittadini vivono nella disoccupazione, offesi nel diritto e nel decoro, in cui altri milioni più “fortunati” hanno risorse di poche centinaia di Euro al mese, un Ente pubblico (come ha voluto la Cassazione [2]), sperperi 4 milioni [3] per pagare poche ore di lavoro di un comico che sale sul pulpito con l’anima rapita dal divino… scintillio della moneta! [4] Pretendere ed ottenere un simile compenso per parlare dei Comandamenti è per di più come allestire un mercato nel tempio, o peggio ancora, è macchiarsi di Simonia, di commercio del sacro! [5] “Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai pensato di acquistare con denaro il dono di Dio” (At 8,20). “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). Senza considerare che i Dieci Comandamenti del dio Benigni non sono stati né show, né catechesi. “SoTutto” è semplicemente salito sull’ambone dell’ovvietà e dell’ipocrisia, stimolato dal lucro smodato, non certo dal sentimento religioso, né da quell’amore di cui tanto si riempie la bocca e che sa esprimersi appena come desiderio di leccare come un cagnolino gli uditori (o addirittura “d’ignudarmi, propio, e buttammi addosso… fare all’amore propio in contemporanea… non con tutti voi, ma con ognuno di voi” [6]), sentimento proprio sincero di un “innamorato” capace di annullare uno spettacolo in Piazza San Marco, a Venezia, perché troppi avventori dei bar avrebbero guardato un suo show gratis! [7] È salito sulla pedana per impersonare un ruolo che richiede intima convinzione perché appaia sincero e che diviene invece occasione di cattiva recitazione e di noia, sospetto di raggiro, quando poggia su basi false. La finta adesione all’argomento è tradita da certe enfasi forzate, da ironie che sanno più di beffardo che di sana e scherzosa simpatia per l’oggetto trattato, o da manifeste contestazioni che mettono in rilievo con malcelata acredine vere o presunte lacune della Chiesa, contro la quale, nel caso del Sesto Comandamento, bisognerebbe sollevare una class action, in modo più nostrano un’azione collettiva, per la colpa di aver creato generazioni di frustrati sessuali. Chiesa che non solo non recrimina (nemmeno di fronte ad asserzioni “eretiche”, ma si genuflette davanti al comico, assumendo ad esempio un cotanto ispirato profeta! Fenomeno incomprensibile se non si riflettesse sul fatto che la mente e l’animo degli uomini subiscono l’influenza di limitanti dinamiche tese a rilevare dall’esperienza ciò verso cui essi tendono, ciò che essi cercano, ciò di cui hanno bisogno… Un po’ come un assetato legge “BAR” nell’insegna “CAR” di un’autofficina (freudiane sviste che nella Psicopatologia della vita quotidiana sovrabbondano). “Ognuno vede quello che vuol vedere e nessuno quel che è!” commenta un certo “imparziale” sulle pagine della Rete. E magari io vedo la mistificazione e gli spropositi perché li cerco e… li trovo! Né voglio credere che la Chiesa avalli un’operazione perfino pericolosa per il semplice vantaggio della “pubblicità”… Possibile che prelati o semplici sacerdoti possano approvare l’insegnamento rabberciato ed eterodosso del tuttologo toscano? perfino il teologo Bruno Forte, o addirittura il Papa? Che non si accorgano minimamente dell’approssimazione e degli spropositi della predicazione benignesca? Senza contare certi smaccati consensi della stampa, anche cattolica, e il fanatico entusiasmo di centinaia di migliaia di fan! Mi chiese una volta una signora: “Sua figlia dorme ancora?”. “È uscita”, le risposi. “Allora la lasci dormire”, ribatté. Probabilmente, come si diceva, la sostanza del fenomeno è in questo abito della psiche umana, che coglie la realtà non nella fisionomia che le appartiene, ma nelle forme che gli aggradano e che si attende. Diversamente non appare possibile che un bestemmiatore (link) persuada pure interlocutori smaliziati che “la bestemmia è una cosa orripilante”; che un attore che pretende ogni volta milioni di Euro per le sue lacunose messinscena insegni che è abominevole rincorrere l’idolo del denaro; che chi ieri parlava dei Comandamenti in modo sarcastico e blasfemo (You Tube) ammonisca oggi con sermoni mistici da un pulpito che deve solo raccogliere denaro! (E non mi si parli di “conversione”, che in questo caso altro non potrebbe essere che “un cambio di divisa” dell’iperbolico incasso ricavato dalla prestazione televisiva).

Prima di articolare l’analisi della caricatura esegetica di Roberto I (quando la smetterà Benigni con queste empie messe in scena?) è opportuno osservare che “il genio” è già “infedele” nel racconto: la Bibbia, ad esempio, non parla proprio della “faraonessa” che vede il piccolo Mosè ridere galleggiando nel panierino, ma piuttosto del bimbo che piange quando la figlia del Faraone apre il cestello che ha ordinato alle serve di portarle (Esodo, 2,6). Altrettanto manipolata, fino al ridicolo, è la rappresentazione di Dio che si era dimenticato di liberare il popolo ebreo e che, per cercare qualcuno cui affidare il compito, «apre il cielo, comincia a guardare di qua e di là, finché tta, vede Mosè»!

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Papa Roberto I

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Fragmenta memoriae digna
antologia di spropositi e relativi commenti

«Certo, lascia un po’ più stupiti vedere che a un comico viene affidato un programma su, nientemeno, i 10 Comandamenti. Ma anche qui, se ben guardiamo, non c’è da stupirsi. Benigni, con il suo sguaiato pressapochismo, con la sua superficialità mascherata sotto un’oratoria da strillone un tantino isterico, è il degno rappresentante dell’Italia “che conta”, sia in ambiente civile, sia – duole dirlo – in ambiente ecclesiastico. E infatti, guarda caso, apprendiamo dall’ANSA, come dal Messaggero, che allo strabordante comico sono arrivati i complimenti di Mons. Fisichella e la telefonata del Vescovo di Roma. E che altro può succedere in un’epoca in cui si fanno sondaggi anche sui 10 Comandamenti, in attesa magari di un sondaggio sull’esistenza di Dio, per decidere se adottare una pastorale atea per non turbare i “diversamente credenti”?». (Paolo Deotto)

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FASE INTRODUTTIVA

La politica in questo momento non c’è, non esiste, e quindi meglio buttarsi su Dio, su cose più concrete, diciamo…
Enunciato privo di senso. La politica non è solo Berlusconi; Dio non è proprio una cosa concreta; “buttarsi su Dio” è quanto meno espressione irriverente, dato il contesto catechetico.

Risponderemo una volta per tutte a tutte quelle domande che sono anni che ce la facciamo [8], a cui nessuno ha mai dato risposta… se Dio c’è o non c’è lo definiremo una volta per tutti, dove si va dopo morti, se esiste l’anima…
Enunciato vaneggiante: come si può promettere di dare risposte definitive a quesiti del genere?

Non c’è niente di più salutare per l’anima, per la mente, che parlare di queste cose incomprensibili, misteriose, che non si capisce niente […] cose che non ne parla mai nessuno.
Concetto contraddittorio rispetto a quanto appena promesso (sgrammaticature a parte). Come si può inoltre ammaestrare per due serate parlando di cose “che non si capisce niente”?

Non so se avete notato che tutte le religioni promettono una ricompensa: siamo proprio avidi, interessati… gratis noi non facciamo niente!
1) Siccome siamo avidi e interessati, la divinità deve prometterci una ricompensa per indurci ad essere buoni. Oppure: 2) Le religioni sono “invenzione umana”, non il risultato di una verità rivelata: le creiamo a misura della nostra avidità e del nostro interesse. “Gratis noi non facciamo niente”! Questa morale Benigni se la poteva risparmiare, proprio lui, re dei cachet milionari, che, come si è detto, ha perfino annullato uno spettacolo perché “troppi” avrebbero potuto assistere alla sua “divina” prestazione senza pagare il biglietto! E tralasciamo l’ennesimo svarione del “non so se” con l’indicativo (non so se abbiate è la forma corretta).

Siamo fatti così, siamo cattivi […] ma l’uomo è come Dio l’ha fatto, a volte anche peggio […] Dio ha creato l’uomo l’ultimo giorno, era già molto stanco, questo spiega molto, eh…
L’uomo è cattivo perché Dio l’ha fatto cattivo, l’ha realizzato proprio male; a volte si dimostra peggiore di come è stato creato (cosa evidentemente impossibile, perché non può che essere come è stato creato). Soprattutto in relazione a queste affermazioni, l’allusione alla “stanchezza di Dio” appare blasfema.

In queste due sere Dio c’è: non cominciamo con le solite storie Dio non esiste […] se noi andiamo a cinema a vedere Batman, Zorro, l’Uomo Ragno e ci crediamo e mi fate storie su Dio…
(applausi) ? Bisogna credere a Dio (per due serate…) come crediamo a Batman, a Zorro, all’Uomo Ragno quando andiamo a cinema. Allora Dio è una favola? quella che Benigni racconterà per due serate televisive?… [9]

Io sono Colui che sono… dobbiamo passare, stasera, da Colui che è a Colui che c’è.
Filosofia stolida, enunciato senza senso: chi è (chi esiste), c’è (esiste)! Però spunta sempre qualcuno che, non tenendo conto che Benigni ha affermato che Dio esiste come Batman, Zorro e l’Uomo Ragno, vede quello che gli pare dove non è, pretendendo che il comico si sia riferito a un Dio partecipe delle vicende dell’uomo, per nulla considerando che subito dopo egli afferma di aver trovato la risposta al dubbio sull’esistenza di Dio (allora Dio c’è), né tanto meno l’evidente ironia dell’essente-presente… all’esibizione della guittezza, che emergerà dall’allusione alle tre poltrone libere…! Infatti il Cardinal Betori, vescovo di Prato, «ha sottolineato la ‘formula molto bella’ usata da Benigni quando ha detto: “Ciò che importa non è che Dio è, ma che Dio c’è”: non l’esistenza ma la presenza, la vicinanza di Dio. Mi auguro che un giorno Benigni possa affrontare anche il Nuovo Testamento e quindi ci parli di Gesù”. Omnia munda mundis: tutto è puro per i puri… (Tit 1,15). Sua Eminenza ha evidentemente forzato (spero in buona fede) sia le parole di Jahvè אֶהְיֶה אֲשֶׁר אֶהְיֶה (‘ehyé ‘asher ‘ehyé), Io sono colui che sono (che non ha affermato quindi il superfluo “Io sono Colui che c’è”), che quelle dell’abusivo biblista da farsa. Si legge, in una pagina di Facebook: “Ognuno vede solo ciò che vuol vedere e sente solo ciò che vuol sentire, quando si riesce a vedere e sentire tutto ciò che c’è da vedere e sentire, senza limiti e senza lasciarsi condizionare, si diventa padroni di se stessi. Ognuno capisce solo quello che vuole capire e che gli serve e gli conviene di capire, quando si riesce a capire tutto ciò che c’è da capire senza limiti e senza dubbi, si diventa padroni delle situazioni…”.
Per quanto riguarda l’auspicio vestito di porpora, io mi auguro vivamente che non s’avveri!

Allora Dio c’è, e una domanda abbiamo risposto.
Se escludiamo la demenza, qui c’è perlomeno ironia fuori luogo. In ogni caso si capisce inequivocabilmente il significato che Benigni attribuisce all’espressione “Dio c’è”: Dio esiste (magari per due serate). Nient’altro. E mi spiace per il Cardinal Betori. “Rispondere una domanda” è poi grammatica esclusiva del pluridecorato erudito d’Italia.

Ma tu Benigni, tu personalmente ci credi in Dio? […] Ragazzi, se Dio c’è, su di me non c’è discussione, anche perché se Dio non c’è io non comincio proprio la serata… anche per una questione d’educazione: non mi permetterei mai di parlare per due ore di qualcuno che non c’è…
Risposta quanto mai ambigua e goffa: come dire “se Dio c’è io ci credo”… paradossale! La risposta più semplice e convincente sarebbe stata “sì” (o “no”). Le tergiversazioni e i giri di parole del comico danno solo l’impressione di sostituirsi al “no”, che avrebbe tolto senso a tutte le sue chiacchiere. La risposta più intelligente e cólta avrebbe dovuto riferirsi al tentativo di ricerca e di approfondimento, per la comprensione, anche attraverso le serate dedicate ai Comandamenti. Per quanto riguarda il parlare di qualcuno che non c’è (che cioè non esiste), il pensiero taciuto è che per tanto denaro si può fare anche questo. La precisazione relativa all’educazione gioca tuttavia sul doppio significato della voce verbale “esserci”, come esistere e come essere presente, trovarsi, e in questa seconda accezione desta il sospetto che si neghi proprio quello che si fa (excusatio non petita, accusatio manifesta: scusa non richiesta, accusa manifesta): Benigni recita cioè (per moneta) non solo un soggetto in cui non crede, ma pure “sparla” nonostante l’assenza della persona di cui tratta.

[Dio] ha il posto riservato [per assistere allo spettacolo]: tre poltrone […] potrebbe arrivare da un momento all’altro, perché lui non vuol dare nell’occhio… dice “fate come se non esistessi”…
Battute irriverenti. Quella delle tre poltrone sembra quasi una presa in giro del mistero della Trinità; e il “fate come se non esistessi” non è proprio insegnamento cristiano! Senza contare la pubblica violazione del Secondo Comandamento.

10 secondi di silenzio per sentire Dio… Qualcuno ha sentito? niente? Nemmeno io […] io qualcosa mi sembra d’avé sentito…
Contraddizione nel giro di pochi secondi (oltre che espediente teatrale).

Quando si parla di Dio il linguaggio si squanterna, si squiderna… perché Dio non è una cosa ferma, si muove tutto, ‘nsomma è vivo, non si riesce a parlarne… quindi è inutile parlarne, però bisogna parlarne stasera […] L’unico modo per parlare di Dio è non capirci niente… Un Dio che si capisce non è un Dio… Allora se non ci si capisce niente abbiamo capito tutto…
Non si può parlare di Dio perché Dio si muove, è vivo! Pensiero che, formulato così, è privo di senso, le considerazioni che seguono sono altrettanto illogiche. [11] E “si squanterna, si squiderna” che razza di lingua è? Provo ad avanzare un’ipotesi: il saltimbanco, per sciorinare “cultura”, richiama, storpiata dalla fiacca memoria e dall’ignoranza, la terzina del Paradiso dantesco dove si allude ai quinterni della creazione legati con amore in un volume che “per l’universo si squaderna” (Dante, Paradiso, XXXIII, vv. 85-87).

Dobbiamo lasciarci andare spersi nel sogno di Dio.
“Sogno di Dio”: specificazione oggettiva? (=sognare Dio). Frase di effetto, ma non proprio un’assunzione di fede. Se Dio è un sogno, quanto è vero?… O è Dio che sogna?… (specificazione soggettiva). Per semplificare: “il sogno di Dio” può alludere a qualcuno che sogna Dio (o mentre dorme o per anelito spirituale), o può essere qualcosa che Dio desidera ardentemente avere o addirittura vede nel sonno.

Un certo don Tasselli al papà di Benigni: “Ma guardi che bell’orto che ha fatto con l’aiuto di Dio”! “Eh, doveva vedé com’era quando lo lavorava lui da solo”!
Come dire (con sarcasmo) che se non ti dai da fare, l’orto non te lo coltiva Dio (doveva vedé com’era quando lo lavorava lui da solo! Quando l’orto lo coltivava solo Dio, era in condizioni disastrose!). Grande coerenza evangelica nella battuta, e grande fede nella Provvidenza!

Tanti dicono: “Dio non si vede, allora non esiste”, ma non è che perché Dio non si vede allora non c’è. La verità, l’amore, la speranza, il coraggio, il tempo, ma li ha mai visti qualcuno? Ma come se ci sono!
Dio c’ è dunque solo come un’astrazione (ovvero una “convinzione che non ha fondamento né corrispondenza nella realtà oggettiva”, come definisce il Devoto). Solo che le astrazioni che riferisce Benigni nascono da esperienze reali delle quali si colgono caratteristiche comuni riferite all’essenza dei vari oggetti esperiti: il coraggio è, ad esempio, generaliz-zazione che nasce dall’esperienza di gesti coraggiosi e dalle peculiarità che questi possiedono per essere considerati tali (se nessuno ha mai visto il coraggio, tutti sono certamente capaci di valutare come coraggioso un rischioso salvataggio!). Criterio non certo applicabile al concetto di Dio. Senza tener conto del fatto che taluni filosofi hanno escluso da gran tempo la possibilità che l’astrazione giunga a cogliere essenze universali.

Dio non lo vedi così… ci vuole lo strumento adatto, e la nostra testa non è l’organo adatto per vedere Dio… (riferendo presunti insegnamenti sempre di don Tasselli).
Magari è così, ma Benigni spiega che i virus si vedono con il microscopio, non quale sia “l’organo adatto” per vedere Dio (cosa che nemmeno il “Don Tasselli”, usato come protagonista di un apologo affabulatorio, aveva spiegato al “piccolo” – anche in senso culturale – Roberto!) Facile argomentare con l’aria fritta…

Sant’Agostino cercava di capire che cos’era Dio, chi era Dio […] era in riva al mare. A un certo punto vede un bambino con un secchiello e una paletta, con la paletta prende l’acqua del mare e la mette nel secchiello […]
Travisamento. Sant’Agostino cercava di capire il mistero della Trinità e il bambino versava con una conchiglia l’acqua del mare in una buca (paletta e secchiello sono anacronistici). Imprecisione veniale (ma certo non degna del “poeta” che dicono Benigni sia! Da così a peggio…). E, come se non bastasse, il solito svarione grammaticale: nella sintassi usata da Benigni, con la paletta prende l’acqua si riferisce al soggetto, che è Sant’Agostino.

Regala loro i dieci Comandamenti, regala loro la libertà… La legge è libertà!
Sorprende un’affermazione del genere da parte di chi, appena 24 mesi prima, denigrava i Comandamenti come “legge del no” per esaltare la Costituzione italiana (tanto perfetta che ora ne condivide i ritocchi…) come “legge del sì” (ascolta). Più avanti il “grande toscano” spiegherà che la legge, “i divieti” sono il presupposto della libertà (anzi, sono la libertà): “Provate a lasciare un popolo senza legge e vedete senza regole che cosa accade!” (ascolta). Il problema è che qui non si capisce che cosa Benigni (ovvero chi gli ha predisposto il testo) intenda per libertà, né che tipo di concezione abbia della capacità dell’uomo di autodeterminarsi, né se distingua tra la libertà individuale e la libertà sociale. Concetto troppo impegnativo quello della libertà per poterne considerare scontati sia il significato, sia il paradossale ossimoro che l’assimila al divieto! Non dico che Benigni avrebbe dovuto abbandonarsi a disquisizioni filosofiche (mi pare non sia pane per i suoi denti, nonostante la Laurea honoris causa conferitagli in Filosofia…), ma che avrebbe fatto bene, almeno, ad evitare formulette apodittiche del tipo “la legge è libertà”! La libertà normata è pur sempre una libertà condizionata, espressione di sicura sfiducia (non dico infondata) nelle capacità umane di rispondere ad un principio di assoluta autonomia per la migliore realizzazione di sé come individuo e come soggetto sociale. Non è però questo il contesto per approfondire.

I Dieci Comandamenti è il più grande racconto del mondo, il più bello di tutti i tempi!
Apprezzamenti identici Benigni fa per ogni argomento che tratta: Costituzione, Divina Commedia, Comandamenti… Non abdica mai al suo smodato “stile bancarella”… né alle sue sgrammaticature (I Comandamenti è…).

Sapete cosa vuol dire Mosè in egiziano? Vuol dire “salvatelo dall’acqua”, “mo” salvare, “se” acqua. (ascolta)
Il contrario, se mai, caro coltissimo “divulgatore di fandonie”! Mo, acqua, e ysès, salvàti. Flavio Giuseppe (Antichità giudaiche, II, 228), seguìto da qualche moderno, spiega il nome affermando che “gli Egiziani chiamano l’acqua μῶ, e ὐσῆς i salvati dall’acqua” (non l’imperativo “salvàtelo”, come ciancia il luminare toscano!): i quali due vocaboli sono stati riavvicinati al copto mō “acqua”, e uge “salvato”. Tuttavia la massima parte dei moderni preferisce vedere nel nome in questione il vocabolo egiziano m s (w), “ragazzo” “figlio”, che entra frequentemente nella formazione di nomi proprî egiziani” (Treccani). C’è pure chi osserva che nel testo masoretico (la versione della Bibbia di cui fanno uso gli Ebrei) il verbo riferito a Mosè, che indicherebbe l’estrazione dall’acqua, è “vocalizzato come un participio attivo”, sicché predicherebbe di lui come liberatore, “colui che estrae” il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto (cfr. Romano Toppan, Essere leader al tempo di Dio, Mazzanti Editore, 2015, alla voce Mosè) e, a ben pensare, anche dalle acque del Mar Rosso quando, fuggendo dall’Egitto, viene inseguito dal Faraone (Es 14,29; Sal 106,9; Sal 136,13-15; Sap 19,7; Corano, Sura 26, 63: Rivelammo a Mosè: “Colpisci il mare con il tuo bastone”. Subito si aprì e ogni parte [dell'acqua] fu come una montagna enorme).

Cammina, cammina, cammina, cammina…
Le solite “favole della nonna” (ascolta brevi esempi; si noti la voce sgraziata, gracchiante, nasale, inadatta alla narrazione).

Pensate, in pochi giorni, da principe nel palazzo del Faraone a pastore, extracomunitario nel deserto, ricercato…
Mosè in Europa? extracomunitario! (Treccani) L’Unione Europea milletrecento anni prima di Cristo! Trovata ridicola o clamorosa ignoranza semantica, oppure (improbabile raffinatezza) uso metonimico, quanto meno estensivo, del vocabolo.

È sempre Dio che cerca gli uomini… è lui che ha bisogno di noi… è lui a pregare noi di essere ascoltato…
Addirittura, commentando Dante, Benigni aveva detto: “Ci dice Dante che ognuno di… che Dio ha bisogno degli uomini, non gli uomini hanno bisogno di Dio!”

[Dio, con Mosè] ci vuole parlare proprio faccia a faccia: una cosa mai accaduta.
Mai accaduta? Tanto per smentire il coltissimo (e le sue gratuite spettacolarizzazioni) si vedano Gen 17,1; 18,1; 35,1; per di più non pare che l’incontro avvenga “faccia a faccia”: “Mosè si nascose la faccia, per tema di mirar Dio” (Es 3,6), anche se, a onor del vero, la Bibbia usa questa espressione, ad esempio in Dt 5,4: “Il Signore dal Monte vi ha parlato dal fuoco faccia a faccia”, che nel caso specifico non può avere il significato che noi attribuiamo comunemente all’espressione, dal momento che il popolo, cui sono rivolte le parole, non è salito sul Sinai e non ha interloquito con Dio se non attraverso Mosè (sineddoche).

Le fiamme che bruciano e non consumano [quelle del roveto ardente dal quale Dio parla a Mosè]… E cos’è che arde e non consuma? Ma è l’amore… è la metafora dell’amore! […] Quando siamo innamorati si brucia, ma non ci si consuma!…
Passaggio ad effetto! Se non fosse che poi, in modo assai banale, si accosta l’amore divino per gli uomini a quello degl’innamoramenti umani, che in troppe loro espressioni sono destinati all’usura e, in certe manifestazioni, possono divenire addirittura distruttivi. In ogni caso l’amore è solo una delle possibili metafore del “roveto ardente” (Es 3), come nel libro che porta questo titolo rileva il monaco della Chiesa d’Oriente Lev Gillet, il quale scorge, nei cespugli selvatici in fiamme, la meraviglia dell’avvilito Mosè, la scoperta del λόγος (lògos, razionale) nell’ἄλογος (àlogos, irrazionale); la visione, punto focale dell’espe-rienza religiosa ebraica (“Se il popolo d’Israele fosse stato capace di vivere secondo la visione del roveto ardente, non avrebbe avuto bisogno delle tavole della Legge”, scrive Gillet); l’incontro con Dio, possibile in ogni luogo; la purificazione, opera di Dio che monda l’anima senza distruggerla; la figura di Cristo come trait d’union Uomo-Dio, in un vincolo sostanziale d’amore (non nel solo senso in cui sa intenderlo Benigni!).

Vai dal Faraone, liberi tutti gli Ebrei dall’Egitto e me li porti qua… (ascolta)
Sciocca banalizzazione narrativa per bambini…

Il miracolo dell’impossibile trionfo di un uomo solo contro tutto un impero. (ascolta)
Enfasi “grulla”: senza i terribili e decisivi flagelli divini, che avrebbe potuto fare Mosè, da solo?

Dio dice il suo nome… una delle vette delle storie della Bibbia e dell’umanità, una delle cose più strabilianti della storia del mondo… (ascolta)
Ancora una stupida enfasi affabulatoria. Anche perché in base a Gen 4,26 [12] c’è chi pensa che il nome fosse conosciuto già dai tempi di Enos e perché il tetragramma (cfr. di seguito) non è un nome, ma un’affermazione di essenza (La mia natura è di essere, non di essere nominato).

Dio dice il suo nome… Il TETAGRAMMA!!!
L’ignoranza si tradisce grossolanamente: TETRAGRAMMA, cólto biblista! Tétra in greco (τέτρα) sta per quattro ed unito a gràmmaton (γράμματον), che significa scrittura, lettera, dà origine alla parola “tetragramma” (quattro lettere). Cultura povera e memoria precaria… Il nome fu assegnato da Filone di Alessandria alla forma scritta, composta da quattro lettere, YHWH che gli Ebrei usano in luogo di “Dio”, che solo i sacerdoti potevano pronunciare in determinate occasioni rituali.

Io non m’invento neanche una parola… tutto quello che vi dico è proprio il testo!
Ma Benigni si è appena prodotto in una serie di “invenzioni“…

Il presunto difetto di Mosè:
Io va-va-vado, ma-ma co-come faccio a-a-a co-convincere tu-tutti co-co-con questo pr-pro-problema che ci ho? […] Io sono impa-pacciato di-di bocca e di-di lingua” (ascolta)
Ovviamente nessuna versione della Bibbia riporta un simile passo: Mosè dice semplicemente: “Ahimè, Signore, io non sono un oratore; non lo ero in passato e non lo sono da quando tu hai parlato al tuo servo; poiché io sono lento di parola e di lingua” (Nuova riveduta e, quasi identiche, Nuova Diodati e Luzzi/riveduta); “Mio Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua” (C.E.I./Gerusalemme); “Ahi! Signore, io non son mai per addietro stato uomo ben parlante, non pur da che tu parlasti al tuo servitore; conciossiaché io sia tardo di bocca e di lingua” (Diodati); “Non dobbiamo giudicare gli uomini per la loro parlantina. La saggezza e il vero valore possono provenire da una lingua lenta. Dio, talvolta, sceglie tra i suoi messaggeri coloro che sono meno avvantaggiati dalla natura per capacità e arti affinché la sua grazia in loro possa apparire più gloriosa. I discepoli di Cristo non erano oratori finché lo Spirito Santo non li rese tali” (Commentario Gen-Lev, Ec-Cant, NT); “Io non sono uomo di facile parola […] anzi io sono impacciato di bocca e di lingua” (Pontificio Istituto Biblico). Il Signore risponde: “Or dunque va’, e io t’insegnerò ciò che hai a dire” (Es 4,10-12), tanto che la versione del Pontificio Istituto Biblico commenta: “Nelle parole di Mosè più che difetto organico (balbuzie) è da vedere natia difficoltà a discorrere prontamente e bellamente, non tolta dalla missione divina” (La Sacra Bibbia, Salani 1961). Del resto “ciò che hai da dire” riguarda il contenuto, non altro.

Ma Mosè non è un uomo che muore come tutti gli altri uomini. Bisogna che Dio venga giù dal cielo a prendergli l’ultimo respiro con un bacio. E infatti Dio, quando Mosè stava per morire, piegò il Cielo, scese e lo baciò.
Benigni non precisa che la sua narrazione non è tratta dal testo biblico, ma da un commento rabbinico omiletico (midrash, uno dei metodi ebraici d’interpretazione e commento della Scrittura) al cap. 34 del Deuteronomio [13].

Lo piansero per millenni
Che fasulle esagerazioni!

Qui si alza il sipario sul mistero, qui cominciano le parole in cui il tempo si è interrotto. Con queste parole l’Eterno fa il suo ingresso nel mondo, Dio entra nella storia…
Paris vaut bien une messe!
Vale la pena di confrontare i “due Benigni” del documento sonoro La grande conversione… ALL’EURO… Senza considerare la gonfiatura e la teatralità della formula verbale più recente…

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PRIMO COMANDAMENTO

Dove si sente che c’è qualcosa è quando dice “Dio tuo”… è quel tuo… non so se l’avete notato [15]. Avrebbe potuto dire, e avrebbe dovuto dire “Io sono il Signore Dio” e basta! Sarebbe stato anche più giusto, no? Ma lui ha detto “Sono il Signore Dio tuo”: è quel tuo finale che lo tradisce, s’è tradito… Un conto è dire a uno “Tu sei l’amore”, e un conto è dire “Tu sei l’amore mio”… eh, il mio… e il punto debole è l’amore… S’innamora facile e non capisce più niente [16], perché lui non vuole essere Dio, vuole essere il mio Dio, vuol essere amato…
Forzatura ad un concetto caro al Benigni imbonitore. Quando il comico vuole applausi e successo, allora la butta sulla vita bella, sull’amore, sulla gioia, e dei sentimenti che predica fa di sé un’incarnazione! Io sono il tuo padrone, io sono il tuo insegnante, io sono il tuo carnefice non sono espressioni che contengono AMORE in forza del possessivo, quand’anche posposto! Significano semplicemente tu hai me come padrone, o come insegnante, o come carnefice. Così Dio dice all’uomo: tu hai me come Signore e come Dio, e non ce ne sono altri! Questo significato è il più schietto, e naturalmente per niente offensivo della divinità. Osserverò per giunta che ritengo più ampio, importante e forte dire a una donna (o ad un uomo) “tu sei l’amore”, che “tu sei l’amore mio”, per quanto la seconda espressione sia più intima! È infinito che una donna (o un uomo) incarni l’amore, soggetto a limite il considerarla (lo) “amore MIO”, amore “per me” (con logica limitativa), o addirittura amore di proprietà!

Tu non avrai altro Dio all’infuori di me… Tu sei mio! […] Io sono tuo, tu sei mio… guardate, eccolo il patto: è tutta qui i Dieci Comandamenti!
Altra forzatura (per giunta sgrammaticata: i Dieci Comandamenti è tutta qui!). Il comandamento esige l’adorazione esclusiva e proibisce il politeismo, l’idolatria, la superstizione, non mi sembra una dichiarazione che miri a sancire una proprietà.

Il miracolo è che ci sia la legge e chi non obbidisce è banalità ed è violenza. (ascolta)
Esempio di chiarezza didattica… (o piuttosto di analfabetismo grammaticale).

Non avrai altro Dio all’infuori di me […] vuole che amiamo solo lui… vuole l’esclusiva! […] È qui che nasce l’idea grandiosa del monoteismo (ascolta) Prima era pieno di dei, c’era una concorrenza, non potete sapere, un caos. C’erano divinità d’ogni tipo, teste di cane, teste di gatto, di legno, non poté, c’era un traffico tremendo in cielo: io so’, so’ meglio io, so’ meglio io… Lui, con questa cosa, ha liberato il cielo [17]. (ascolta)
Detta così, una verità rivelata si trasforma goffamente in nascita di un’idea grandiosa… Nella mente di Dio? Che senso ha? Un’idea che Dio fa nascere nella mente dell’uomo? Pare proprio una grande sciocchezza. A me sembra che “Yahweh” dica semplicemente all’uomo: ci sono solo io ed è un errore (ed una colpa) credere in altre divinità! Dunque si tratterebbe al massimo della rivelazione del monoteismo, non della nascita di un’idea grandiosa [“L’Antico Testamento ci spiega l’essenza della nostra fede, come fede Rivelata e non intuita, conquistata, raggiunta, concepita…” (Giuseppe Guarino)]. Tuttavia possono ingenerare dubbi passi come Es 20,5 (“Poiché io, il Signore Iddio tuo, sono un dio geloso”) o 34,14, dove si legge: “Tu non devi adorare altro dio; perché Geloso è il nome del Signore; egli è un dio geloso”, asserzione che non esclude l’esistenza di altri dei, ma richiede l’osservanza di ciò che spetta solo a lui! Del resto “non avrai” non significa “non esiste”! Solo un’osservazione, la mia, suggerita peraltro dall’asserzione di Benigni “[Dio] vuole l’esclusiva”, niente più! Vale però la pena di notare come, ben prima dell’evento del Sinai, la religione ebraica si fosse dimostrata monoteistica: “Il momento più importante del monoteismo ebraico-cristiano è la chiamata di Abramo. «Il SIGNORE disse ad Abramo: “Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò; io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra”. Abramo partì, come il SIGNORE gli aveva detto…” (Gen 12,1-4)» (Giuseppe Guarino) [18]. Senza tener conto che le indagini storiche rivelano che: “Il monoteismo era conosciuto già in tempi antichissimi. Il Libro egiziano dei Morti dimostra che il popolo d’Egitto originariamente credeva in un unico grande Dio e non in molti. Col passare del tempo gli attributi del vero Dio cominciarono ad essere assegnati a nuove divinità, e in tal modo si sviluppò il politeismo. Questo è stato ben documentato, specialmente dal famoso egittologo Sir Wallis Budge nel suo volume “Il Libro dei Morti”. Ecco alcune affermazioni tratte dal libro, selezionate dal Papiro di Ani; si tratta di una lode al: “Signore dei cieli… Signore della verità… Creatore degli uomini e degli animali… Sovrano del mondo, il potente valoroso… Colui che ha steso i cieli e ha fondato la terra… Signore dell’eternità… Creatore della luce… Egli ascolta la preghiera dell’oppresso, è misericordioso verso chi Lo invoca, libera il misero dall’oppressore… Egli è il Signore della conoscenza, e la Saggezza procede dalla sua bocca. Egli crea l’erba verde di cui vivono gli armenti. Egli crea i pesci affinché abitino i fiumi, e i volatili piumati nel cielo… Gloria a Te, o Creatore di tutte queste cose, Tu che sei L’UNICO” (pp. 108-110) [19]. Chiunque abbia suggerito al “coltissimo” Benigni ciò che questi ha poi riferito, proprio non ha tenuto conto delle conoscenze acquisite sull’argomento.

Eppure ha questa fragilità, questa debolezza dell’amore… (ascolta)
Dunque l’Amore di Yahweh è fragilità e debolezza? Poco dignitosa considerazione dell’Amore divino, che sembra ridursi ad un umano cedimento sentimentale. E di Dante che cosa ha capito, Benigni? del grande epilogo della Commedia (l’Amor che move il sole e l’altre stelle) in cui l’Amore di Dio offusca con la sua grandiosità e con la sua forza anche Fanete, il greco principio d’amore che nasce dall’uovo primordiale e genera il mondo?

Perché io, il Signore Dio tuo, sono un dio geloso […] ma è proprio geloso come s’intende noi! Non è che intende un’altra cosa […] Ho detto “ma Dio è geloso di me? Perché è geloso di ognuno di noi, quindi anche di me, ho detto “ma non ci posso credere”! Non solo mi ama, ma è pure ge-lo-so! […] che mi controlla, che vuol sapere cosa faccio, che mi viene lì la sera e mi dice: “Robertino, dove sei stato ieri sera?” “Niente, io so’ stato in casa” “Dimmi la verità!… ‘n’è che hai visto Budda ieri sera, eh?”… [20] (ascolta)
Credo che l’affermazione “Sono un Dio geloso”, voglia significare che Yahweh è “custode sollecito” (Treccani), intransigente, che esige riguardo, cura di ciò che spetta solo a lui (adorazione, lode, onore), non che è “in apprensione per il possibile distacco della persona amata o per la presunta o reale esistenza di un rivale” (Devoto). Lo stesso Devoto, del resto, tra le accezioni della parola geloso indica la seguente: “Che non tollera interferenze nel possesso o nella custodia di quanto gli appartiene”. Il termine è dunque usato da Yahweh non certo nel senso cui allude grossolanamente Benigni, pur volendo considerare il fatto che il linguaggio usato da Yahweh è antropomorfico, perché l’uomo possa capire per analogia. Il sostantivo ebraico qin’àh significa insistenza sull’esclusiva devozione, ma include anche tutti i significati del termine greco ζῆλος (zèlos, ardore, emulazione, gelosia ecc.), da cui il termine italiano geloso deriva. Alla “gelosia” di Yahweh più volte fa riferimento la Bibbia: oltre ai passi già citati, cfr. Dt 4,24; 5,9; 6,15; 32,16; 32,21; Gs 24,19; 1 Re 14,22; Sl 78,58; Is 59,17 (vi si trova la parola zèlo, di cui si è appena detto); Ez 16,42; 23,25; 36,5-6; 38,19; 39,25; Gl 2,18; Na 1,2; So 1,18; 3,8; Za 1,14; 1 Co 10,22; 2 Co 11,2; Gc 4,5 [21] C’è chi interpreta la gelosia divina come “appartenenza relazionale”: “Se Dio è geloso non lo è nel senso distruttivo ed infantile che ha questo termine, bensì nel senso di Appartenenza relazionale con l’uomo… potremmo dire che la Gelosia è una patologia che lega, mentre l’Appartenenza è un sentimento-azione che libera” (Valerio Albisetti) [22].

E a chi non lo ama, lo punirà
E la libertà di cui Benigni parlava? (Bella grammatica, comunque: punire a qualcuno… punire a chi non lo ama).

Per questo la cosa che lo fa più arrabbiare sono gli idoli. E cosa sono gl’idoli? Gl’idoli son quelle cose che possono prendere il suo posto nel nostro cuore, che è geloso, quando noi facciamo diventare Dio qualcosa che non è Dio (ascolta) […] Oggi, come sapete, è pieno di idoli. Voi mi direte quali? Per esempio gl’idoli che tutti conosciamo: il più grande e il più forte di tutti, i soldi, il denaro. Ci prostriamo, ci inginocchiamo davanti ai soldi dalla mattina alla sera. (ascolta) Il potere, il successo, la popolarità, il sesso, la droga, il piacere per il piacere, il godimento puro a se stesso. (ascolta)
Ci vuole una bella faccia di bronzo a predicare contro gl’idoli di cui in gran parte si è EMBLEMA! Facile fare la morale agli altri trasgredendola. Come si può deprecare l’idolo del denaro, se quello che si dice viene fatto pagare migliaia di Euro al minuto?! L’idolo della popolarità e del successo, quando sono costantemente ricercati e mentre se ne godono platealmente i benefici? Il sesso quando si sta per tessere l’apologia della masturbazione e per insegnare il lassismo, sostenendo che gli atti impuri sono un peccato inventato dalla Chiesa, perché non esiste nella Bibbia, e dopo aver dato pubblicamente innumerevoli esempi di volgarità sessuale a base di parole e di gesti sconci? (Turpiloqui irripetibili nei film, negli spettacoli di piazza e perfino in prima serata tv, palpamenti di genitali altrui in eurovisione, dei propri sul palcoscenico…). Faccia di bronzo che la gente accoglie con l’applauso – auspicando che predichi nelle chiese e che i catechisti ne traggano ispirazione -, e che perfino i prelati riveriscono, avallandone la dottrina e il modello!

Gl’idoli addormentano mentre il divino inquieta (ascolta)
L’arringa contro gl’idoli si chiude con una frase ad effetto, in cui si apprende però che il divino, anziché rasserenare ed appagare, inquieta… (inquietare non ha altri significati che turbare, dare ansia, agitazione, insoddisfazione, fastidio, dolore, rendere incapaci di trovare pace e serenità; cfr. inquieto in Treccani). Subito dopo ci si accorge dell’improprietà, perché il coltissimo (o chi l’ha “imboccato”) dà al verbo inquietare un’accezione personale: quella di sollecitare il cambiamento, il rinnovamento, di provocare “la resurrezione dei vivi” (altra espressione imbonitoria, ma almeno bella), in contrapposizione all’effetto dell’addormentamento da idoli.

Dio non vuole essere dipinto, scolpito, immaginato, in nessun modo! Che uno dice è fatto così, così, ci ha la faccia così, gli occhi così… no! Tu lo puoi pregare, ci puoi parlare, ma davanti a te non ci dev’essere un’immagine, una figura, niente! (ascolta)
“Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra” (Es 20,4); “Badate bene a voi stessi, affinché non vi corrompiate e non vi facciate qualche scultura, la rappresentazione di qualche idolo, la figura di un uomo o di una donna, la figura di uno degli animali della terra, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia sul suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra” (Dt 4,15-18). Da questi due passi pare chiaro che nell’enunciato di Es 20,4 il cielo, alla stregua della terra e del mare, è considerato nella dimensione fisica, non metafisica, come Benigni chiassosamente sostiene… “Tuttavia, fin dall’Antico Testamento, Dio ha ordinato o permesso di fare immagini che simbolicamente conducessero alla salvezza operata dal Verbo incarnato”: Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), Parte III, Sezione II, Cap. I, 2130. Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà resterà in vita (Nu 21,8)). Infatti chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva, ma solo da te, salvatore di tutti (Sap 16,7). Altri esempi sono in Es 25,10-22 e in 1 Re 6,23-28 o 7,23-26. I numerosi passi biblici che riprendono il divieto in questione Es 32,1; 32,8; 32,23; 34,17; Lev 19,4; 26,1; Dt 4,15-19; Dt 4,23-25; Dt 5,8; 27,15; 1Re 12,28; 2 Cron 33,7; Sal 97,7; 115,4-8; 135,15-18; Is 40,18-20; 42,8; 42,17; 44,9-20; 45,16; 46,5-8; Ger 10,3-5; 10, 8-9; 10,14-16; Ez 8,10; At 17,29; 19,26-35; Rom 1,23; Ap 9,20; 13,14-15; 14,9-11; 16,2 attentamente letti, sembrano alludere a rappresentazioni alternative rispetto al “Signore Dio tuo” e dunque a idoli veri e propri.

Per i cattolici non son vietate le immagini, è vietato il culto delle immagini, no?…
Concessione incoerente nel discorso perentorio che Benigni va facendo sul divieto dell’uso di rappresentazioni del divino, che per i cattolici non varrebbe! Una legge divina è per tutti o per nessuno! In realtà quello che si proibisce credo sia l’idolatria [23]: adorare una figura per se stessa o in riferimento a una divinità diversa da Yahweh, e il divieto vale per l’umanità.

Non credo che Dio si arrabbi se… quando vede la Cappella Sistina, ‘nsomma, no… che poi, se Dio ci mandasse all’Inferno perché ci siamo emozionati guardando Michelangelo, Raffaello, Caravaggio, va be’, vorrà dire che il Paradiso l’abbiamo già visto di qua con loro… (ascolta)
Supponendo che le raffigurazioni della Cappella Sistina siano motivo di colpa grave o siano esse stesse grave omissione, condannati all’inferno avremmo pur sempre di che consolarci avendo già visto in terra il Paradiso. Per aderire al senso di questa considerazione dovremmo concludere che la condanna eterna è poca cosa di fronte a qualche grande soddisfazione terrena! Pensiero bislacco, se non da miscredente. Il fatto è che, ad essere integralisti (ed io cerco di avere “aperture” verso le interpretazioni meno rigide del testo sacro), non ci sono molte possibilità di contestare il significato del divieto divino “non ti farai immagine alcuna” nel modo in cui gli Ebrei lo interpretarono, anche perché la storia del popolo d’Israele presenta una cultura decisamente aniconica, come ci confermano storici della levatura di Daniel-Rops “che, in La vita quotidiana in Palestina ai tempi di Gesù, ha scritto pagine molto significative nel capitolo decimo e in particolare nel paragrafo Un popolo senza arte? (p. 337)” (link1 link2).

Tutte le divinità VOLEVANO ESSERE RAFFIGURATE con statue, sculture, quadri, no? Dio no!
Implicita ammissione di esistenza di altre divinità!?

E perché lo ha fatto? Per educare gli uomini ad aprire gli occhi su ciò che non si vede! (ascolta) […] C’è un avanzamento prodigioso: in questa idea si passa dal pensiero concreto a quello astratto […] Per la prima volta nella storia del mondo il pensiero corre dove non può arrivare, si stende dove non può giungere, vuole abbracciare quello che non può contenere. E da quel giorno non si è più fermato: vai, vai! [24] Insomma, con questo primo comandamento Dio ci ha dato tre cose: ci ha allargato la vita mettendoci dentro la libertà, ci ha allargato il cuore mettendoci dentro tutto il suo amore, ci ha allargato la testa mettendoci dentro l’infinito”. Seguono applausi, cercati, inevitabili. (ascolta)
Nel sopraccitato passo del Libro dei morti, il dio Unico di cui si parla è già un’entità astratta, che la si rappresenti o meno. Il Dio della Cappella Sistina non ha nulla di concreto, né toglie nulla al “pensiero astratto” cui Benigni allude. Nessuno sguardo intelligente pensa che Dio sia quello della rappresentazione michelangiolesca! La metafora è una risorsa del pensiero. La Morte sul Cavallo Bianco di Gustavo Dorè non è certo la rappresentazione realistica della morte che attende ogni essere vivente, né può incidere minimamente sul modo di pensare alla morte. Il fatto è che il comico ogni tanto estrae dalla manica la carta di qualche sequenza “scuotiapplausi”, nemmeno farina del proprio sacco, dunque mal digerita e peggio spiegata. Il primo comandamento ci avrebbe allargato la vita infilandoci dentro la libertà: perché proprio il primo e non tutti, come il “catechista” aveva già detto, come se non fossero mai esistite prima sagge regole per l’uomo e nell’uomo [25]? Ci avrebbe allargato il cuore attraverso l’amore divino (ma Benigni sembra ignorare che poco oltre lo stesso amore sembra trasformarsi in terribile legge del taglione e in legittimazione della schiavitù, cose queste che davvero avrebbero dovuto essere spiegate, non riducendo tutto alle scontate affermazioni predominanti; cfr. Es 21); ci avrebbe allargato la testa mettendoci dentro l’infinito, cosa evidentemente impossibile alla luce dell’aneddoto della vita di Sant’Agostino, riportato dallo stesso teopagliacciologo nel preambolo, o quanto meno cosa già in essere, perché non credo che il Dio di Abramo fosse concepito come non infinito.

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SECONDO COMANDAMENTO

Il Secondo Comandamento “semplicemente proibiva di nominare Dio, così, senza rispetto, no? Perché perde di purezza, di bellezza… insomma nominarlo così qua e là, usare il nome di Dio per qualsiasi cosa, come un tappabuchi, no? E giuro su Dio di qua, e giuro su Dio di là, insomma non si poteva giurare su Dio, che però non è questo il senso del comandamento, sebbene non vada fatto, naturalmente (ascolta).
A parte la lingua orfana di scuola di base, né la Bibbia, né il Catechismo della Chiesa confermano quello che il giullaretto afferma. Fu detto agli antichi: “Non spergiurare” [...]. Ma io vi dico: “Non giurate affatto” (Mt 5,33-34; 5,37). “Io scatenerò la maledizione, dice il Signore degli eserciti, in modo che essa penetri nella casa del ladro e nella casa dello spergiuro riguardo al mio nome” (Zac 5,4; vedi pure Ger 7,5-10). “Le promesse fatte ad altri nel nome di Dio impegnano l’onore, la fedeltà, la veracità e l’autorità divine. Esse devono essere mantenute, per giustizia. Essere infedeli a queste promesse equivale ad abusare del nome di Dio e, in qualche modo, a fare di Dio un bugiardo (1Gv 1,10)” (CCC, 2147).

Non nominà, no non nominare il nome di Dio invano tutti pensiamo che voglia dire non bestemmiare, no? Non è nemmeno questo il cuore del comandamento. Naturalmente la bestemmia è una cosa orripilante, no? Però non è questo, non è questa la bestemmia in senso biblico. (ascolta)
La condanna della bestemmia da parte di Papa Benigni non sembra categorica, dal momento che il comico scherza sulle espressioni colorite usate in Toscana e in Veneto (di cui, data la serata, dice che non è il caso di fare esempi) e diverte il pubblico raccontando della bestemmia leggendaria del solito “Marione”, durata diciotto minuti ed applaudita dagli astanti, che chiedono il bis! Chi voglia leggere dietro le parole sospetterà che il comico cerchi di annacquare la sua fama di pubblico bestemmiatore. In diversi passi la Bibbia condanna severamente la bestemmia, prevedendo perfino la pena di morte! “Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte” (Le 24,16). Si vedano pure: Mc 14,64; 1Re 21,10-13; Gv 10,33-36). Il Catechismo della Chiesa dichiara: 2148 “La bestemmia si oppone direttamente al secondo comandamento. Consiste nel proferire contro Dio – interiormente o esteriormente – parole di odio, di rimprovero, di sfida, nel parlare male di Dio, nel mancare di rispetto verso di lui nei propositi, nell’abusare del nome di Dio. San Giacomo disapprova coloro «che bestemmiano il bel nome [di Gesù] che è stato invocato» sopra di loro (Gc 2,7). La proibizione della bestemmia si estende alle parole contro la Chiesa di Cristo, i santi, le cose sacre. È blasfemo anche ricorrere al nome di Dio per mascherare pratiche criminali, ridurre popoli in schiavitù, torturare o mettere a morte. L’abuso del nome di Dio per commettere un crimine provoca il rigetto della religione. La bestemmia è contraria al rispetto dovuto a Dio e al suo santo nome. Per sua natura è un peccato grave” (cfr. pure il Codice di Diritto Canonico, 1369) [26].

Nella storia si è ucciso più in nome di Dio che di qualsiasi altra cosa. In tremilacinquecento anni di storia ci sono state migliaia di guerre, costate milioni di morti, quasi tutte usando il nome di Dio. Questa è la sola, vera, unica e grande bestemmia: impadronirsi, usare il nome di Dio per ingannare la gente e convincerla a uccidere in suo nome. (ascolta)
Travisamento della storia e del significato del Comandamento. Dal punto di vista storico “la maggior parte delle fonti accreditate smentisce questa tesi. Le varie enciclopedie sulle guerre storiche mostrano come i conflitti religiosi siano una minoranza: si va dall’Encyclopedia edita da Gordon Martel, per la quale solo il 6% delle guerre censite possono essere considerate guerre di religione; al volume di Charles Phillips e Alan Axelrod Encyclopedia of Wars, che arriva alla cifra più alta, ma ancora minoritaria, del 25% [27] – senza contare che molto spesso, dietro il casus belli religioso si sono nascoste questioni politiche ed economiche” (Alessandro Rico) [28]. “La solfa delle ‘guerre in nome di Dio’ è roba che potrebbe stare in bocca a Umberto Veronesi, e serve a farci dimenticare che nelle guerre più vaste, più durevoli e più spaventose non c’era traccia del nome di Dio” (Giovanni Lazzaretti). Sotto il profilo esegetico, se è vero che il Catechismo della Chiesa considera blasfemo anche “l’abuso del nome di Dio per commettere un crimine”, non è certo vero che “questa è la sola, vera, unica e grande bestemmia”, come abbiamo appena dimostrato, soprattutto nel contesto biblico. A Benigni questa interpretazione fa evidentemente comodo, perché gli permette di sospingere in secondo piano la sua nomea di bestemmiatore [29], laddove sarebbe stato ben più coerente “ravvedersi” pubblica-mente. Stendiamo un velo pietoso sulla raffazzonata predica che il piccolo toscano pronuncia per esecrare chi lega il nome di Dio alla violenza, non dimenticandoci che nell’Antico Testamento gli esempi di “violenza divina” sono numerosi e avrebbero dovuto essere presi in considerazione e magari spiegati…

Non nominare il nome di Dio invano vuol dire non rendere vano Dio, non rendere vana la tua anima, non rendere vana la tua vita (ascolta)
La trattazione si chiude con una forzata enfasi retorica per affacciarsi sugli applausi!
La sostanza del significato del Secondo Comandamento è però quella dettata dal Concilio di Trento: “Spiegando questo comandamento, non si dimentichi che la Legge implicitamente accoppia alla proibizione l’imposizione di ciò che gli uomini devono fare. Proibizione e imposizione devono essere spiegate però separatamente. In primo luogo, perché più agevole ne sia l’esposizione, si indichi ciò che la Legge comanda, poi quello che proibisce. Comanda che il nome di Dio sia onorato e con esso non si facciano che giuramenti santi; proibisce poi di offenderlo, di invocarlo stoltamente, di giurare con esso alcunché di falso, di vano, di temerario” (Catechismo del Concilio di Trento, Parte III, 308). Legga bene chi non si sottrae alla pubblica bestemmia e poi s’improvvisa catechista…

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TERZO COMANDAMENTO

(Ricorda il giorno di sabato per santificarlo…) …L’avete sentito com’è bello questa… Quel ricorda iniziale è dolcissimo, sembra l’inizio d’una poesia… ricorda del gio… sembra una poesia, eppure è il Comandamento più potente di tutti. Sono sempre i pensieri che avanzano con passi di colomba quelli che guidano il mondo (ascolta).
“Le parole più silenziose sono quelle che portano la tempesta. Pensieri che incedono con passi di colomba guidano il mondo” (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra). La scarsa onestà intellettuale non permette a Benigni di citare l’autore della frase ad effetto (è una pessima abitudine, per la quale gli vengono sovente attribuite cose non sue). Qui non si vuole pensare che il cóltissimo abbia ripetuto pappagallescamente e al momento sbagliato un’imboccata…! Il riferimento, infatti, mi sembra a sproposito. Ovviamente non poteva mancare l’apprezzamento affabulatorio “sembra una poesia”, che Benigni appioppa a qualunque cosa legga (anche gli articoli della Costituzione sono per lui “poesia”, da paragonare addirittura all’Infinito leopardiano!). Che sta a significare, infine, che il Terzo Comandamento “è il più potente di tutti”?

Il cuore del Comandamento, avete sentito, è il riposo, no andare alla Messa, e dice che si è riposato anche lui. (ascolta)
Solita sgrammatica a parte, Benigni libera i fedeli dall’obbligo di “andare alla Messa” (non solo nelle parole, ma soprattutto nel tono che usa) perché il Comandamento non lo prevede. Questo, contro quanto il Catechismo della Chiesa esplicitamente sancisce (Parte Terza, Sez. seconda, Art. 3, 2177-2183) affermando, proprio in relazione al Terzo Comandamento, l’obbligo domenicale “dell’Eucarestia del Signore”(del resto il valdese Paolo Ricca, che ha guidato la preparazione del comico, che rilievo assegna all’Eucaristia? Cfr. pure il pensiero di Padre Angelo). Non è superfluo ricordare che “Eucaristia”, ‘rendimento di grazie’, deriva dal verbo greco eucharistèo, ringraziare.

Dice il Comandamento che si devono riposare il servo, la serva, lo straniero, l’extracomunitario… Naturalmente a quei tempi non c’era nessun diritto del lavoro, non è che c’era l’articolo 18 che si… si sfruttavano gli schiavi, si faceva fare tutto ai servi, non si riposavano mai, venti, venticinque ore al giorno, quello che, si potevano usare a piacimento, gli operai, diciamo, per dire dell’epoca. Questo comandamento rompe questa regola antichissima, la fa a pezzi, la spazza via proprio, una rivoluzione! Tremila anni fa dire di far riposare gli operai, gli schiavi, i servi… Il diritto del lavoro! Poi uno dice Carlo Marx: ho capito, ma tremila anni dopo… (ascolta)
Il logorroico discomico mette nel calderone comandamento, extracomunitari (?), articolo 18, Carlo Marx, diritto del lavoro, enfatizzando la rivoluzione che concede agli “operai” (termine anacronistico) ed ai servi (per i quali non si chiede, né spiega, perché Yaweh, qui implicitamente, li ammetta). Interessante, fra le altre baggianate, il giorno di 25 ore!… ma già: sarà stata una battuta…

Non vi dimenticate che Dio si presenta all’inizio non come creatore del cielo e della terra, ma come liberatore dalla schiavitù! (ascolta)
Lo schiavo cui è concesso un giorno di riposo non torna certo libero! E poi, se Benigni invece di leggere pochi versetti per imbastire uno spettacolino (simoniaco, per commercio del sacro, e non proprio osservante del settimo comandamento [30]) avesse avuto l’accortezza di leggere poche righe oltre, si sarebbe imbattuto non certo in un “liberatore dalla schiavitù” (cosa certamente corretta in relazione alla liberazione degli Ebrei dal Faraone): «Quando tu avrai acquistato uno schiavo ebreo, egli ti servirà per sei anni (Es 21,2); Se il suo padrone gli ha dato moglie e questa gli ha partorito figli o figlie, la donna e i suoi figli saranno proprietà del padrone ed egli se ne andrà solo. 5 Ma se lo schiavo dice: Io sono affezionato al mio padrone, a mia moglie, ai miei figli; non voglio andarmene in libertà, 6 allora il suo padrone lo condurrà davanti a Dio, lo farà accostare al battente o allo stipite della porta e gli forerà l’orecchio con la lesina; quegli sarà suo schiavo per sempre (Es 21,4-6); Quando un uomo colpisce con il bastone il suo schiavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani, si deve fare vendetta. 21 Ma se sopravvive un giorno o due, non sarà vendicato, perché è acquisto del suo denaro (Es 21,20-21)». Quelli riportati sono “comandamenti” di Yaweh che seguono le prescrizioni elencate nei “dieci”.

Dio, quando aveva fatto tutto, di che mancava? Del riposo. E così il settimo giorno l’opera fu compiuta del tutto.
Un’esegesi seria non si limita al racconto (in questo caso assai prolisso e ripetitivo), ma tenta, nei limiti del possibile, di dare spiegazioni. Perché Dio, infinito, immenso, creò il mondo? gli mancava? dunque non era infinito? Peché Dio aveva bisogno di riposo? si era affaticato? gli erano venute meno le forze? o piuttosto intendeva suggerire all’uomo una pausa liturgica che lo inducesse periodicamente a dedicare una parte del suo tempo all’Eterno? (si tenga presente che le voci riposo e pausa hanno uguale etimo); o magari…? Forse sarebbe stato opportuno al “grande biblista” spendere due parole su tali questioni.

Il sabato, cos’è? È la fine del lavoro di Dio, è l’inizio del mondo! Sapeste quante volte ci ho pensato io. (ascolta)
Quante volte ci ha pensato!… Non stento a crederlo, soprattutto quando bestemmiava in pubblico ridicolizzando Dio: mi vengono in mente i pianeti, che Dio avrebbe “fatti” per speculazione edilizia, per mettere soldi da parte; poi, quando Galileo li scoprì, il costruttore (Dio), d’accordo col Papa, fece arrestare lo scienziato (ascolta you tube). Sia pure tardivamente, Benigni avvia comunque una spiegazione relativa al giorno di riposo.

Questo vuol dire santificare: vuol dire cambiare, abbandonare l’abitudine, non vivere la vita di ogni giorno, far diventare nuove le cose di sempre, ma soprattutto non avere più certezze, non capire più niente, perdersi, smarrirsi. Dio vuole che in quel giorno ci perdiamo, ci dobbiamo smarrire, perdere la strada e perdere noi stessi, ricordandoci che siamo capaci di rinnovarci sempre, di rinascere; e in quel giorno riuscire a vedere il mondo come quando è stato creato, il primo giorno, come quando si è mosso il primo giorno della creazione. (ascolta)
Tante chiacchiere su tema… personalizzato! Dunque “santificare” il giorno del Signore significa questo? Non avere certezze, non capire più niente, perdersi… per rinascere. Il concetto di rinascita (collegato alla resurrezione di Cristo, avvenuta il primo giorno dopo il sabato) sarà pure affascinante, ma perdere certezze e non capire più niente non mi pare una buona idea! Ben diverso è il concetto di santificazione come la Chiesa Cattolica lo presenta e lo interpreta. Più convincente sembra considerare il “settimo giorno”, dies dominĭca, come il tempo che “ci è necessario per mettere al centro della nostra vita la ricerca di una relazione con Dio. Ricerca che dà un senso a tutto il resto e che ci permette di rompere il giogo di schiavitù che ci lega all’opera delle nostre mani” (link) Altro che il compiacimento divino per il creato nelle affabulazioni del comico volte all’applauso: “Vai, mamma mia come sei bello!…” (ascolta).

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SECONDA SERATA
i Comandamenti orizzontali

Deviazione dal significato autentico del 5° e 6° Comandamento,
e allontanamento macroscopico dal Magistero, con lo scopo preciso e deliberato,
per niente casuale, ma fatto passare come “spontaneo”,
di fuorviare il pensiero e il comportamento della massa popolare,
giustificando ciò che non ha giustificazione

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QUARTO COMANDAMENTO

Effetti di un certo catechismo…

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AUDITEL: “Quasi dieci milioni di persone, una cosa… impessere [così parla Benigni] abbracciati da dieci milioni di persone fa davvero ‘mpressione, è una cosa… di un grande calore…” (ascolta)
La musichetta da circo (forse la sentiremmo anche se Benigni intervenisse a un funerale…) ha appena introdotto il clown-esegeta, le cui prime parole di ringraziamento (e di vanto) sono per il successo della prima serata di catechismo: l’Auditel, AUDIence TELevisiva (nel nostro caso piuttosto un’Au-Dio-tel…) è il dato fondamentale per il mercato-tv: il numero delle pecore che guardano [30] garantisce profitti sicuri (pecuniari, non certo culturali) e il “Vanna Marchi” della ‘cultura’ riesce quasi sempre ad avere milioni di “acquirenti”, qualunque cosa “racconti”, magari… una targhetta di ascensore! Che piacere essere stati “abbracciati da dieci milioni di persone”! Gli attuali introiti milionari “giustificati”, i futuri assicurati! Al guitto non importa nemmeno considerare che magari alcune centinaia di migliaia di telespettatori non l’ha proprio abbracciato (e una quindicina di milioni nemmeno si sono sintonizzati)… Sicuramente accanto agl’innumerevoli allocchi c’è stato infatti chi ha guardato per avere conferma della pochezza del protagonista, per imprecare contro le sue corbellerie, per rammaricarsi di essere costretto a pagare un canone che la Rai sperpera… e c’è stato chi ha guardato solo per colpire poi con dure critiche ideatori e realizzatori di simili proposte.

Onora il padre e la madre… oggi il Comandamento dovrebbe essere allargato a “onora il nonno e la nonna”… No, perché prima le prospettive di vita erano più brevi, no, specialmente a quei tempi, ce n’eran pochi di nonni […] dovremmo fare veramente l’undicesimo Comandamento onora il nonno e la nonna”.
Quella che sembra un’originale battuta comica è nient’altro che una ripresa di concetto dal Catechismo della Chiesa Cattolica che così recita: il Quarto Comandamento “chiede di tributare onore, affetto e riconoscenza ai nonni e agli antenati. Si estende infine ai doveri degli alunni nei confronti degli insegnanti, dei dipendenti nei confronti dei datori di lavoro, dei subordinati nei confronti dei loro superiori, dei cittadini verso la loro patria, verso i pubblici amministratori e i governanti” (CCC, Parte III, Sezione II, Cap. II, 2199). Le ragioni che Benigni adduce per chiarire perché il Comandamento non alluderebbe ai nonni, sono ridicole, nemmeno attente ai passi biblici che le smentiscono, come Genesi 5:21-27: «(21) Enoch aveva sessantacinque anni quando generò Matusalemme. (22) Enoch camminò con Dio; dopo aver generato Matusalemme, visse ancora per trecento anni e generò figli e figlie. (23) L’intera vita di Enoch fu di trecentosessantacique anni. (24) Poi Enoch camminò con Dio e non fu più perché Dio l’aveva preso. (25) Matusalemme aveva centottantasette anni quando generò Lamech; (26) Matusalemme, dopo aver generato Lamech, visse ancora settecentottantadue anni e generò figli e figlie. (27) L’intera vita di Matusalemme fu di novecentosessantanove anni; poi morì» (Bibbia CEI). Altro che prospettive di vita brevi quelle che la Bibbia riferisce! E se non si vuol credere alle poco plausibili età “pluricentenarie” dei personaggi del testo sacro, ricordiamo a Benigni che a quell’epoca ci si sposava molto prima: a 12 anni di età al tempo di Gesù; dalla Bibbia si desume, però, che in precedenza la donna era ritenuta pronta per le nozze all’ingresso nella pubertà, visto che per gli Ebrei “era la tumidezza del seno un sinonimo per indicare l’età da marito” (Martini Antonio, La sacra bibbia secondo la volgata, tradotta in italiano, A. Usigli, Firenze 1852, p. 136, nota 2). Fa testo, ad esempio, il passo biblico: “Et multiplicata es et grandis effecta et ingressa es et pervenisti ad mundum muliebrem ubera tua intumuerunt et pilus tuus germinavit” (Crescesti, ti facesti grande e giungesti al fiore della giovinezza. Il tuo petto divenne fiorente ed eri giunta ormai alla pubertà; Ez 16,7). Per questo, anche “se le prospettive di vita erano più brevi”, si poteva essere nonni perfino prima dei trent’anni! Come sempre si dirà che Benigni scherza… Il fatto è che poi viene sistematicamente preso fin troppo sul serio, spesso stupidamente!

È il più bello di tutti. Diciamo, ognuno ci ha i suoi preferiti, no? Ma a me, se i Comandamenti fossero persone questo è quello al quale gli telefonerei la sera… “Come va? sei libero stasera? facciamo du’ chiacchiere”, ci uscirei insieme… propo mi piace proprio tanto, tanto, tanto. (ascolta)
Che dabbenaggine! Oltre a sgrammaticature pesantemente grossolane (a me… gli telefonerei), bisogna subirsi anche la classifica dei Comandamenti, le scelte preferenziali e l’invito a cena di “onora il padre e la madre”!

Questo comandamento fa venire in mente l’eternità, la vita che non finisce mai attraverso una coppia, un padre e una madre, che rappresentano l’andare avanti delle generazioni, all’infinito per sempre. (ascolta)
Solite argomentazioni esagerate e infondate. Benigni, da vicePadreterno, stabilisce che la vita dell’uomo sulla terra sarà eterna (l’andare avanti delle generazioni all’infinito! E tralascio l’improprietà dell’espressione “attraverso UNA coppia”).

Attenzione, qui succede una cosa eccezionale, che Dio non fa mai con gli altri Comandamenti: c’è una ricompensa, c’è un premio, direttamente legato al Comandamento; l’ha nascosto dentro, come un regalo, appunto. Infatti questo Comandamento andrebbe letto come quando si scarta un regalo, per vedere la sorpresa, cosa c’è […] Ve lo leggo tutto intero com’è scritto. Sentite: onora – come quando si apre un regalo – «onora il padre e la madre affinché si prolunghino i giorni della tua vita sulla terra che il Signore Dio tuo ti ha dato» [31] (ascolta)
Dio ci dice che se si onora il padre e la madre CI ALLUNGA LA VITA!… ma non è che ce l’allunga un amico così, Dio ce l’allunga! Campiamo di più, viviamo di più! […] Abbiamo trovato la strada per campare tutti una diecina d’anni di più (ascolta)

«Sulla terra che il Signore Dio tuo ti ha dato», cioè sulla terra, qui […] Si riferisce proprio ora qui, a questo mondo [32].
Frottole, come al solito. Nessun regalo, nessun anno in più di vita biologica! Se non è in piena crisi di senno, Benigni sembra quasi prendersi gioco del Comandamento (abbiamo trovato la strada per campare tutti una diecina d’anni di più). Come potrebbe, diversamente, mostrare simile ottusità? banalizzare in questo modo le parole della Bibbia? Ce ne sono di uomini rispettosissimi dei propri genitori che muoiono in giovane età! Che significa poi campare una diecina d’anni di più? Che chi deve morire a dieci anni magari arriverà a venti? Bel guadagno! In realtà la “promessa” che Dio fa a Mosè è la semplice considerazione su quanto consegue socialmente dall’osservanza del Comandamento: «In primo luogo diciamo che la vita, della quale si tratta qui, è qualcosa di più della semplice vita biologica. Ha significato religioso e morale; designa la pienezza della vita, la vita feconda, buona e gioiosa, la cui salute proviene dalla conformità con la volontà di Yahvè; la vita data da Yahvè, mantenuta da Lui, ma conservata in dipendenza con la fedeltà ai comandamenti. “Lunga vita” era dunque sinonimo di benevolenza divina e di ricompensa: era legata alla condotta morale d’Israele. Ebbene, l’importanza del quarto comandamento “perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà”, è manifesta. Questa lunga e felice vita del popolo, come poteva assicurarsi fondamentalmente se non attraverso la sopravvivenza della famiglia, della quale i padri e le madri erano i principali artefici? Anelli di una catena, testimoni di generazioni passate e fonte di generazioni future, i genitori erano l’unica possibilità di sopravvivenza conosciuta in quell’epoca. (In ragione delle idee sull’aldilà, la morte non si considerava come problema individuale, se non per il padre che moriva senza discendenza). Solo un popolo unito nel suo interno può vivere felice. Ebbene, questa unità della comunità era condizionata prima di tutto dall’unità e dalla pace in seno alle famiglie, che assicurava l’autorità e il prestigio dei genitori veramente onorati dai loro figli. Le famiglie erano le prime cellule della nazione e la garanzia della sua sopravvivenza. Era dunque normale che il comandamento occupasse nella storia d’Israele un luogo sempre più importante, fino al punto da essere l’unico, tra tutti i precetti del Decalogo, al quale si aggiunse la promessa di “una vita lunga e felice”, promessa il cui valore familiare è evidente. [33] Grazie a questa promessa-benedizione, il legame che unisce il quarto comandamento con il sabato e l’Alleanza, appare più netto. C’è continuità tra la motivazione deuteronomica dell’osservanza del sabato e la promessa unita al quarto comandamento. Israele deve osservare il sabato perché è stato liberato dalla schiavitù d’Egitto; e se onora il padre e la madre, una volta liberato, avrà “una vita lunga nel paese che il Signore gli dona» (Edouard Hamel S.J., I Dieci Comandamenti, Casa editrice Désclée De Brouwer). [34]

[Rispettare il Quarto Comandamento] ci allunga la vita perché, se ci prendiamo cura dei nostri genitori, soprattutto quando sono avanti con gli anni, sono più fragili, con le nostre cure, le nostre attenzioni, vivranno di più. Quindi se un genitore s’ammala e viene lasciato a se stesso, è chiaro che muore subito. Così facendo, prendendoci cura dei genitori noi, diamo l’esempio ai nostri figli, che si prenderanno cura di noi quando invecchieremo e vivremo di più anche noi, quindi si prolungheranno i nostri giorni di vita sulla terra. Uno dice “vorrà dire questo, no?”. Questo sembra la spiegazione più chiara, il senso logico di questo regalo.
Benigni corregge il tiro. L’ironia (molto probabile), del “campare una diecina d’anni di più” si trasforma in un allungamento della vita grazie alle cure ricevute dai figli. La sostanza del suo ragionamento rimane tuttavia approssimativa e sicuramente lontana dall’interpretazione più genuina del passo biblico in questione. Ci si può comunque rattristare per il confuso esegeta perché, stando a quello che dice, egli vivrà meno di quanto avrebbe potuto, pur avendo onorato magari il padre e la madre, per il fatto di non avere alcun figlio.

Spesso, attenti, questo Comandamento viene confuso con l’obbedienza ai genitori, ma guardate che non è così. Onorare i genitori non vuol dire vivere in funzione loro o esserne schiavi o far decidere loro sulle scelte della nostra vita, il nostro lavoro, i nostri sentimenti: no! [Del resto per obbedienza non è questo che s’intende! nda] Onorare i genitori qui vuol dire prendersi cura di loro, semplicemente, soprattutto in un tempo in cui possono essere più fragili, quando ritornano bambini. Vuol dire stare un po’ con loro quando sono avanti con gli anni, quando loro diventano bambini e noi diventiamo i loro genitori.
Le panzane continuano a piovere… “Onora il padre e la madre” si limiterebbe a richiedere attenzione e cura per i genitori vecchi e null’altro, soprattutto non riguarderebbe l’obbedienza! È in questi casi che non si riesce a capire il plauso della Chiesa per le chiassate di Benigni, visto che il catechismo ufficiale insegna quel che segue: «Il rispetto filiale si manifesta anche attraverso la vera docilità e la vera obbedienza: “Figlio mio, osserva il comando di tuo padre, non disprezzare l’insegnamento di tua madre [...]. Quando cammini ti guideranno; quando riposi, veglieranno su di te; quando ti desti, ti parleranno” (Prv 6,20-22). “Il figlio saggio ama la disciplina, lo spavaldo non ascolta il rimprovero” (Prv 13,1). Per tutto il tempo in cui vive nella casa dei suoi genitori, il figlio deve obbedire ad ogni loro richiesta motivata dal suo proprio bene o da quello della famiglia. “Figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore” (Col 3,20). I figli devono anche obbedire agli ordini ragionevoli dei loro educatori e di tutti coloro ai quali i genitori li hanno affidati. Ma se in coscienza sono persuasi che è moralmente riprovevole obbedire a un dato ordine, non vi obbediscano. Crescendo, i figli continueranno a rispettare i loro genitori. Preverranno i loro desideri, chiederanno spesso i loro consigli, accetteranno i loro giustificati ammonimenti. Con l’emancipazione cessa l’obbedienza dei figli verso i genitori, ma non il rispetto che ad essi è sempre dovuto. Questo trova, in realtà, la sua radice nel timore di Dio, uno dei doni dello Spirito Santo. Il quarto comandamento ricorda ai figli divenuti adulti le loro responsabilità verso i genitori. Nella misura in cui possono, devono dare loro l’aiuto materiale e morale, negli anni della vecchiaia e in tempo di malattia, di solitudine o di indigenza. Gesù richiama questo dovere di riconoscenza» (CCC, Parte III, Sezione II, Cap. II, 2216-2218). Senza tener conto di passi biblici spietati, come questo: 18 Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta, 19 suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita, 20 e diranno agli anziani della città: Questo nostro figlio è testardo e ribelle; non vuole obbedire alla nostra voce, è uno sfrenato e un bevitore. 21 Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà; così estirperai da te il male e tutto Israele lo saprà e avrà timore (Dt 21,18-21).

[Onora il padre e la madre] vuol dire poi tante altre cose: Non contraddirli e non attaccarli pubblicamente, andare loro incontro per accoglierli, non separarsi da loro senza avvisarli, farsi vivi spesso se abitano in una città diversa, non ribellarsi troppo ai genitori, perché i genitori si feriscono facilmente, sono un bersaglio indifeso, inerme. Evitare comportamenti che potrebbero farli vergognare o atti che potrebbero causare loro un dispiacere, come una lite tra fratelli e sorelle. Ma soprattutto vuol dire circondarli di attenzione.
Benigni legge degli appunti sul leggio (ovviamente senza citare la fonte), tratti dal Libro delle leggi (o magari indirettamente dal volume di Marc-Alain Ouaknin, Le Dieci Parole, il Decalogo riletto e commentato dai Maestri ebrei antichi e moderni, Edizioni Paoline 2004, p. 115), aggiungendo altri significati che non modificano la sostanza di quanto egli ha già detto sull’obbedienza.

Amare vuol dire donare ciò che non si ha.
Ancora senza citazione della fonte, così la frase di Jacques Lacan (amare è donare ciò che non si ha a qualcuno che non lo vuole) diventerà una delle tante frasi famose saccheggiate da Benigni ed a lui attribuite! Come già dimostra il docu-mento a fianco, circolante nella Rete.

Basta spostare le due parole, giorni e vita, uno al posto dell’altra, e si capisce tutto. Sentite come si apre il comandamento: “Onora il padre e la madre affinché si prolunghi la vita dei tuoi giorni sulla terra che il Signore Dio tuo ti ha dato”. Ecco, onorando il padre e la madre, prendendoci cura di loro, si prolunga la vita dei nostri giorni, c’è più vita nella nostra vita, viviamo meglio, è più bella, più giusta e più intensa la vita, si allarga ed è più piena, e quindi più lunga. Ecco come si prolungano i giorni su questa terra!
Nuovo “ritocco esegetico”, due volte arbitrario, visto che si interviene non solo sulla formulazione proposta, ma anche sulla disposizione delle parole, con inevitabile alterazione del senso del Comandamento.
- In primo luogo non si capisce bene da dove SoTutto abbia attinto l’enunciazione che “legge”, visto che le tre più comuni versioni circolanti della Bibbia non le corrispondono.

  1. La C.E.I recita: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio»;
  2. La Nuova Riveduta: «Onora tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano prolungatisulla terra che il SIGNORE, il tuo Dio, ti dà»;
  3. La Nuova Diodati: «Onorerai tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano lun-ghi sulla terra che l’Eterno, il tuo DIO, ti dà»; (nella versione del 1649 la Diodati riportava: «Onora tuo padre e tua madre; acciocché i tuoi giorni sieno prolungati sopra la terra, la quale il Signore Iddio tuo ti dà»).

- In secondo luogo la sprovvedutezza di Benigni crede che l’inversione delle parole sia un giochino innocuo e praticabile, quando di solito, soprattutto in presenza di un complemento indiretto, il risultato è sostanzialmente diverso: una cosa è il libro della domenica, altra la domenica del libro! Prolungare “la vita dei giorni” può avere il senso di dare più intensità ai propri giorni, prolungare “i giorni della vita” significa invece aggiungere tempo all’esistenza: esiti semantici ben differenti, come si vede! Comunque, a questo punto siamo di fronte a tre interpretazioni dissimili, nessuna convincente, capaci di creare solo confusione. Insomma Benigni, o chi per lui, riesce a dare solo “delucidazioni” caotiche. Possiamo rimanere tranquillamente sull’esegesi di Edouard Hamel S.J., su riportata.

Secondo me la spiegazione più bella e più vera è una sola… Questo Comandamento vuol dire che se si vuol bene al babbo e alla mamma, il Signore ci fa campare di più.
Ecco il parere definitivo del prestigioso biblista! Quarta interpretazione: la confusione aumenta. Benigni fa riferimento a un aneddoto di quando era bambino (ne ha sempre uno ad hoc, come insegnano le tecniche di comunicazione persuasiva), quando avrebbe risposto al sacerdote che gli chiedeva il significato del Quarto Precetto del Decalogo: “Questo Comandamento vuol dire che se si vuol bene al babbo e alla mamma, il Signore ci fa campare di più”. “Bravo, Roberto!”. “Grazie”… APPLAUSI!

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QUINTO COMANDAMENTO

Non uccidere… nel cuore dei dieci Comandamenti […] è il Comandamento per eccellenza…
Il Comandamento per eccellenza dei Cristiani è quello segnalato da Gesù in risposta a un fariseo, “dottore della Legge”: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento? – Gli rispose: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Mt, 22,36-39; Mc 12,28-31); secondo ribadito e approfondito in Gv 13,34: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22,40). Ma Benigni, comunque, precisa “nel cuore dei dieci Comandamenti” e sembra solitamente refrattario al Nuovo Testamento, cui fa riferimento solo in chiusura di serata, per esigenze di spettacolo.

Lo sapete che ci sono stati altri codici, con tante regole, tante leggi, prima della Bibbia, no?, e dopo la Bibbia, ovviamente, ma la proibizione non solo teorica, ma assoluta dell’assassinio, è stata formulata qui, nei dieci comandamenti, per la prima volta nella storia dell’umanità! (ascolta) È un’innovazione questo comandamento, è un’idea nuova, ma… non ci credevo nemmeno io! (Nemmeno lui! Pensate, un luminare del genere…). […] C’è un crimine ancora più grande, che è quello di chi pur non uccidendo, permette che si uccida, e questo guardate vale anche per la pena di morte, che questo comandamento espelle, la cancella, non la permette. (ascolta) Guardate che la pena di morte è sempre, sempre, stata prevista per motivi economici, strategici, politici o religiosi, ma mai per giustizia, mai.
Si ritiene il 1280 a.C. la data approssimativa dell’Esodo dall’Egitto (link) [35] e dunque il XIII secolo è quello della consegna del Decalogo a Mosè. Il Codice di Hammurabi, che è databile fra il 1700 e il 1800 a.C., già prevedeva la pena di morte per l’omicidio (cosa che implica il concetto categorico del “non uccidere”), con la precisazione che “Se la vittima è il figlio di un altro uomo, all’omicida verrà ucciso il figlio; se la vittima è uno schiavo, l’omicida pagherà un’ammenda, commisurata al “prezzo” dello schiavo ucciso”. (Da notare che la legge del taglione sarà anche alla base della legge di Mosè – Eso 21, 23-25; Lev 24, 19-20). Precedente alla consegna delle Tavole della Legge è pure il libro dei morti degli antichi Egizi, dove si trovano sorprendentemente formulazioni identiche a quelle dei Comandamenti 5-9, come riferisce Chaim Potok nel suo libro Storia degli Ebrei (Garzanti 2003): “I primi cinque comandamenti sono esclusivi della religione biblica e compaiono al suo inizio, nel deserto nel Sinai. Esistono diverse opinioni riguardo al loro ordine preciso. Il secondo gruppo di cinque («Non uccidere…») è comune ad altre civiltà del Vicino Oriente. «Non ho desiderato la roba altrui… non ho rubato… non ho ucciso… non ho commesso adulterio» recita il Libro dei morti, il testo usato in Egitto quando il giovane principe Mosè veniva educato nel palazzo del faraone Seti I e il popolo che ora sta ai piedi del monte Sinai era schiavo”. Per quanto riguarda la “proibizione assoluta” del Comandamento NON UCCIDERE (che va più congruamente interpretato alla luce di Es 23,7 “non far morire l’innocente e il giusto”), Benigni farnetica, anche perché poco più oltre rettificherà in parte l’enunciato categorico affermando: “Noi sappiamo purtroppo che certe volte non si può non uccidere, no?, per esempio per legittima difesa, o nelle guerre di liberazione, perché non si può agire secondo principi assoluti come in questo caso, no?, anche se [?] c’è un’etica altissima”. Chiarisce tutto il passo seguente di Esodo 21 (il Codice dell’Alleanza), in cui Dio, dopo l’enunciazione del Decalogo (Es 20, 1), ordina a Mosè di esporre al suo popolo, fra le altre, le seguenti norme (che prevedono in molti casi la pena di morte): 12 Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte. 13 Però per colui che non ha teso insidia, ma che Dio gli ha fatto incontrare, io ti fisserò un luogo dove potrà rifugiarsi. 14 Ma, quando un uomo attenta al suo prossimo per ucciderlo con inganno, allora lo strapperai anche dal mio altare, perché sia messo a morte. 15 Colui che percuote suo padre o sua madre sarà messo a morte. 16 Colui che rapisce un uomo e lo vende, se lo si trova ancora in mano a lui, sarà messo a morte. 17 Colui che maledice suo padre o sua madre sarà messo a morte. 18 Quando alcuni uomini rissano e uno colpisce il suo prossimo con una pietra o con il pugno e questi non è morto, ma debba mettersi a letto, 19 se poi si alza ed esce con il bastone, chi lo ha colpito sarà ritenuto innocente, ma dovrà pagare il riposo forzato e procurargli le cure. 20 Quando un uomo colpisce con il bastone il suo schiavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani, si deve fare vendetta. 21 Ma se sopravvive un giorno o due, non sarà vendicato, perché è acquisto del suo denaro [36]. 22 Quando alcuni uomini rissano e urtano una donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia, si esigerà un’ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. 23 Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: 24 occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, 25 bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido” [37]. Insieme con il passo biblico citato ci si può riferire al Nuovo Testamento, alle parole stesse di Gesù in Mt 15, 1-6 (Dio ha detto… chi maledice il padre o la madre sia messo a morte); infine la lettura del Catechismo della Chiesa Cattolica conferma quanto sia fasulla l’asserzione dell’esegeta-comico: 2261 La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento: “Non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7). L’uccisione volontaria di un innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano, alla “regola d’oro” e alla santità del Creatore. La legge che vieta questo omicidio ha una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto. 2263 La legittima difesa delle persone e delle società non costituisce un’eccezione alla proibizione di uccidere l’innocente, uccisione in cui consiste l’omicidio volontario. “Dalla difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria vita; mentre l’altro è l’uccisione dell’attentatore… Il primo soltanto è intenzionale, l’altro è involontario” 2265 La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità. 2267 L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se invece i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo “sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti”. Considerazione a parte merita il pensiero, quasi senza significato, “la pena di morte è sempre stata prevista per motivi economici, strategici, politici o religiosi, ma mai per giustizia”: che senso ha? Si riferisce, il comico, al diritto naturale? Quello insito nella natura stessa delle cose e dell’uomo, “per cui la distinzione del bene e del male, del lecito e dell’illecito, sarebbe istintiva”? – Devoto). Diversamente la giustizia (dal latino ius, diritto) altro non è che un concetto riferito ad un “complesso di norme imposte con provvedi-menti espressi o vigenti per consuetudine, sulle quali si fondano i rapporti tra i membri di una comunità o si definiscono quelli tra comunità estranee” (Devoto). La “giustizia” americana, ad esempio, in molti casi prevede la pena di morte. Forse da un comico pretendiamo troppo, vero? L’importante è che tutti gridino acriticamente al genio!

Quando noi siamo usciti dal Paradiso terrestre, diciamo nella Bibbia, il Signore ci ha detto “Siate liberi, andate, vi do il libero arbitrio, potete fare quello che decidete voi, fate voi!”. (ascolta)
Elencare tutte le stupidaggini che l’asineria presuntuosa riesce ad inventare richiederebbe una voluminosa enciclopedia… Quando Dio caccia Adamo ed Eva dall’Eden (Gen 3, 9-19), tutto dice fuorché quello che riferisce l’incompetenza di Benigni, che attribuisce a Dio parole da lui mai pronunciate (violando il IV e il VII Comandamento!): 16 Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». 17 All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. 18 Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. 19 Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!» (Gen 3, 16-19). Se mai la concessione del libero arbitrio può essere rintracciata altrove nella Bibbia: ad esempio in Sir 15, 14-20: 14 Egli da principio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. 15 Se vuoi, osserverai i comandamenti; l’essere fedele dipenderà dal tuo buon volere. 16 Egli ti ha posto davanti il fuoco e l’acqua; là dove vuoi stenderai la tua mano. 17 Davanti agli uomini stanno la vita e la morte; a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà. 18 Grande infatti è la sapienza del Signore, egli è onnipotente e vede tutto. 19 I suoi occhi su coloro che lo temono, egli conosce ogni azione degli uomini. 20 Egli non ha comandato a nessuno di essere empio e non ha dato a nessuno il permesso di peccare. Si evince comunque dal passo che l’uomo non è affatto libero di credere e fare quello che vuole, essendo tenuto a rispettare le leggi divine, pena le previste conseguenze (Cercando di esemplificare: “essere liberi” di rubare o di non farlo non autorizza a rubare, cosa che anzi espone alle pene previste dalla trasgressione delle norme). C’è pure chi rimprovera a Benigni di aver diffuso il principio massonico della libertà! (Giacinto Butindaro; link2).

Lo sapevate che Caino e Abele non si sono mai scambiati una parola? E non è che c’era tanta gente con cui parlare all’epoca, eran loro due e il babbo e la mamma… Cioè il silenzio, la mancanza, l’assenza di parola, sono l’origine dell’omicidio e di qualsiasi violenza e di qualsiasi orrore! (ascolta)
Caino disse al fratello Abele: «Andiamo in campagna!». Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise (Gen 4, 8). Enzo Bianchi scrive: “Se leggete ancora l’episodio tra Caino e Abele, non si sono parlati mai. Due fratelli che non dicevano nulla, che invece di parlare della loro diversità, han lasciato crescere la loro diversità come una forza che li opponeva” (Enzo Bianchi: Semplicemente Fratelli – Evento francescano dell’Ordine Francescano Secolare d’Italia, Padova, 28 maggio 2010), con un’analisi del tutto diversa da quella sommaria che fa Benigni, Bianchi allude all’esigenza del confronto per superare la diversità e generare l’incontro, favorire l’umana fratellanza [38]. A parte la fandonia iniziale di Benigni (la Bibbia non è un romanzetto di Moccia, fitto di dialoghi insulsi! Per di più la narrazione che riguarda i due figli di Adamo ed Eva è molto sintetica, cosa di cui non tiene conto nemmeno Bianchi), appare infondata anche la generalizzazione successiva, per cui la causa unica delle violenze e degli orrori sarebbe nel silenzio della parola! Che dire del fatto che spesso le aggressioni violente sono precedute da furiosi scontri verbali? o delle istigazioni dei dittatori avvenute attraverso infuocate arringhe e magari subdoli scritti sovversivi? C’è pure chi rimprovera a Benigni di aver diffuso il principio massonico della libertà, ” secondo cui l’uomo è libero di credere e di fare quello che vuole” (Giacinto Butindaro; cfr. poi link2).

La Bibbia non dice il sangue, no, il termine è al plurale, dice “i sangui”, Dio dice: “La voce dei sangui di tuo fratello grida a me dalla terra”. Vuol dire che non solo il sangue di Abele, ma anche il sangue dei figli di Abele e quello dei figli dei suoi figli e dei suoi nipoti e di tutti i discendenti che sarebbero nati da lui fino alla fine dei tempi… se non fosse stato ammazzato, gridavano dalla terra davanti a Dio.
Considerato che in tutte le versioni della Bibbia (CEI, Riveduta, Diodati ecc.) si è scelto il singolare, l’intero ragionamento sui sangui (che il comico trae probabilmente dal pensiero di Rabbi Yudan) risulta irragionevole, soprattutto per il fatto che Benigni stesso lo invalida affermando “se non fosse stato ammazzato”! Poiché Abele è stato ucciso, il sangue dei suoi discendenti non potrà mai gridare dalla terra davanti a Dio! A meno che non si ricorra alla spiegazione di cui si serve Rabbi Yudan (La Bibbia raccontata con il Mildrash), della presenza potenziale, nel sangue di Abele, di tutti i suoi discendenti. Pensiero che lascia comunque perplessi.

Uccidere vuol dire, come sappiamo, dare la morte e alla morte non c’è rimedio, non si può ridare la vita, non ci si può far perdonare. E nemmeno Dio può aiutare! Perché Dio può perdonare le colpe commesse contro di Lui, ma non può perdonare per conto terzi, diciamo; non può perdonare le colpe commesse contro un altro, contro gli uomini: solo la vittima può perdonare colui che gli ha fatto del male, ma se la vittima è morta, nessuno ti potrà mai perdonare al suo posto, nessuno, nemmeno Dio!
Uno dei passi più eretici della trattazione del biblista-comico. Il quale, nel momento in cui afferma che Dio non può perdonare le colpe commesse da un uomo contro gli altri uomini, mette in crisi tutta la dottrina del perdono e della misericordia (sarà per questo che Benigni è stato chiamato in Vaticano a presentare il libro del Papa “Il nome di Dio è Misericordia”!) e invalida il sacramento della Penitenza, per lo meno in relazione ai Comandamenti orizzontali (a partire cioè dal IV) visto che “le colpe commesse da un uomo contro gli altri uomini” non possono essere perdonate da Dio! Dunque l’invocazione di perdono per i suoi assassini rivolta al Padre da Gesù in punto di morte sarebbe stata vana? “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lu 23,34). Davvero non si comprende come un “catechismo” del genere possa avere incontrato il favore, e dunque l’avallo, di teologi, monsignori, cardinali e papa! C’è da aggiungere che, come si sa, le prostitute cambiano clienti con estrema facilità e i mercenari sono sempre pronti a combattere per la bandiera più generosa: il denaro orienta… E così, in occasioni diverse, succede che il pensiero di Benigni si mimetizzi camaleonticamente, tanto che a gennaio del corrente 2016, in occasione della presentazione del libro di Papa Francesco Il nome di Dio è misericordia (Edizioni Piemme), è pervenuto alla “formulazione di concetti” completamente opposti (ascolta).
«Secondo Benigni, gli omicidi non possono essere perdonati da Dio! Falso, perché invece Dio perdona anche gli omicidi che si ravvedono. Davide per esempio, dopo che si rese colpevole di omicidio, in quanto aveva fatto uccidere Uria lo Hitteo, e riconobbe davanti al profeta Nathan di avere peccato, fu perdonato da Dio. Secondo che è scritto: “Allora Davide disse a Nathan: ‘Ho peccato contro l’Eterno’. E Nathan rispose a Davide: ‘E l’Eterno ha perdonato il tuo peccato; tu non morrai’ (2 Sam 12,13). E poi Giacomo nella sua epistola riprende coloro che uccidevano e dice loro: “Appressatevi a Dio, ed Egli si appresserà a voi. Nettate le vostre mani, o peccatori; e purificate i vostri cuori, o doppi d’animo! Siate afflitti e fate cordoglio e piangete! Sia il vostro riso convertito in lutto, e la vostra allegrezza in mestizia! Umiliatevi nel cospetto del Signore, ed Egli vi innalzerà” (Gia 4, 8-10). Quindi Dio può perdonare coloro che si rendono colpevoli di omicidio!» (Giacinto Butindaro). Rammentiamo anche il Catechismo della Chiesa: 1440 Il peccato è anzitutto offesa a Dio, rottura della comunione con lui. Nello stesso tempo esso attenta alla comunione con la Chiesa. Per questo motivo la conversione arreca ad un tempo il perdono di Dio e la riconciliazione con la Chiesa, ciò che il sacramento della Penitenza e della Riconciliazione esprime e realizza liturgicamente. (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 11).
Dio solo perdona il peccato 1441 Dio solo perdona i peccati (Mc 2, 7). Poiché Gesù è il Figlio di Dio, egli dice di se stesso:”Il Figlio dell’Uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati” (Mc 2, 10) ed esercita questo potere divino: “Ti sono rimessi i tuoi peccati!” (Mc 2, 5; Lc 7, 48). Ancor di più: in virtù della sua autorità divina dona tale potere agli uomini (Gv 20, 21-23) affinché lo esercitino nel suo nome.

………… (la colpa delle colpe taciute…) Per quanto riguarda il V Comandamento la critica non va rivolta soltanto agli svarioni, ma anche alle gravi omissioni. Benigni ha preferito dilungarsi attraverso prolisse ripetizioni di concetti, anche contraddicendosi, piuttosto che trovare il tempo per affrontare argomenti che l’avrebbero messo in difficoltà. Non certo di chiacchiere, dato che è uno dei più prolifici parolai in circolazione, quanto “politica”… Benigni sceglie sempre una linea di opinione sorvegliata e prudente, elusiva, anche ipocrita, che si preoccupa più di non “dispiacere al sistema” che di piacere alla verità. Perciò non un accenno all’aborto (a dispetto delle parole di Papa Francesco che nel suo messaggio natalizio Urbi et Orbi lo classifica come omicidio [39]), al suicidio, all’eutanasia: i temi avrebbero potuto irritare la sensibilità del potere e di una fascia di utenti: meglio essere “politicamente corretti”! Lettura parziale, dunque: la consueta arte di prendere in giro, egregio dulcamara! Anche se molti, troppi, vedono in te un grande artista che non sei, se non nell’accezione di maestro dei ciarlatani, come io dimostro in modo sempre documentato. Le omissioni, però, non finiscono qui: una avrebbe potuto chiamare in causa addirittura il protagonista della serata… Alludo a quella forma di omicidio che riguarda i valori, il pensiero, le idee, l’anima: “E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10, 28). Non sarebbe stato dunque inopportuno parlare del lento assassinio che i media e le loro maschere pongono in atto ai danni delle coscienze. Come avrebbe potuto però fare questo proprio uno degli interpreti in tal senso più deleteri? Ad un’attenta analisi, libera dall’ossequio fanatico che la folla gli tributa, Benigni rivela sempre, in tutte le sue “sceneggiate culturali”, logorrea, incompetenza, approssima-zione, superficialità, falsificazione, strafalcioneria (mi sia concesso il neologismo). Tutte caratteristiche atte a corrompere, a sviare, ad aggiungere alle altrui lacune le proprie, a inoculare veleno… e non certo nel corpo! Una forma infida, viscida, di traviamento mortale dell’emozione e dell’intelletto, comune a gran parte degli officianti dei mass media, in forza delle dominanti ragioni dell’apparenza e del denaro.

L’omissione più significativa del patetico esegeta resta però l’aver taciuto (ignorante?) un concetto fondamentale che si ricollega alla demagogica, quanto frettolosa affermazione: “Il silenzio, la mancanza, l’assenza di parola, sono l’origine dell’omicidio e di qualsiasi violenza e di qualsiasi orrore!”. Alludo agli effetti che si annidano nell’uso offensivo e provocatorio delle parole, capaci di farsi espressione dell’intima sorgente della violenza: “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna» (Mt 5, 21-22). È infatti limitante circoscrivere il senso del Quinto Comandamento al suo aspetto esterno. Gesù sostiene con chiara evidenza che non basta non macchiarsi le mani di sangue per non trasgredire il quinto precetto, ma che “l’uomo deve strappare dal suo cuore le radici stesse dell’omicidio: la collera e l’odio. […] Considerato in tutta la sua ampiezza, il quinto comandamento proibisce non solo il crimine, ma tutto ciò che è suscettibile di condurre fino ad esso” (Edouard Hamel S. J., I Dieci Comandamenti).

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SESTO COMANDAMENTO

La “bis-trattazione” del Sesto Comandamento, ridotto a “Manifesto del sesso libero”, è la chiave più limpida delle intenzioni dell’ “esegeta-da ridere” che, benevolentiā captā con i grani d’incenso, perfino mal versati nel turibolo, della prima serata, serve poi le peggiori vivande a tutte le menti ubriacate dagli otri verbali svuotati sulla mensa (e vuoti anche da pieni), imponendo la sua eretica ed erotica visione di un cristianesimo senza nemmeno immortalità (“Saltate dentro l’esistenza ora, qui, perché se non trovate niente ora non troverete niente mai più, è qui l’eternità…”). Per questo motivo si riservano a tale bis-trattazione una trascrizione quasi completa e un più ampio commento.

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Non commettere adulterio. Qui la Chiesa non ha cambiato solo la numerazione, ha cambiato anche il testo […] il comandamento lo hanno trasformato in “non commettere atti impuri”… sempre a che vedere con il sesso, no? Oppure era “non fornicare”.
Sul Sesto Comandamento Benigni sbriglia tutto il suo “disinvolto modernismo” [40], con attacchi per nulla velati alla Chiesa, che accusa di mistificazione e di gravi responsabilità morali e sociali; Chiesa che, per ricambiare l’impostazione polemica, irriverente e permis-siva del comico, inspiegabilmente e superficialmente (per eufemismo), approva ed elogia la di lui “esegesi”! L’attacco si materializza già nell’avvio: la Chiesa ha manipolato il testo sacro ed ha presentato il Comandamento in una forma che ne cambia la sostanza. Meglio subito precisare che, come osserva Cathopedia alla voce adulterio, nel Nuovo Testamento “Riprendendo l’uso dell’Antico Testamento, Gesù chiama adulterio il peccato in generale (Mt 12,39; 16,4; Mc 8,38; cfr. Ap 2,20-22)”.

Ah, ah, no, dico… non fornicare… ah, ah, ah… Roba che in gente s’è impazzita! Io da ragazzo ho detto, ah, ah, e chi è questo non formicare, non fornicare [41], e che vuol dire? Non si è mai capita, era una cosa strana. Siccome si sapeva che in questo Comandamento c’era il sesso di mezzo, quand’ero ragazzo, quando c’era non fornicare pensavo che c’entrasse il forno, toh! Dicevo, ma dico ma che c’entra il forno col sesso? Sarà non fare all’amore accanto al forno, sopra il forno, chissà… Oppure le formiche… non formicare… ho detto ma… ma che c’entra le formiche col sesso?! Oppure dico non guardare le formiche, ah, un mistero! Addirittura anche il tavolo di formica, formicare… no, l’avevo provate tutte, dico, ma che… pensavo anche avessero sbagliato a scrivere, no? oppure avessero usato una parola che non significava niente, tipo non slombidare, non sviringare, ch’è… una parola ‘nventata. Questo non fornicare m’ha mandato al manicomio a me. (ascolta)
Benigni ride e irride, attraverso battute… di arresto, di vero arresto della vis comica: una vetrina di banalità bambinesche, che per un professionista della risata diventano vere e proprie stupidaggini, oltraggi all’intelligenza del pubblico: sempre che non si finisca per ritenere che questa preziosa qualità faccia difetto a gran parte degli spettatori… Risulta difficile perfino pensare di scusare le gravi pecche del toscano adducendo l’attenuante della comicità: è un teatrante, e quindi bisogna perdonarlo…! Ma che senso hanno, allora, le onorificenze che gli vengono concesse e i riconoscimenti che riceve anche da chi avrebbe tutte le qualità per rilevarne le precarie conoscenze? Non è certo ad un comico che si conferiscono nove Lauree honoris causā (in Lettere, in Filosofia, in Psicologia, in Filologia…); non è un comico che viene candidato al Nobel per la Letteratura; non è un comico che si chiama a presentare un libro del papa… Vuol dire, dunque, che Benigni viene preso sul serio, che viene legittimato nel ruolo di indottrinatore di tutto («Nessuno è più indottrinato dell’indottrinatore»” scrive Dan Brown ne Il codice da Vinci, Milano, Mondadori, 2004), anche perché gli sono tributati plauso e riguardi che presupporrebbero ben altro che giullarate, troppo spesso di terza classe, e cataste di strafalcioni di ogni genere, sotto cui sprofondano i suoi “show culturali”. Davvero un perverso controsenso. Sta di fatto che l’Aretino può permettersi di tutto, strapagato e strastimato! Ed io, che sto qui a criticarlo, vengo considerato un povero ignorante che non riesce a capire il valore e le meritevoli azioni di questo “genio italico”, unico esemplare di cervello non in fuga, ben pasciuto profeta in patria… a dispetto di Giovanni 4,44…!
Da parte sua la Chiesa, affètta da profondo masochismo, ringrazia chi di lei ride: bastano poche parole di sintonia per cancellare un mare di fango! In fondo Benigni ha detto “che le Tavole della legge sono il più grande regalo per l’umanità, che sono la via della libertà per l’uomo” (Lettera a Benigni di Franco Agostinelli, vescovo di Prato, che riferisce proprio inopportunamente, visto il personaggio a cui si rivolge, il pensiero Di Benedetto XVI, sintetizzato nel titolo del volume edito dalle Paoline [2014] I Comandamenti, cammino di libertà). Una carezza può anche coprire mille sputi!

Insomma, questo Comandamento è stato cambiato da “non commettere adulterio” a “non commettere atti impuri” dalla Chiesa da più di quattro secoli. E nella spiegazione la Chiesa diceva così: che il Comandamento “non commettere atti impuri” è composto da due parti, una che vieta l’adulterio, come l’originale dell’Esodo, e un’altra che impone la castità dell’anima e del corpo.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica ha esteso il comandamento di non commettere adulterio nei termini di non commettere atti impuri per disciplinare e illuminare tutti i rapporti interpersonali. L’operazione non è errata perché il matrimonio, nella Bibbia, è la figura simbolica di tutte le relazioni interpersonali, dei loro splendori e delle loro miserie” (Padre Edoardo Scognamiglio). «Quanto, poi, all’accusa rivolta da Benigni alla Chiesa cattolica di aver “manomesso” il sesto comandamento, sostituendo il divieto di “non commettere adulterio” con quello di “non commettere atti impuri”, basta leggere il testo ufficiale del Catechismo della Chiesa cattolica, sopra richiamato, per convincersi del contrario. Al capitolo secondo, pag. 570, Articolo 6, al titolo “Il sesto comandamento” segue l’indicazione del suo contenuto: “Non commettere adulterio (Es 20,14; Dt 5,18)”; nelle numerose pagine di commento che seguono, il termine “atto impuro” non ricorre mai. In dette pagine, il comandamento in questione viene proposto, alla luce della Nuova Legge evangelica che, come detto nella premessa, ne rivela il pieno senso, aggiungendo, pertanto, oltre alle ipotesi di rapporti sopra richiamate, anche le altre che obbiettivamente escludano il fine naturale della procreazione, come la masturbazione e l’omosessualità. Nulla cambia od aggiunge, poi, il fatto che, nella formula catechistica, il complesso di tali atti venga, sinteticamente, qualificato come “atti impuri”. Per completezza, anche perché Benigni dimostra chiaramente di preferire, nel commentare i dieci comandamenti, di riferirsi ai sacri testi dell’Antico Testamento, anziché a quelli del Nuovo, basti richiamarsi a quanto previsto nel Levitico, testo che segue quello dell’Esodo e che viene indicato quale testo esclusivamente legislativo, soprattutto in tema di “purità ed impurità”. Ebbene, in tale libro sacro (Le 15, 19) vengono esplicitamente qualificati “impuri”: “la donna e l’uomo che abbiano avuto un rapporto con dispersione seminale” ed, inoltre, viene stabilito il divieto “a mangiare le cose sante” a chi “abbia avuto una dispersione seminale” (Le 22, 4), con ciò chiaramente condannando gli atti sessuali che non siano obbiettivamente idonei alla procreazione» (Federico, 2 Gennaio 2015).
Da tener presente la nota del Cardinale Gianfranco Ravasi, riguardo alla quale nutro tuttavia qualche perplessità quando Sua Eminenza scrive: “Noi sappiamo che la Rivelazione biblica non è una sequenza di perfetti teoremi teologici ma è “incarnata” nella storia e, quindi, ha una sua evoluzione verso mete più alte”. Io non riesco, purtroppo, a concepire un’etica divina legata alla storia, in questo caso un Dio che usa due “giustizie” diverse nei confronti del maschio e della femmina che compongono la coppia, per “adeguarsi” all’epoca, in vista di future “evoluzioni” della conoscenza umana, ma mi rendo conto che una posizione del genere finisce per porre in discussione la Bibbia come rivelazione, o addirittura gli attributi divini di Jahvè! Del resto mi tornano in mente anche gl’insegnamenti del Manzoni, che “alla storia come prodotto della natura umana, e dunque come serie di errori e di colpe, contrappone un valore fisso e universale, sottratto al relati­vismo storico: il valore della morale cattolica” (link).

Eh… la castità! La castità, che come sapete è quella virtù che i preti si tramandano di padre in figlio, no, insomma… La castità può essere una grande virtù se praticata con moderazione, insomma. (ascolta)
Il comico esegeta generalizza, dichiarando con sottile sarcasmo che i preti sono tutti lussuriosi, e tradisce la sua immutata natura ricollegandosi ad un vecchio adagio del TuttoBenigni; poi aggiunge che la castità “va praticata con moderazione”. Il pubblico ride ed applaude, la Chiesa e i suoi princìpi sono alla berlina. Possono confermare la loro soddisfazione i vari Monsignor Fisichella, Padre Lombardi, l’Arcivescovo di Chieti e teologo Bruno Forte, e lo stesso papa, che in vario modo hanno lodato Benigni, senza voler capire che sotto una maschera nemmeno tanto opaca, il comico non è diverso dal 1980 (altro che “metànoia”! [14]), quando affermava: «…Perché la vera rovina oggi sono i preti… La vera rovina è il prete! Eh? …mi piace… Ché col prete non godi mai, ti mandano all’inferno sempre. Fanno i Comandamenti a favore suo […] Ti mandano all’Inferno, fa all’amore i’ ppopolo, non puoi, loro si sposano, fanno all’amore con chi gli pare. Fai all’amore quando sei piccino, all’amore…, fai all’amore da solo, insomma, peccato mortale… Pùm! Inferno… Più grande, con una donna che non sei sposato, non c’è il sacramento, Inferno un’altra volta. […] Perché loro lo fanno all’amore, sai! […] i preti sono maialoni proprio, sono maialoni, proprio delle bestie. Omini… rospi… cavalli… tutto pigliano! Fanno all’amore, Madonna, continuamente fanno all’a-more» (Prologo a Cioni Mario di fu Gaspare e Giulia).
Il danno prodotto dal consenso delle massime autorità della Chiesa è del tutto evidente nel passo che segue:
«Non è un caso che lo stesso Papa Francesco abbia citato Benigni, l’ultimo dell’anno, parlando di grande artista: “Diceva qualche giorno fa un grande artista (???) italiano che per il Signore fu più facile togliere gli israeliti dall’Egitto che togliere l’Egitto dal cuore degli israeliti”. Una citazione per nulla convenzionale per spiegare che gli israeliti erano stati sì liberati materialmente dalla schiavitù, ma durante la marcia nel deserto con le varie difficoltà e con la fame cominciarono allora a provare nostalgia per l’Egitto quando mangiavano cipolle e aglio dimenticandosi però che ne mangiavano al tavolo della schiavitù. Insomma, se un Papa cita un comico per spiegare la Bibbia significa che la sua esegesi era davvero efficace, oltre che corretta» (Andrea Fagioli). O vuol dire che “un Papa” non ha ascoltato con attenzione TUTTO quello che il “grande artista” ha detto!

Ora quello che hanno fatto, la Chiesa, una manomissione vera e propria! Perché introduce in questo Comandamento tutti pensieri che non c’entrano niente! Il Comandamento nel nel nel testo originale dell’Esodo vieta l’adulterio, che tra poco vedremo come, ma non parla per niente di castità, né dell’anima e né del corpo. (ascolta) È una cosa che ci hanno rovinato tutti, perché, non precisando quali siano questi atti impuri da commettere, si arrivava a pensare che era un peccato gravivissimo (sic) tutto quello che riguardava il sesso in generale [pensiero protestante [42]], qualsiasi cosa che aveva a vedere co co co co col sottosopra, insomma, era peccato mortale! [43] Ma da starci male proprio! Ma non è la visione della Bibbia! (applausi) Guardate che hanno fatto diventare, con questo Comandamento, sesso e peccato sinonimi: il sesso è il peccato! Infatti se uno dice quella è la casa del peccato, non è che uno pensa che è la casa dove si dice falsa testimonianza, no? Diciamo, se si dice quella è una donna peccaminosa [44], non è che si pensa a una donna che non santifica le feste, diciamo, no? Peccato è sinonimo di sesso. Ma non commettere atti impuri alla fine, però, fermi, alla fine non commettere atti impuri purtroppo – io ve lo posso dire, ci ho esperienze personali – io ricordo quand’ero ragazzo in paese, che avevo, andavo al catechismo, questo comandamento voleva dire una cosa sola: riguardava noi ragazzi, maschi, di dodici tredici anni, solo noi, di non fare quella cosa là… era solo quello (risate, applausi). Anche poi perché guardate il caso l’età in cui si fanno quelle cose coincideva esattamente con l’età in cui si va al catechismo, dodici tredici anni, proprio là, in pieno.
Applausi scroscianti, ovviamente! La lussuria è finalmente permessa!
Il Comandamento dev’essere interpretato alla lettera, sostiene il biblista simoniaco che commercia a caro prezzo l’eterodosso catechismo (si tenga presente, fra l’altro, che quello della manomissione dei Comandamenti è un ritornello protestante: “Il clero Cattolico Romano ha alterato i comandamenti!” tuonano i cristiani evangelici [45]), ottusamente trascurando che esso considera, per tutte, l’espressione più grave della lussuria, peccato condannato sempre severamente in tanti passi del testo sacro (non a caso il primo disagio di Adamo ed Eva dopo la cacciata dall’Eden fu la nudità: Gen 3,7): altro che affermare che “non è la visione della Bibbia”!
Legga, Benigni, degli “Amanti lussuriosi come asini, libidinosi come stalloni” (CEI, Ez 23,20; nella versione della Nuova Riveduta il comico potrebbe apprendere anche il significato di fornicare: Si appassionò per quei fornicatori dalla carne come la carne degli asini e dal membro come il membro dei cavalli). Legga 3 Quanto alla fornicazione e a ogni specie di impurità o cupidigia, neppure se ne parli tra voi, come si addice a santi; 4 lo stesso si dica per le volgarità, insulsaggini, trivialità: cose tutte sconvenienti. Si rendano invece azioni di grazie! 5 Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro – che è roba da idolàtri – avrà parte al regno di Cristo e di Dio. 6 Nessuno vi inganni con vani ragionamenti: per queste cose infatti piomba l’ira di Dio sopra coloro che gli resistono. 7 Non abbiate quindi niente in comune con loro. 8 Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; 9 il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. 10 Cercate ciò che è gradito al Signore, 11 e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente, 12 poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare. 13 Tutte queste cose che vengono apertamente condannate sono rivelate dalla luce (CEI, Ef 5, 3-13). Legga Un uomo impudico nel suo corpo non smetterà finché non lo divori il fuoco; per l’uomo impuro ogni pane è appetitoso, non si stancherà finché non muoia (CEI, Sir 23, 16-17). Legga Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri (Lettera di San Paolo ai Romani Rm 13,12-14), oppure Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dalla impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio (Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi 1 Ts 4,3-5).
E legga, per tagliar corto, Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio (Mt 5,8).
Benigni afferma poi: “Si arrivava a pensare che era un peccato gravivissimo (sic) tutto quello che riguardava il sesso in generale”; ma se avesse approfondito davvero la consultazione e la comprensione della Bibbia (“Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è immondo in se stesso” – Lettera di San Paolo ai Romani Rm 14,14) e scorso con attenzione la Sezione Seconda, Capitolo Secondo, Articolo 6 del Catechismo della Chiesa Cattolica, dove il Comandamento biblico è riferito alla lettera e mai ricorre l’espressione “atti impuri”, non avrebbe dato una lettura così distorta, per quanto si debba riconoscere l’esagerata apprensione di certo catechismo parrocchiale e di taluni confessori nei confronti di tale precetto, soprattutto nel passato. In ogni caso la Bibbia di “impurità” nell’uso del corpo parla eccome! (1 Co 6,18).
Alle esagerazioni di quei sacerdoti, Benigni sostituisce comunque le sue, che raggiungono in un sol colpo milioni di uditi estasiati: “Ci hanno rovinato tutti”!
Che guaio, povero Roberto, non aver potuto fare il segaiolo con l’imprimatur della Chiesa!
Comunque, coup de théâtre o, se preferite, colpo di scena: “l’originale dell’Esodo” di cui parla Benigni pare proprio non essere quello che lui riferisce, perché l’antico testo ebraico riporta “Lo TiNe’aF”, ovvero “Non ti prostituirai”, «più letteralmente “non userai la sessualità come un oggetto”, come uno strumento per raggiungere qualche obiettivo. Insomma: quando fai l’amore, fa’ l’amore; accorgiti che il sesso è importante di per sé. […] Un’esortazione a non prostituirti mai, in nessun modo, a cominciare dal modo in cui onori il tuo vigore sessuale» (Igor Sibaldi, Qualcosa che c’è nei Dieci Comandamenti).

‘Nsomma, quelli che hanno cambiato il comandamento da non commettere adulterio a non commettere atti impuri, hanno rovinato generazioni di ragazzi, compresa la mia, compresa la mia… (fra applausi scroscianti e liberatori del pubblico) Io me la ricordo… A me m’hanno rovinato, tutta la mia generazione, con tutti i miei amici dell’epoca ‘n paese, i miei amici me li ricordo ancora, i Monti, Valentini, Casalieri… non potete sapere i patimenti, lo sforzo, la difficoltà di resistere, perché quella è un’età in cui eeeh la pentola bolle, bisogna buttar giù la pasta, non si regge. Era quello il peccato, era tremendo, perché al catechismo ci dicevano che a Dio, proprio ce lo dicevano a noi maschi, a Dio quella cosa lì non gli piace, non la fate mai eh! Il prete ce lo diceva guardandoci negli occhi… n ma pro… Dio, quindi noi pensavamo che Dio s’era propo fissato su questa cosa, su noi, e ci stava attentissimo, che era lì, a controllare noi… ma dico ma, una paura, pensavamo che Dio era lì a controllare noi tutto il giorno ed era la cosa che… che lo preoccupava di più al mondo: fermare noi. Io e i miei amici, Monti, Valentini, Casalieri, ci si guardava sgomenti, si diceva “ma perché Dio se l’è presa così tanto con noi, con tutto quello che c’è da fare nel mondo… E il prete poi, il prete che lo sapeva sempre! Quando ci s’andava a confessare, ripeto cose che sappiamo tutti, lo sappiamo tutti che la prima cosa che diceva a noi ragazzi maschi di quell’età era subito, appena inginocchiati: “Quante volte?”. Subito. A me mi faceva un’impressione, perché io dicevo “ma come fa a saperlo?”, ma possibile che oltre a Dio che vede tutto, anche questo prete vede tutto (risate, applausi scroscianti…). Ma una cosa… tremendo! Si stava male: oltre a Dio che vede tutto, anche questo pretaccio tutto, vede tutto! Quella domanda era tremenda, perché partiva subito con “quante volte?”. Voleva dire, tra l’altro, che il problema non era se quella cosa l’avevi fatta o no… Che l’avevi fatta era sicuro, il problema era solo capire quante volte… quel qua, quel, una vergogna! Si cercava di obbedire al Comandamento, ci si tratteneva, si cercava insomma con tutte le for…
Un esempio di prolissità ripetitiva questa arringa a difesa della masturbazione (“appassionato e torrenziale elogio” lo definisce Bruno Dente da Padova), e ad accusa del “rovinoso attentato” della Chiesa all’integrità psicofisica di “generazioni di ragazzi”! I quali, invece, non hanno nulla da temere, adesso, dai modelli traboccanti di disvalori che la trionfante società del pensiero debole e i pastori mediatici, esclusivamente “preoccupati di” ed “occupati a” gonfiare le tasche, dispensano a profusione, con dispregio di qualunque attenzione etica, preferendo modellare fantocci anziché educare uomini; società e pastori responsabili di tutte le disastrose conseguenze che sono ogni giorno sotto gli occhi e presso (ma più spesso dentro) gli orecchi di tutti! Il decantato giullare che straparla, improvvisato prete in clergyman senza pettorale e collarino, ma “non-prete” per chi deve scusarne la prestazione incompetente ed a tratti eretica, il comico da cui non si può pretendere che si sostituisca alla Chiesa, ma cui tuttavia è concesso di fare, del sacro, oggetto di show, di mistificazione, di derisione e di smodato profitto, conditi con qualche filo di genuino olio biblico, tanto per salvare la vivanda “inappetibile”, e che per tali servigi il Papa invita in Vaticano a presentare il Suo libro “Il nome di Dio è misericordia”, è l’emblema scaltro, consapevole e gaudente del declino morale e culturale non solo dei mezzi audiovisivi di propaganda del vuoto, ma di tutto il bieco sistema che avvolge e pervade l’umanità globalizzata. Mi dispiace per te, Roberto, effimero mito di sabbia! Non commento l’infinita litania delle sofferenze da astinenza (peraltro poco credibile) di Benigni e dei suoi amici di adolescenza, ma sento il dovere di ribattere alla stucchevole gag “quante volte?”. Non ricordo un solo caso in cui una confessione sia stata avviata da questa domanda (e non ne hanno memoria i miei amici, “i Monti, Valentini, Casalieri” per dirla alla Benigni) che magari veniva posta successivamente, al probabile scopo di rilevare l’aggravante dell’iterazione, considerata nella sua entità, dell’atto immorale. La formula iniziale di rito era semplicemente: “Da quanto tempo non ti confessi?”… ma le storielle aneddotiche, si sa, sono potenti strumenti di comunicazione (e d’imbonimento). “Sicuramente non può Benigni, nonostante l’impegno che profonde, fare il teologo, ma da ieri sera 10 milioni di italiani hanno capito che la masturbazione non è più un peccato” scriveva Luisa Loredana Vercillo all’indomani della “straordinaria performance” televisiva del guitto nazionale.

Poi, a un certo punto, da più grande, a diciotto diciannove anni, leggendo, vengo a scoprire che questo peccato se l’erano inventato i preti, nella Bibbia non c’era, non era così, cioè non era peccato fare quelle cose, si poteva fare tutto! [46] No… Roba da fare causa alla Chiesa per i patimenti subiti! (risate, applausi scroscianti…). Ma veramente ho detto io, pensai, ma io vi faccio causa! Io vi faccio causa insieme ai miei amici, i Monti, Valentini, Casalieri, facciamo una cosa insieme, come si chiama lì, la class action, [47] una class action, voi ci dovete risarcire, no’lla potete passà lliscia, si poteva stare bene, proprio come de’ papi (battuta proprio infelice!), insomma, come dei marajà. Ma pensa te! Bah, è andata così, va.
Mistificazione sfacciata, di fronte alla quale mi meraviglio davvero che le alte sfere della Chiesa non abbiano replicato duramente e, al contrario, abbiano applaudito!!!
Occorre ricordare che la Chiesa fonda la riflessione elaborata a partire dal testo complessivo della Scrittura, sia sul vangelo di Gesù che è arrivato dopo, sia sull’esempio di Gesù e Maria, sia sulla Tradizione dei Padri, confermate dagli esempi e rivelazioni dei Santi.
Altrimenti si cade nel protestantesimo, col principio “sola Scriptura” che porterebbe anche a riconoscere ad esempio il concubinato o altre situazioni proprie del tempo” (link).

Qualche passo biblico significativo:
In testa all’elenco vengono poste le citazioni più probanti. Nella prima risulta chiara la distinzione fra l’eiaculazione al di fuori del rapporto di coppia e quella invece legata alla copula.
16 L’uomo che avrà avuto un’emissione seminale, si laverà tutto il corpo nell’acqua e resterà impuro fino alla sera. 17 Ogni veste o pelle su cui vi sarà un’emissione seminale dovrà essere lavata nell’acqua e resterà impura fino alla sera. 18 La donna e l’uomo che abbiano avuto un rapporto con emissione seminale si laveranno nell’acqua e resteranno impuri fino alla sera (Lev 15:16-18).
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Nella citazione che segue è chiaro il divieto d’uso del proprio corpo a scopo di libidine. 3 Questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impurità, 4 che ciascuno di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto, 5 senza lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio; 6 che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello, perché il Signore punisce tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e ribadito. 7 Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. 8 Perciò chi disprezza queste cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo santo Spirito. (1 Ts 4,3-8).
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Anche il passo seguente non permette facilmente di escludere l’allusione alla masturbazione: Un uomo impudico nel suo corpo non desisterà finché il fuoco non lo divori (Sir 23,16).
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Meno evidenti, ma ugualmente significativi, sono tutti gli altri brani di seguito riportati. 13 …il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. 14 Dio poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. 15 Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! 16 O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due saranno, è detto, un corpo solo. 17 Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. 18 Fuggite la fornicazione! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo. 19 O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? 20 Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo! (1 Co 6, 13-20).
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3 Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, 4 perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito. 5 Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. 6 Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. 7 Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. 8 Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio. 9 Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 10 E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. 11 E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. 12 Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; 13 poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete (Rm 8, 3-13).
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8 Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io; 9 ma se non sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere (1 Co 7, 8-9)
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«San Paolo, scrisse di tali rapporti e della masturbazione chiamata impurità o impudicizia:“Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio” (Gal 5,19-21);” e ancora: “Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l’ira di Dio su coloro che disobbediscono” (Col 3,5-6). “Quanto alla fornicazione e a ogni specie di impurità o cupidigia, neppure se ne parli tra voi, come si addice a santi; lo stesso si dica per le volgarità, insulsaggini, trivialità: cose tutte sconvenienti. Si rendano invece azioni di grazie! Perché sappiatelo bene, nessun fornicatore o impuro, avrà parte del Regno di Cristo e di Dio” (Ef 5,5); “ Non v’ingannate: né i fornicatori, né gli idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né gli omosessuali, né i ladri, né gli avari, né gli ubriaconi, né gli oltraggiatori, né i rapinatori erediteranno il regno di Dio” (1 Co 6,9-11); “Perché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passioni e di libidine, come i pagani che non conoscono Dio; che nessuno offenda o inganni in questa materia il proprio fratello perché il Signore è vindice di tutte queste cose, come già vi abbiamo detto e attestato. Dio non ci ha chiamati all’impurità ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste norme, non disprezza un uomo ma Dio stesso (1 Tess 4,3-8)”. Si può peccare, gravemente, anche col pensiero poiché “è dal cuore [considerato all’epoca sede dei sentimenti] che vengono pensieri malvagi, omicidi, adultèri, fornicazioni, furti, false testimonianze, diffamazioni. Queste sono le cose che contaminano l’uomo (Mt 15,19-20)”. Sbagliato è anche giustificare gli “atti impuri” in virtù del fatto che, ad oggi, siano all’ordine del giorno: “Non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e l’orgoglio della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Gv 2, 16-17)”». (link)

Ora la Chiesa purtroppo ce l’ha sempre avuta questa cosa terribile della paura del sesso, della donna, del piacere. E poi è strano, perché nella Bibbia è l’opposto. Guardate che la sessualità nella Bibbia è vista proprio come un grande dono di Dio, è la cosa che più ci avvicina e ci accomuna a Dio [48] perché il sesso è il luogo della creazione. Pensate solo al Cantico dei Cantici, che per alcuni è stato eletto il libro più sacro della Bibbia, è tutto dedicato all’amore erotico, alla sessualità. Sono due persone, due giovani sposi che pensano solo all’amore [Maniaci? Non lavorano, non mangiano, non dormono? ndc.], innamorati, un amore fresco, fedele, esclusivo, che non ha altra giustificazione che se stesso, proprio l’amore per l’amore [strano che il CCC 2351 affermi “Il piacere sessuale è moralmente disordinato quando è ricercato per se stesso”; ndc.]. È propo tutto una fioritura, la vita. Un libro proprio colmo dell’accecante bellezza del verbo amare. È il poema dell’amore sessuale, un libro bellissimo. Un grande saggio ha detto che l’universo intero non vale il giorno in cui gli uomini ebbero da Dio il Cantico dei Cantici, bellissimo! [49].
[Si consiglia, per non cadere nelle esaltazioni a senso unico di Benigni, l’opuscolo di Francesco Rossi de Gasperis, “Il Cantico dei Cantici”. Interessanti anche il lavoro di Alex Faggian, “Il Canto della Vita” e, sul rapporto fra corpo e religioni, il libro di Gaspare Mura e Roberto Cipriani, “Corpo e religione”, Città Nuova Editrice 2009].
È sempre l’uso, caro pseudobiblista, che giustifica il mezzo! Leggi, egregio sprovveduto (e tendenzioso) “arringapopolo” l’enciclica di Benedetto XVI Deus Caritas est, di cui riporto un passo ad hoc: “Oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato di esser stato avversario della corporeità; di fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state. Ma il modo di esaltare il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole.
L’eros degradato a puro « sesso » diventa merce, una semplice « cosa » che si può comprare e vendere, anzi, l’uomo stesso diventa merce. In realtà, questo non è proprio il grande sì dell’uomo al suo corpo. Al contrario, egli ora considera il corpo e la sessualità come la parte soltanto materiale di sé da adoperare e sfruttare con calcolo. Una parte, peraltro, che egli non vede come un ambito della sua libertà, bensì come un qualcosa che, a modo suo, tenta di rendere insieme piacevole ed innocuo. In realtà, ci troviamo di fronte ad una degradazione del corpo umano, che non è più integrato nel tutto della libertà della nostra esistenza, non è più espressione viva della totalità del nostro essere, ma viene come respinto nel campo puramente biologico. L’apparente esaltazione del corpo può ben presto convertirsi in odio verso la corporeità. La fede cristiana, al contrario, ha considerato l’uomo sempre come essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà.
Sì, l’eros vuole sollevarci ‘in estasi’ verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni
”.
Per quanto riguarda Il Cantico dei Cantici si rammenti, prima di tutto, che “la vera origine del libro non è chiara: se l’attribuzione a Salomone può essere letta come un tributo d’onore al grande legislatore, padre della tradizione ebraica, è più probabile che il Cantico sia nato come una raccolta di diversi poemi antecedenti originari dell’area mesopotamica, unificati dal comune riferimento ad un unico tema, quello della ricerca dell’amore” (Maurizio Falghera, Il Cantico dei Cantici, Il Narratore S.r.l., 2014). In secondo luogo che l’interpretazione naturalistica è quella generalmente prediletta dai protestanti (Treccani), dunque con molta probabilità dal “maestro” valdese di Benigni. Si tenga poi presente che fu Rabbi Akiva a volere che fosse inserito nell’Antico Testamento, durante il Concilio di Javne (I secolo d.C.), attribuendo al passo un significato simbolico (per gli Ebrei amore di Dio per il suo popolo, per i Cristiani amore di Cristo per la Chiesa). Questa la sua giustificazione: “Il mondo intero non è degno del giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato donato a Israele: tutte le Scritture infatti sono sante, ma il Cantico dei Cantici è il Santo dei Santi!”. «L’erotismo attiene a ciò che si nasconde e al tempo stesso si rivela, alla presenza nell’assenza. Il Cantico dei Cantici ma anche tutta la Torà sono permeati da tale dualità che sicuramente seduce il pensiero e genera ermeneutica. “Aggiungere è sottrarre”, recita un detto talmudico. L’erotismo in generale e quello del Cantico in particolare, dovrebbe acuire la nostra capacità di comprendere simbolicamente. Per l’appunto, il vestito coprente e aderente che nasconde e rivela, simbolo per eccellenza dell’erotismo e quindi di ciò che è relazione, si dice in ebraico ‘simlà’, il cui etimo omofonico ‘semel’ significa ‘simbolo’» (Baharier Haim, pensatore e studioso di ermeneutica biblica). “Nel Cantico si narra l’amore umano, si celebra il piacere umano accessibile a tutti, o meglio a chiunque sappia amare con consapevolezza” (Enzo Bianchi). In ogni caso non è da mettere in discussione, nella tradizione cattolica, «una visione dualistica della sessualità, ereditata dal mondo greco, in particolare dal platonismo. Per questo disprezzo della sessualità si è voluto cancellare ogni riferimento alla fisicità presente nel Cantico: purtroppo si è scelto di considerare il testo solo in chiave simbolica, negando il grande valore umano che esso contiene. In sintesi, occorrerebbe saper tenere insieme queste due dimensioni, come ha scritto con intelligenza il card. Ravasi, in un suo commento al Cantico: “L’amore umano pieno, dove corporeità ed eros sono già linguaggio di comunione, giunge di sua natura a dire il mistero dell’amore che tende all’infinito e può raggiungere la realtà trascendente e divina”» (Enzo Bianchi). Non sembra proprio che Benigni abbia mirato a dire queste cose, nell’affermare che l’amore degli sposi del Cantico è fine a se stesso.

Ma veniamo ora al nostro Comandamento. Allora “non commettere adulterio”. Questo è il Comandamento che nasce in un modo che lo vedremo fra poco. Poi il Comandamento, non commettere adulterio, ripeto, si è evoluto fino a significare quello che intendiamo oggi, e cioè vuol dire che non si possono avere rapporti sessuali fuori dal matrimonio. Voi mi direte “ma è ancora valido?”, sì, è valido, sta nei Dieci Comandamenti, tra le dieci parole di Dio […] “Non commettere adulterio” non è più sentito come fondamentale. Diciamo oggi la lussuria non è più un peccato, è una statistica, diciamo. Questo Comandamento ha avuto sì un’influenza enorme, incalcolabile sulla nostra civiltà, però uno può dire è come se avesse esaurito il suo compito. Insomma, le cose son cambiate: la legge, per esempio, ha depenalizzato l’adulterio, non è più un reato. Nessuno più pensa che sia una cosa grave. […] Oggi per fare un matrimonio felice in genere ci vogliono più di due persone. […] Quando due persone che stanno insieme da tanto tempo poi improvvisamente si lasciano, di solito la colpa è di tutti e tre.
In relazione a Benigni, una volta tanto diamo ragione a Dario Fo: “Ultimamente mi ha sorpreso questa facilità a mettersi in condizione di non più poterlo seguire, perché dice, stradice un concetto e poi lo brucia, e poi lo contanima (sic), ti mette in imbarazzo, perché conoscendolo dall’origine è molto cambiato… soprattutto è spietato verso se stesso, perché annulla quello che ha fatto per anni… Si adatta al meglio che gli può produrre un atteggiamento o una definizione politica o sociale” (Reputescion, 18 Febbraio 2016). Si adatta, preciserei, a quello che meglio può procurargli milioni di Euro! E fa il trasformista, incurante della propria incompetenza, consapevole dell’altrui sprovvedutezza, forte del fatto che, avendo acquisito consenso popolare e potere, avrà dalla sua parte i cortigiani, gl’incensatori, i manutengoli, in qualunque ambito vorrà muoversi. Perfino la Chiesa, di fronte a una prestazione subdola, trasgressiva ed aggressiva, si è inchinata al maligno manipolatore di coscienze nelle vesti di un traviato convertito, maschera efficace per celare l’astuto, insaziabile “eurovoro” [50] all’assalto dei suoi secolari princìpi. Divoratore che inventa qui “l’evoluzione dei Comandamenti”! Come se Dio avesse cambiato opinione o se un precetto eterno potesse subire un processo di trasformazione della sua sostanza! Sappiamo tuttavia che il nostro “biblista” è un maestro dell’improprietà e della confusione e che dunque intende dire, probabilmente, che del Sesto Comandamento è cambiata l’interpretazione. Egli sottolinea la cosa con battute e considerazioni cui sembra dare più peso del semplice motto di spirito, che paiono più giustificative che critiche, sollevando una partecipazione complice del pubblico: considera l’adulterio come fenomeno così diffuso da dover essere considerato nei numeri più che nella sua natura di deviazione, ne vela il carattere di peccato, rimarca l’indebolimento del valore del vincolo coniugale, alludendo alla felicità di coppia come risultato della pratica del tradimento; sottolinea, infine, la depenalizzazione della sleale pratica.

Vediamo come nasce il Comandamento. In origine non commettere adulterio si rivolgeva solo all’uomo e vietava di avere un rapporto sessuale con una donna sposata. Con questo Comandamento siamo dentro, come più non si può, alla parola più importante e più ripetuta della Bibbia, la parola generazioni [la parola ricorre 57 volte, ma tanto per confutare questa stupidaggine dirò che già la parola “morte” s’incontra 549 volte, “Dio” 5002 e “Signore” 8205! ndc.]. La parola generazioni! Voi vi ricordate, no?, tutte le genealogie dell’Antico Testamento… Il mondo futuro nella Bibbia non è l’Aldilà, è questo, è il mondo che sta venendo, ci dice come vivere in eterno di qua, ci dice vivrai e con te vivrà la tua discendenza, se sai che è tua: eccolo il Comandamento! Stabilisce una responsabilità, dice “tu sei responsabile dell’eternità della tua discendenza”. Nell’adulterio c’è il piacere del corpo, ma c’è un’assenza di responsabilità totale, soprattutto per i figli. Poi a quell’epoca! Guardate che anche questo è stato un Comandamento rivoluzionario! Perché? Perché mette delle regole su delle cose per l’epoca inaudite! Regolamenta la famiglia, la coppia, il matrimonio, i diritti dell’uomo e della donna, ma tremila e cinquecento anni fa! [Proprio un’idiozia pensare e dire che Dio, nientemeno che tremilacinquecento anni fa, sarebbe stato così lungimirante!… ndc.] Ma pensate un po’… è inaudito questo Comandamento. Guardate che allora non esistevano nemmeno matrimoni per amore, era tutto deciso dalla famiglia. Guardate che non c’era nessuna legge da nessuna parte del mondo su queste cose.
A me quest’analisi sembra balorda, oltre che imprecisa e farraginosa.
Rivolgiamoci a una fonte più attendibile: «Non commetterai adulterio» (Dt 5,18). Per determinare il senso esatto e I’ambito di questo comandamento, bisogna riferirsi alla situazione sociologica dell’antico Israele, che praticava la poligamia e dove la donna sposata era considerata in certo senso come proprietà del marito. Nella legge di Mosè non c’era niente che proibisse formalmente all’uomo le relazioni con donne non sposate o con schiave. Le relazioni extraconiugali non costituivano adulterio, giacché il marito poteva sempre, grazie alla poligamia, prendere come seconda moglie quella con la quale aveva tenuto relazioni.
La situazione della sposa era molto differente. Non potendo avere più di un marito e stando sotto il dominio del suo, qualunque relazione sessuale extraconiugale la convertiva subito in adultera. Tale era lo stato della donna, sebbene non quello dell’uomo, che decideva se c’era stato o no adulterio.
L’uomo non poteva essere adultero altro che in relazione al marito o al promesso, la cui sposa o promessa avesse sedotto. Non era adultero altro che se rompeva il matrimonio o gli sponsali di un altro. La donna era adultera quando rompeva il proprio matrimonio o i propri sponsali. La proibizione mirava dunque a che si rispettassero i diritti dei mariti o dei promessi: “Quando un uomo verrà trovato a giacere con una donna maritata, tutti e due dovranno morire: l’uomo che è giaciuto con la donna e la donna. Cosi estirperai il male da Israele. Quando una fanciulla vergine e fidanzata e un uomo, trovandola in città, giace con lei, condurrete tutti e due alla porta di quella città e li lapiderete a morte: la fanciulla, perché, essendo in città, non ha gridato, e l’uomo perché ha disonorato la donna del suo prossimo” (Dt 22,22-24).
Qui, naturalmente, torna a galla il problema di una “legge divina” che proibisce di uccidere e poi prescrive di farlo in determinate circostanze…
All’inizio solo dentro questi limiti si considerava proibito l’adulterio dal Decalogo. Tuttavia, se si tengono in conto altre prescrizioni del Deuteronomio, sembra che si possa dare al comandamento una maggiore estensione. Effettivamente l’uomo che aveva sedotto una giovane vergine non promessa doveva sposarsi subito con essa e soddisfare un indennizzo al padre della giovane, i cui diritti aveva danneggiato (Dt 22,28). La giovane che accettava di sposarsi dichiarandosi vergine, ma che aveva avuto proprio relazioni sessuali, restava soggetta alla lapidazione (Dt 22, 20-22). Queste prescrizioni ci permettono di concludere che il sesto comandamento proibiva ogni relazione sessuale che implicasse una ingiustizia verso qualunque delle persone compromesse.
In Israele prima di tutto I’adulterio fu considerato come attentato contro la legge di Yahve, dato che nessun aspetto della vita del popolo restava sottratto alla volontà di Yahve: “Osservate le mie leggi e mettetele in pratica. Io sono il Signore che vi santifica. Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte (Lv 20, 8.10; Dt 22, 22-27) » (link).
Vorrei soffermarmi sull’enfasi delle caratteristiche rivoluzionarie di certe “intuizioni” divine. Io sono convinto, detto sinteticamente, che se si limitano il pensiero e il volere di un Dio come quello dei Cristiani alle contingenze dei tempi storici, si mettono in discussione le stesse qualità della sua intelligenza acronica, legata cioè ad un “presente atemporale” (non commettere adulterio, onora il padre e la madre), non condizionato dalle epoche e dai relativi costumi, ma solo vincolato a principi universali eternamente validi. Naturalmente nessuno vieta di credere il contrario e di mettere in dubbio perfino la trascendenza, visto che in realtà nella Bibbia gli ordini divini sono spesso in contrad-dizione con l’etica che attribuiamo ai Comandamenti (cfr. ad esempio Es 21,1-25); però se, come appare, la visione cristiana di Benigni non è ortodossa, si sarebbe dovuto vietare all’arraffone-arruffone toscano di fare il pubblico catechista, né le alte sfere vaticane avrebbero dovuto tributargli consenso e onori.
Si consideri poi la categorica, infondata affermazione del comico “non c’era nessuna legge da nessuna parte del mondo su queste cose“: una delle false enfasi che egli usa a vantaggio dell’imbonimento e dello spettacolo! Chissà perché già il Codice di Hammurabi, precedente alla consegna del Decalogo (cfr. nota 35), puniva l’adulterio con la morte (Albert Abou Abdallah e Roberto Sorgo, Religioni ieri e oggi, Franco Angeli 2001, p. 42); per di più, oltre mille anni prima delle leggi mosaiche, presso gli antichi Egizi, certamente vigevano regole di disciplina del rapporto coniugale: “L’amore coniugale e la reciproca fedeltà ricoprono un ruolo fondamentale nella morale sociale egiziana in misura maggiore rispetto ad una qualunque altra civiltà antica. La felicità familiare può essere raggiunta solo con la concordia coniugale. La dea Iside, in quanto sposa e madre, era la divinità protettrice della famiglia” (Giuliana Mallei).

Gli uomini prendevano le donne con la forza, spesso, specie di notte, accadeva normalissimamente: le mettevano incinte e le abbandonavano, e venivano punite spesso le donne. Non c’erano leggi, le donne erano sole, lasciate completamente a se stesse. C’era molta, ma molta violenza, e fu difficilissimo introdurre questo Comandamento, il popolo non lo voleva: “Via, via questo, via!”, facevano così, non lo voleva il popolo, perché bloccava questi istinti carnali, questi soprusi degli uomini sulle donne basati sulla forza, e gli uomini li volevano mantenere questi soprusi, quindi urlavano “Noo, questo no, questo no!”. Ma veramente era così!
Che c’entra questo discorso con l’adulterio? Qui si tratta di stupro, violenza ancor oggi molto diffusa e di cui Benigni si è guardato bene dal parlare!
Quella del popolo che non voleva certi comandamenti è poi solo una favoletta che il “comico catechista” spaccia per vera: «In una celebre storiella si descrive Mosè mentre scende dal Monte Sinai sotto il peso di due enormi tavole della legge. “D. mi ha incaricato di darVi i Comandamenti. Sono 50 in tutto”. Il popolo protesta per il gran numero e sotto il peso, questa volta, della contestazione, Mosè accetta di risalire sul monte per trattare con D. Dopo qualche tempo il popolo lo rivede scendere dal monte. “Sono riuscito ad ottenere una riduzione dei Comandamenti a dieci soltanto. Ma quanto all’adulterio – riferisce scuotendo il capo – non c’è stato nulla da fare”» (Rabbino Alberto Moshe Somekh).

Poi abbiamo detto che il Comandamento si è evoluto, no? Si è allargato e continua a farlo. E continuiamo a farlo noi stasera, ma qual è, se lo volessimo definire, il senso profondo di questo Comandamento? Guardate, il senso profondo del Comandamento non è proteggere il matrimonio, dice non commettere adulterio, non è proteggere il matrimonio e proteggere la famiglia – diciamo, c’è anche questo -, però non è questo il senso più profondo: il senso ultimo del Comandamento è proteggere l’amore, che ce n’ha un bisogno d’esse protetto l’amore! Ma quanto ce n’ha bisogno, non possiamo sapere [applausi, immancabili quando Benigni si abbandona a sentimentalismi del genere traditi dal tono]. Ma guarda, guarda… Vuole, questo Comandamento, proteggere l’amore, ma più precisamente questo Comandamento vuole proteggere una qualità particolare dell’amore che è la fedeltà, eccola la parola! L’abbiamo detta, è una parola molto fuori moda, un po’ fuori moda, ma mo… però una bella parola e noi l’abbiamo detta, lascia fait (?) Fedeltà! Il Comandamento dice di non separare l’amore dalla fedeltà, di essere fedeli, che non è un obbligo, per carità, dev’essere un desiderio: se non c’è, non c’è, non ti dice niente nessuno! Però essere fedeli significa prima di tutto stabilire un patto che è il senso di tutta la Bibbia, c’è tutta la Bibbia in questo Comandamento. La Bibbia è la storia di un’Alleanza, è una storia d’amore, è un fidanzamento! È un patto di fedeltà fra Dio e gli uomini. E Dio non lo ha mai spezzato, non ha mai lasciato la presa, Dio! Ma vi dirò di più. In questo Comandamento si nasconde anche il nome di Dio, c’è il Suo nome dentro. Vi ricordate quando dà il nome? Quando dice io sono colui che sono, cioè io ci sono, io ci sarò, e la fedeltà tra due persone che si amano ma che cos’è? Fedeltà vuol dire che qualsiasi cosa accada nella tua vita o nella mia, io comunque ti sarò sempre vicino, sarò sempre con te, io ci sarò. Eccolo il senso profondo, ultimo, di questo Comandamento: non tradire chi hai detto di amare, non, non violare il legame che ci unisce. È un Comandamento che si rivolge all’uomo, però è dedicato alla donna.
Di nuovo il concetto balordo dell’evoluzione delle prescrizioni divine, che sembrano valere più nel modo di tenerne conto che nella loro sostanza. Così l’ultima “evoluzione” è quella che “l’accreditato” Benigni propone (continuiamo a farlo noi stasera), attraverso un’ermeneutica riduttiva che sa tanto di eterodossia!
Il Comandamento dunque “si è evoluto” nel significato esclusivo di esigere la fedeltà coniugale… per quanto la parola fedeltà sia “molto fuori moda”… Una delle solite incongruenze logiche di Benigni: come può essere la fedeltà l’ultimo approdo esegetico e contemporaneamente essere fuori moda?… Magari finisse qua! Di colpo il Comandamento diventa non un ordine, ma un invito condizionato dal desiderio di chi lo riceve: la fedeltà non è un obbligo! ”Se non c’è, nessuno ti dice niente”… Dunque non è nemmeno peccato violarla!? Eppure Benigni sta per dire che nel Sesto Comandamento c’è tutta la Bibbia! (L’affermazione non è chiarita, ma fa evidentemente perno sul concetto di Alleanza, termine che nel libro sacro è presente ben 326 volte!).
Siamo davvero al paradosso!
Quando Benigni parla di amore, non si sa mai (o si sa fin troppo) in che accezione vi alluda e verso quali sbocchi si diriga! Tornando alla fedeltà, il comico sostiene che essa consiste nell’essere sempre vicini al coniuge “qualsiasi cosa accada nella tua vita o nella mia”: ora “questo tipo di fedeltà” non esclude la possibilità dell’adulterio (qualsiasi cosa accada). Per di più, nel senso riduttivo del precetto come lo intende il catechista-comico, non vengono presi in considerazione tutti gli aspetti che il divieto divino implica e che possono essere ricavati dall’attenta lettura della Bibbia.
Sembra campata in aria, infine, la tesi che, nel Sesto Comandamento in particolare, si nasconda il nome di Dio [51]; come si rivela incongruente, data l’interpretazione ad litteram del Comandamento, l’affermazione che questo sarebbe rivolto all’uomo e dedicato alla donna. Asserzione che peraltro fa riemergere l’interrogativo: può un Comandamento di Dio, eterno ed onnisciente, non trascendere le epoche, i loro costumi, le loro ignoranze, considerare addirittura disuguali di fronte a doveri e diritti l’uomo e la donna, non suscitando dubbi sulla Sua bontà e sulla Sua giustizia infinite, sulla Sua stessa onniscienza, sulla Sua dimensione svincolata, come si diceva, dal tempo, e dunque dalla storia?

E hanno fatto un commento, il commento forse più bello a questo Comandamento lo hanno scritto in un grande libro antico che si chiama Talmūd, e lo hanno scritto con parole così belle che ve le leggo perché non le voglio sbagliare. Sentite: “State molto attenti a far piangere una donna, perché Dio conta le sue lacrime. La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perché dovesse essere calpestata, né dalla testa, per essere superiore, ma dal fianco, per essere uguale, un po’ più in basso del braccio per essere protetta, dal lato del cuore per essere amata”.
Parole molto belle quelle citate, ma forse più adatte a preparare l’applauso che a chiudere la “bis-trattazione” del Sesto Comandamento ridotta alla semplice, blanda condanna dell’adulterio e ad una non appassionata esortazione alla fedeltà, che, se non c’è, nessuno ti dice niente! Se mi è permesso, in tempi in cui si reclama parità di diritti e di doveri, anche l’uomo può essere tradito, anche l’uomo può essere vittima dell’adulterio della compagna, tanto che, per compensare lo sbilanciamento operato da Benigni, io direi: “State molto attente a far piangere un uomo, perché Dio conta le sue lacrime!”.

………… (la colpa delle colpe taciute…)
Anche a proposito del VI Comandamento, le omissioni del piccolo toscano sono state rilevanti, sia per la natura di “catechista” improvvisato e fornito di paraocchi, sia per il timore di “urtare la sensibilità di alcuni settori della società”, sia per la sua scarsa onestà intellettuale che, calcando la mano sugli “errori” della catechesi ecclesiastica, non ha minimamente alluso alle posizioni più moderne e recenti assunte dalla Chiesa riguardo ai temi del corpo, dell’amore e della sessualità (cfr. Orientamenti educativi sull’amore umano della Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica; Teologia del corpo di Giovanni Paolo II; Catechismo della Chiesa Cattolica).
La riduzione del Sesto Comandamento, il solo che si riferisca al tema della morale sessuale, all’obbligo [?] di fedeltà coniugale, ha permesso a Benigni di lasciare “esclusi e, quindi, al di fuori di ogni giudizio matrimonio civile, separazione, divorzio, e fatti da chiunque condannati, come, per esempio, la prostituzione, la pedofilia, lo stupro, la pornografia ecc., senza considerare l’aberrante conseguenza” che risulterebbe consentito il “libero amore” da parte di chi non abbia vincoli matrimoniali. (http://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=3564)
Ad essere fedele a quanto la Bibbia prescrive “alla lettera”, il “luminoso esegeta” avrebbe dovuto trattare come peccato anche l’omosessualità (Gn 19, 1-29; Rm 1, 24-27; 1 Cor 6, 9-10; 1 Tm 1, 10), magari attenuando la condanna attraverso il Catechismo della Chiesa Cattolica, che così elenca Le offese alla castità:
2351 La lussuria è un desiderio disordinato o una fruizione sregolata del piacere venereo. Il piacere sessuale è moralmente disordinato quando è ricercato per se stesso, al di fuori delle finalità di procreazione e di unione.
2352 Per masturbazione si deve intendere l’eccitazione volontaria degli organi genitali, al fine di trarne un piacere venereo. « Sia il Magistero della Chiesa – nella linea di una tradizione costante – sia il senso morale dei fedeli hanno affermato senza esitazione che la masturbazione è un atto intrinsecamente e gravemente disordinato ». « Qualunque ne sia il motivo, l’uso deliberato della facoltà sessuale al di fuori dei rapporti coniugali normali contraddice essenzialmente la sua finalità ». Il godimento sessuale vi è ricercato al di fuori della « relazione sessuale richiesta dall’ordine morale, quella che realizza, in un contesto di vero amore, l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana ». Al fine di formulare un equo giudizio sulla responsabilità morale dei soggetti e per orientare l’azione pastorale, si terrà conto dell’immaturità affettiva, della forza delle abitudini contratte, dello stato d’angoscia o degli altri fattori psichici o sociali che possono attenuare, se non addirittura ridurre al minimo, la colpevolezza morale.
2353 La fornicazione è l’unione carnale tra un uomo e una donna liberi, al di fuori del matrimonio. Essa è gravemente contraria alla dignità delle persone e della sessualità umana naturalmente ordinata sia al bene degli sposi, sia alla generazione e all’educazione dei figli. Inoltre è un grave scandalo quando vi sia corruzione dei giovani. 2354 La pornografia consiste nel sottrarre all’intimità dei partner gli atti sessuali, reali o simulati, per esibirli deliberatamente a terze persone. Offende la castità perché snatura l’atto coniugale, dono intimo e reciproco degli sposi. Lede gravemente la dignità di coloro che vi si prestano (attori, commercianti, pubblico), poiché l’uno diventa per l’altro oggetto di un piacere rudimentale e di un illecito guadagno. Immerge gli uni e gli altri nell’illusione di un mondo irreale. È una colpa grave. Le autorità civili devono impedire la produzione e la diffusione di materiali pornografici. 2355 La prostituzione offende la dignità della persona che si prostituisce, ridotta al piacere venereo che procura. Colui che paga pecca gravemente contro se stesso: viola la castità, alla quale lo impegna il Battesimo e macchia il suo corpo, tempio dello Spirito Santo. 237 La prostituzione costituisce una piaga sociale. Normalmente colpisce donne, ma anche uomini, bambini o adolescenti (in questi due ultimi casi il peccato è, al tempo stesso, anche uno scandalo). Il darsi alla prostituzione è sempre gravemente peccaminoso, tuttavia l’imputabilità della colpa può essere attenuata dalla miseria, dal ricatto e dalla pressione sociale.
2356 Lo stupro indica l’entrata con forza, mediante violenza, nell’intimità sessuale di una persona. Esso viola la giustizia e la carità. Lo stupro lede profondamente il diritto di ciascuno al rispetto, alla libertà, all’integrità fisica e morale. Arreca un grave danno, che può segnare la vittima per tutta la vita. È sempre un atto intrinsecamente cattivo. Ancora più grave è lo stupro commesso da parte di parenti stretti (incesto) o di educatori ai danni degli allievi che sono loro affidati.
2357 L’omosessualità designa le relazioni tra uomini o donne che provano un’attrattiva sessuale, esclusiva o predominante, verso persone del medesimo sesso. Si manifesta in forme molto varie lungo i secoli e nelle differenti culture. La sua genesi psichica rimane in gran parte inspiegabile. Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre dichiarato che « gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati ». Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati.
2358 Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione.
2359 Le persone omosessuali sono chiamate alla castità. Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un’amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana.

«Benigni ha la strana idea che ci sia una “purezza originaria” dei comandamenti che è poi stata alterata dalla Chiesa.
Non gli passa per la mente che dopo Mosè è venuto Gesù Cristo. […]
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
“Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”.(Mt 5, 17-20) […] Benigni ha cercato di riportarci a un sesto comandamento minimale, degno degli scribi e dei farisei. Gesù invece ci ha chiesto ben altro» (Giovanni Lazzaretti).

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SETTIMO COMANDAMENTO

«Il comandamento ha il senso di tutelare gli attentati alla proprietà altrui. Nella formula-zione del decalogo il precetto non è un duplicato del “non desiderare” (Dt 5,21; Es 20,16). Il fondamento del comandamento sta nel fatto che “all’inizio, Dio ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dell’umanità, affinché se ne prendesse cura, la dominasse con il suo lavoro e ne godesse i frutti (Gen 1, 26-29). I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano”. La legislazione dell’Antico Testamento tutela rigorosamente i diritti di tutti ai beni della terra, flagella i ricchi spietati, difende strenuamente i diritti dei poveri.
(cfr. Dt 27,19; 15,1-3; Lev 25,23; Es 22,24)» (Cathopedia).

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Dio ci ha voluto riservare un trattamento di favore, diciamo, ci ha fatto un Comandamento proprio per noi Italiani: questo è un Comandamento ad personam! Sapete che pare Dio l’abbia proprio scritto direttamente in italiano. È proprio il Comandamento che ci sentiamo un po’ nostro, no? Sembra proprio che Dio si rivolga a noi nella nostra lingua, come ci ha donato le Alpi, il mare, le isole…
Credo che ogni popolo abbia i suoi difetti caratteristici, ma il luogo comune che riversa tutte le possibili lacune addosso all’Italia e agl’Italiani, oltre che essere trito, sa di autolesionismo e, nel caso di una pubblica accusa come quella di Benigni, di scarso rispetto nei confronti dell’italianità, benché lo scopo del comico sia populista (come dimostrano le grasse risate e gli applausi del pubblico). Se il catechista “squanternato e squidernato” (cfr. Fase introduttiva) afferma che Dio ha “fatto un Comandamento proprio per noi Italiani”, ci sta dicendo che gli unici ladri al mondo siamo noi! E noi applaudiamo! Già sento l’ottusa giustificazione pronta: “Ma Benigni è un comico! E poi poco dopo afferma [con molta coerenza; ndc.] che il Settimo è il Comandamento più trasgredito in tutto il mondo, quindi…”.

Vediamo quando è stato scritto a che cosa si riferiva, eh! […] Originariamente non rubare si riferiva soprattutto al furto di persone; si riferiva, quand’è nato, soprattutto ai sequestri, impadronirsi di altri esseri umani, cioè insomma il commercio degli schiavi, che era molto diffuso all’epoca, eh! […] Sequestrare persone libere per ridurle in schiavitù e venderle.
Io credo che del Dio della Bibbia si possa parlare in tre modi: da credenti, da atei, da “revisori”. Il credente non interpreta: crede. L’ateo rifiuta: non crede. Il “revisore” controlla e corregge: non crede e non miscrede e si colloca in una sorta di polemico limbo. Ora se Benigni crede, anche solo per due sere (cosa che per esigenze di show e di denaro ha esortato tutti a dover fare), non può pensare che un Dio dell’umanità adatti le norme all’uomo di una fase storica e non all’UOMO! Se mai è questi che interpreta -quando non deforma- i precetti divini in rapporto ai tempi! Il Nuovo Testamento, ad esempio, non modifica i Comandamenti: li decifra soltanto in maniera più “evoluta”. Non mi convince pienamente il pensiero del Cardinale Gianfranco Ravasi: «È stato spiegato a più riprese dagli studiosi che questi limiti dell’Antico Testamento sono legati a un dato fondamentale della Bibbia. Essa non è una collezione di tesi teologiche e morali perfette e atemporali, come sono i teoremi di geometria, bensì la storia di una manifestazione di Dio all’interno delle vicende umane. È, dunque, un percorso lento di illuminazione dell’umanità perché esca dalle caverne dell’odio, dell’impurità, della falsità e s’incammini verso l’amore, la coscienza limpida e la verità. S. Agostino definiva appunto la Bibbia come “il libro della pazienza di Dio” che vuole condurre gli uomini e le donne verso un orizzonte più alto. Si legge, infatti, nel libro della Sapienza: “Prevalere con la forza a te, Signore, è sempre possibile perché nessuno può opporsi alla potenza del tuo braccio… Eppure tu risparmi tutte le cose perché sono tue, Signore, amante della vita… Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini” (11,21-26; 12.19)».
Dal canto suo lo “squidernato” legge alla lettera o se ne allontana cambiando rotta secondo il vento. Rubare significa “sottrarre indebitamente” ciò che appartiene ad altri, di qualunque cosa, animale o persona si tratti, adesso, prima e sempre! Ed anche se illustri biblisti, come Albrecht Alt, hanno ristretto il significato del Settimo Comandamento al divieto di “rapimento di un israelita libero” per venderlo come schiavo, il precetto divino suona esattamente in un senso: NON RUBARE. Che poi includa anche il “furto di persona”, come risulta in Es 21,16 e in Dt 24,7, è altra questione. Il divieto divino si riferisce certamente anche al furto delle cose e degli animali (Dt 22,1-3; Es 21,37; Es 22,1-3; Es 22,8), che in taluni passi biblici è visto in rapporto con la dignità dell’uomo e della sua libertà. Così è, ad esempio, per la storia di Nabot (1Re 21). Sempre il cardinale Gianfranco Ravasi, pur condividendo il parere di Alt Albrecht su accennato, scrive in una sua nota pastorale: “Nell’originale ebraico del settimo comandamento, l’espressione usata, lō’ tignōb, si estende a un orizzonte più ampio del furto di oggetti e beni, comprendendo anche il ratto o il sequestro di persona”; afferma poi più chiaramente che “anche l’accezione comune che bolla il furto non è ad esso (Comandamento) estranea”.
Da notare che il furto messo in atto dai poveri e dagli oppressi trova nel testo sacro evidente comprensione (Es 3,21-22).
In conclusione, per una corretta interpretazione, credo si possano tener presenti le indicazioni del Cap. II, 27 della Costituzione pastorale conciliare Gaudium et Spes, promulgata da Paolo VI l’8 dicembre del 1965, ed evincere che “La formula “non rubare” è sufficientemente ampia da inglobare anche il furto. Tuttavia è vantaggioso non perdere di vista l’ambito iniziale del VII° C., che potrebbe benissimo includere la condanna di tutti gli attentati contro la libertà umana, e, in particolare la condanna di tutti i tentativi moderni, infinitamente vari, di ridurre in schiavitù la persona umana” (Il Settimo Comandamento).
Giova sottolineare che, fra gli attentati alla libertà umana, oggi spicca quello perpetrato sistematicamente dai mass media e dai loro protagonisti! A buon intenditor…

Con questo Comandamento Dio li libera tutti! Libera tutti, come a nascon-dino: liberi tutti!… (ascolta)
Che insulsa battuta! Inopportuna, infantile, fiacca, scarsamente rispettosa dell’intelligenza del pubblico, ma soprattutto dell’argomento trattato.

È come se dicesse “non rubare la libertà degli altri… Anche qui Dio è un liberatore… nascosta in questo Comandamento c’è la più grande libertà, che è la libertà di vivere [?] e lo vedremo alla fine… Questo Comandamento nasce ed è contro lo schiavismo: di più, lo vuole eliminare! Ancora di più: lo elimina! (ascolta) Uno dirà: “come Abramo Lincoln”! Sì, ma tremila anni prima!
Lo elimina! Farneticazioni, farneticazioni… Dopo tremila anni lo schiavismo sopravvive! Dunque Dio, se mai, lo condanna più che eliminarlo (anche il CCC 2414 parla di proibizione del “furto” di esseri umani, della loro dignità e dei loro diritti). Bisogna però leggere con attenzione tutti i “comandamenti” divini che in Esodo 20 e 21 seguono il cosiddetto Decalogo, per rendersi conto che Jahvè non “elimina” lo schiavismo e pare anzi considerarlo una pratica normale! Per quanto concerne l’insensato paragone con Lincoln, basti rilevare che è ridicolo meravigliarsi che Dio abbia anticipato il Presidente americano!

Guardate che all’epoca senza mercato degli schiavi non lavorava nessuno! (ascolta)
Non lavorava nessuno? Allora che senso avrebbe avuto per il popolo di Mosè quanto il comico ha detto a proposito del Terzo Comandamento? e che senso avrebbe avuto il Comandamento stesso? Già gli alunni della scuola secondaria di primo grado studiano che gli Ebrei “ricchi e meno ricchi si occupavano tutti, indistintamente, dei lavori agricoli” (Il libro Garzanti della storia, volume I, capitolo 4). Lo storico Antonio Brancati, trattando la civiltà ebraica per i primi anni di scuola superiore, scrive: “L’agricoltura, cui soprattutto si dedicavano, era assai produttiva nel campo cerealicolo. Si coltivava però anche il lino e in determinate regioni si aveva un ottimo raccolto di olio d’oliva e di vino. I prodotti del suolo dovevano comunque essere abbondanti, se servivano non solo a nutrire una numerosa popolazione, ma ad essere talora anche esportati. Limitata invece la pratica della pastorizia, benché in tempi remoti avesse costituito l’occupazione principale; limitatissima l’attività industriale, anche se non mancarono iniziative in tal senso specie nel campo della ceramica, della filatura, della tessitura e della lavorazione dei metalli” (Sulle vie della storia, La Nuova Italia, Firenze 1978, vol. I, p. 48).

La difficoltà anche per fare accettare questo Comandamento come “non commettere adulterio”: non lo volevano! È stata durissima mettere questa legge, questa regola. A quei tempi gli schiavisti avevano un potere enorme, erano ricchissimi: pensate che passo per la civiltà umana, ma la grandezza!
Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!” (Es 24,3); “Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto” (Es 24,7). Mi pare che i versetti citati siano sufficientemente in contrasto con le favole di Benigni. Per quel che riguarda il “passo per la civiltà umana” in materia di ruberie, osserviamo che, diverso tempo prima, ne aveva già fatto uno Hammurabi, nel cui Codice dal paragrafo 6 al 14 e dal 21 al 25 si fissa la legislazione riguardante il furto (anche di persone [24]).

Questo Comandamento, fra l’altro, è quello che è cambiato più di tutti! Oggi si ruba in maniera che cento anni fa non c’erano ancora arrivati, non lo potevano sapere.
Che l’esercizio del furto abbia un più vasto campo di azione e che le tecniche di sottrazione fraudolenta siano divenute più sofisticate significa forse che il “Comandamento è cambiato”? Ma Benigni voleva dire…
Nella comunicazione conta quello che si dice e come lo si dice. Un catechista, che nel suo ambito è un formatore, un insegnante, deve saper dire le cose in modo chiaro, non approssimativo, caotico, per di più tramite un’incólta forma espressiva e per una mercede vergognosa solo a pronunciarla, sicuro oltraggio al Settimo Comandamento!

Guardate che questo Comandamento, per importanza, è destinato a superare tutti gli altri: è una peste, si allarga sempre di più! (ascolta)
Benigni non sa proprio parlare, se non quando riferisce a memoria (salvo i non rari vuoti)! Per dire che la trasgressione al Comandamento si allarga a macchia d’olio e che è destinata a divenire quella più frequente rispetto agli altri precetti divini, dice nientemeno che… IL COMANDAMENTO È UNA PESTE!

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E quando viene scoperto un ladro, la condizione, la co… per l’assoluzione, dev’essere la prima cosa la restituzione dei soldi
(applausi, sui quali Benigni insiste gracidando…), se a uno di noi rubano l’orologio quando prendiamo il ladro rivogliamo l’orologio, la prima cosa! Ora il Governo, ho le, ho visto che ora il Governo si appresta a fare questo: hanno annunciato, quando prendiamo un ladro c’è una nuova legge che stanno per varare ora, che hanno detto adesso quella nuova legge quando si prende un ladro che ha rubato, deve restituire i soldi.

La sferzante satira politica dei tempi recenti del berlusconismo, cede il posto alla “pubbli-cità occulta” per il governo amico… Così l’ese-geta-comico coglie l’occasione per un po’ di propaganda “partitica” nel sottolineare (in modo assai sgrammaticato, come ogni volta che parla davvero a braccio), che finalmente “questo governo” sta per promulgare una legge che esigerà, per il reato di “furto”, la restituzione del maltolto.

Non rispettare le regole del mercato non si ritiene più una cosa illegale e un peccato: e invece sì, è illegale, perché così muore il mercato, ed è un peccato gravissimo, perché il furto, per chi crede, è un’offesa a Dio. Quindi questo Comandamento è importantissimo per chi crede e per chi non crede. Non rubare è la condizione necessaria per la salvezza dell’anima e del mercato.
Rigore logico a parte, sta’ a vedere che Jahvè non si è preoccupato solo della salvezza dell’anima, ma anche di quella del mercato! Nuova formula biblica… Le “regole del mercato” vanno poi certamente raccomandate, ispirate come sono da una sola logica: il profitto, per conseguire il quale non si guarda in faccia a nessuno, demolendo ogni altro valore che non sia quello del denaro. Sono “sregolate regole” di mercato, tanto per intenderci, anche quelle che, mirando all’indice di ascolto e agl’introiti pubblicitari, inducono la Rai ad operazioni vergognose, come quelle che permettono all’incompetente “Professore di Tutto” di intascare fortune su Costituzione, Inno nazionale, Dante, Bibbia, divulgando ignoranze e modelli dannosi! Alla faccia di chi subisce “l’estorsione” del canone [52] e di chi frequenta le mense dei poveri. Un modo come un altro di trasgredire il Settimo Comandamento!

Rubiamo tutti, spesso senza rendercene conto a volte, a cominciare da me: io stasera per esempio non c’è una parola mia di questo spettacolo… perché si può rubare in mille modi!
Il furto di cui parla il comico ha del comico che non suscita il riso: Benigni sa che è ben altra la ruberia di cui si fa complice!

A noi Italiani ci piace da morire rubare a noi stessi.
Altro grande apprezzamento del comico per l’italianità, tanto osannata quando gli fa comodo e tanto deprecata quando gli fa altrettanto comodo!

Ci rubano l’ambiente in cui viviamo, lo rubano soprattutto ai nostri figli, perché noi questo mondo non è che ce l’abbiamo in eredità dai nostri padri, ma ce l’abbiamo in prestito dai nostri figli!
Non poteva mancare la frase-prezzemolo che condisce tutti gli show di Benigni, frase che poi viene sbandierata dai fan come geniale pensiero del portento toscano, che si guarda bene dal citare le fonti delle sue mnemoniche cantilene (altra forma di furto…). In questo caso il Lupin del pensiero altrui ci riporta per l’ennesima volta un proverbio navajo probabilmente “trafugato” da una puntata de “Il Fatto” di Enzo Biagi.

E poi c’è il furto più grande di tutti, il peggiore: il furto dell’anima. Rubare l’anima agli altri e a noi stessi. Voi mi direte: “E che cos’è?”. Accade continuamente. È quando non si dà la possibilità di un’occupazione, un lavoro a una persona e la si umilia. Chi non lavora è umiliato. Questo è rubare l’esistenza a una persona: non creare le condizioni per il lavoro, non dare lavoro. Non si è liberi di vivere. Quella persona, se non lavora, non è libera di vivere. Oppure all’opposto quando organizziamo la nostra vita o la vita degli altri con degli orari di lavoro impossibili, forsennati e non si dà modo alle persone di programmare un momento per sé, di essere se stessi. Non c’è più posto nemmeno per i sentimenti. Si toglie loro il respiro, la forza di un progetto, di una speranza; le si calpesta proprio nel cuore perché non possano avere sogni. Questo è rubare l’anima, rubare la vita. Non si è liberi di vivere. Lo facciamo per avidità, per desiderio di potere e alla fine siamo posseduti da quello che vorremmo possedere (sta parlando di se stesso?). Ma l’uomo più ricco del mondo, lo sappiamo, è quello che possiede se stesso. Ora è una frase così e non voglio dire quelle frasi così; però c’è davvero l’illusione che avere significhi valere: più hai, più vali. E invece la vita e la Bibbia non insegnano questo, insegnano sì che è bello possedere, ma che è più glorioso dare (da che pulpito viene la predica!), che è gloriosa l’onestà, che è gloriosa la generosità (da che pulpito viene la predica!), che è gloriosa la libertà, che è gloriosa la vita! È il Settimo Comandamento, il Settimo Comandamento! Queste sono le cose gloriose (tra gli applausi scroscianti)… Ci comanda proprio questo: ci dice non rubare la vita a te stesso e agli altri, ci comanda di essere liberi, ci comanda di essere liberi di vivere, che è la più divina delle libertà (applausi convinti).
Furto dell’anima…
Nei termini in cui ne parla il dottore-filosofo Honoris causā, l’espressione risulta del tutto impropria, essendo riferita al mancato rispetto, e alla conseguente impossibilità di godimento, di diritti umani, sociali, costituzionali, che possono avere riflessi dannosi sulla psiche; né può significare fraudolenta sottrazione della dignità o della vita o della libera fruizione del proprio tempo. Benigni usa una formuletta ad effetto che è nient’altro che una forzatura. Inutile sproloquiare demagogicamente e in modo ingarbugliato, tanto da finire per divagare, per evadere completamente dal tema, nel crescendo del sermone verso l’applauso. Inutile dare accento ad aspetti pur gravi del problema trascurando quelli fondamentali ed eclatanti, ma forse poco utili a riscuotere consenso o più probabilmente inaccessibili ad una mente non avvezza a pensare…
Il vero furto dell’anima – qui non intesa come principio vitale – è quello della violenza psicologica che svuota il senso critico e connette la ragione indebolita, e l’istinto esaltato, a valori vitali (questi sì) per lo scellerato sistema economico dominante; una violenza che orienta in modo opaco (ovvero “senza rivelarsi”) le coscienze, i desideri, i sentimenti, le scelte, i comportamenti nella direzione più vantaggiosa per il mercato, rendendo la mente dei più schiava delle logiche dei dominatori. Lo stesso Benigni non fa che rubare anime, in continuazione, sorretto dal tambureggiare degli strumenti mediatici: tutte quelle anime che si convincono di trovarsi di fronte ad un genio, ad un pozzo di cultura, senza potersi rendere conto che, tirannicamente, vengono sedotte, ingannate, drogate, trascinate nel buio dell’incoscienza dal malefico pifferaio e dall’orchestra che lo accompagna…
L’effetto di un latrocinio del genere risulta evidente quando si tenta di risvegliare le menti plagiate, di restituire le “anime rubate” ai legittimi proprietari… Nelle pubbliche sale – parlo per esperienza diretta – chi prova ad esempio a smascherare l’ignoranza del genio multiforme che Mario Ceroli, scultore noto e forse fin troppo apprezzato, ha voluto scioccamente accostare ai più grandi geni fiorentini, nella sua “straordinaria” (dicono) opera Silenzio ascoltate (chi non si era accorto, del resto, che Benigni è grande come Dante, Leonardo, Michelangelo, Botticelli…?), deve affrontare la reazione rabbiosa dei sedotti, che gridano, si “stracciano le vesti”, abbandonano la platea per crimine di lesa maestà nei confronti della divinità adorata, su cui hanno ciecamente proiettato tutta la loro brama di riscattare la propria pochezza.

………… (la colpa delle colpe taciute…)
Come si diceva, lo schiamazzo del predicatore toscano ha ruotato intorno a poche violazioni del Settimo Comandamento, senza evidenziare in modo adeguato la gravità di certe altre, tacendone addirittura alcune, evidentemente scomode. Ha battuto sul facile tasto della corruzione della politica e della finanza, dell’uso dei raffinati modi dell’economia della truffa, del furto legalizzato che mira a produrre arricchimento attraverso il subdolo impoverimento degli altri; della necessità di restituzione del maltolto. Poi ha frettolosamente elencato una serie di altre trasgressioni: speculazioni, concussioni, fatture false, assenteismo, truffe dei cittadini ai danni dello Stato, evasione fiscale (“è venire meno a un patto!”, ma legalmente “Benigni nel suo piccolo non ha avuto comportamenti fiscali tanto diversi dai Ricucci, dai Coppola e dagli Statuto”, rileva Il Tempo.it), pressione fiscale esagerata, usura, danni ambientali, disoccupazione come furto del lavoro (“furto dell’anima”, enfatizza il luminare! Non c’era “la più bella del mondo”, mamma Costituzione, a garantire i diritti dei cittadini?), orari lavorativi fagocitanti.
Nessun accenno all’avarizia (latino avēre, bramare, avidus, avido), non nell’accezione attuale di “egoistica avversione allo spendere e al donare” (Devoto), ma in quella greca di πλεονεξία (pleonexìa, avidità), una grave forma d’inosservanza del Settimo Comanda-mento, oltre che uno dei sette peccati capitali. “L’avarizia indica quella insaziabile avidità che accompagna quasi fatalmente il possesso delle ricchezze. Consiste nel voler possedere sempre di più senza tener conto dei diritti degli altri” (S. Lionnet, art. Péché, in DBS, t. 5, col. 498). Colpa che sembra senza possibilità di equivoco riferirsi all’ingordigia di Benigni, che perfino sulla Bibbia lucra smodatamente! Il comico non poteva, ovviamente, trattare questa forma di violazione della norma divina, essendone egli stesso un esempio lampante, anche se, per dirla con lui, che può permettersi perfino di fare il moralista, “non c’è più nessuna vergogna a rubare”! «Come fa a presentarsi in televisione a parlarci di amore per il prossimo, di Non rubare e poi intascare 4 milioni di euro alla faccia di chi lo sta ad ascoltare? A me sembra un vero e proprio insulto agli Italiani, un oltraggio a chi deve pagare il canone obbligatoriamente [sotto l’ignobile veste di tassa di detenzione, senza distinguere tra chi possiede un apparecchietto da quindici pollici e chi invece vanta una “parete televisiva”! ndc.], anche se a malapena ha i soldi per il pane, uno schiaffo in faccia a chi stenta a campare» (Giano). Benigni però se la gode, e “fa ridere” anche permetten-dosi battute sui drammi di chi è afflitto dalla crisi (ascolta).
Nessun accenno ad uno dei più rovinosi latrocini: il furto della verità, non come concetto assoluto, ma come veridicità (verum dicere), di cui l’anomalo esegeta è certamente complice, avendo disseminato nei suoi “show culturali” tutti gli stravolgimenti che in questo sito e nel saggio O Dante o Benigni ho ampiamente comprovato. Il furto della verità… il furto di una vergine fanciulla senza veli, che la tirannia del commercio riduce a manichino pronto ad indossare di volta in volta tutti gli abiti della menzogna, il più utile strumento per i pochi gestori delle folle, interessati a far sapere solo quello che giova ai loro intenti, per orientare la massa dovunque decidano… Ci hanno rubato le verità, quelle più schiette ed umane, quelle che potrebbero mostrarci una realtà trasparente, sincera, ormai divenuta opaca per le simulate “trasparenze” che l’ammantano. Le trasparenze decantate dal raggiro, fatte di falsità, subdolo alimento che uccide dimenandosi nell’uncino.
Nessun accenno al furto della mente, consumato attraverso l’omologazione dei valori, del pensiero, dell’opinione (sempre più “pubblica”, sempre meno legata a criteri soggettivi), del giudizio, dei gusti, dei desideri, dei comportamenti, del linguaggio, letteralmente plagiati dai modelli imposti dai media perfino con tecniche occulte!
Nessun accenno al furto della conoscenza, a tutti i ladri del sapere che propinano da radio, televisione e giornali nozioni scorrette, asinerie, ignoranza, perfino corrompendo quel poco di corretto che l’agonizzante scuola riesce ancora ad insegnare.
Nessun accenno al furto di madre (o di padre), ai “noleggiatori di uteri che strappano i bambini alle loro madri” (Camillo Langone) o alle saffiche compratrici di seme che rubano ai bambini i loro padri; ai deformatori del concetto di famiglia che pretendono di sostituire alla genitorialità mista che procrea, il goffo surrogato di una sterile coppia di maschi o di femmine, per egoistico capriccio (e non mi riferisco alla propensione sessuale che, essendo un dato di fatto “naturale”, non discuto, ma alla pretesa di poter giocare a fare i “genitori”, termine dall’inequivocabile etimologia, che designa l’attitudine della coppia a generare), rubando all’infanzia ed all’intera esistenza di un individuo gl’insostituibili affetti ed effetti formativi legati alle figure di un padre e di una madre genuini, non ingannevolmente “concepiti” da una legge “impotente” (anche alla latina, nell’accezione di senza freno).
Nessun accenno, infine, al furto che s’incarna in tutti i profitti eccessivi, nei compensi mille volte sproporzionati rispetto a quello che sarebbe legittimo ed onesto richiedere ed ottenere, compensi di gran lunga superiori alla “giusta mercede” evangelica (“quello che è giusto ve lo darò”, Matteo 20,4), elargiti a calciatori, allenatori, piloti, stelle dello spettacolo; colpa alla quale non si sottrae la Rai, che concede milioni a molti dei suoi “procacciatori di ascolto”, perfino per poche ore di attività. Anche questo è rubare! [53]

* * * * *

OTTAVO COMANDAMENTO

Nella Bibbia a un certo punto c’è scritto, che uno non ci crede, ma se, se volete potete andare a vedere, vi dico anche la pagina, eh?, la Bibbia dice, nella Bibbia c’è scritto che ci sono sei cose che Dio odia particolarmente e sette cose che addirittura detesta! (ascolta)
Dovrebbero dunque essere tredici! Invece no: sono sette, e la confusione nasce nella testa di Benigni – che voleva addirittura dirci la pagina (da quando in qua della Bibbia si citano le pagine?), ma non ha detto nemmeno il libro, che è quello dei Proverbi -, dal fatto che nel testo viene apportata una “rettifica” che ci aspetteremmo da un parlato, non da uno scritto: “Sei cose odia il Signore / anzi sette gli sono in orrore” (Prov 6,16).
A chi s’improvvisa docente di ogni cosa, non possono che capitare equivoci del genere.

Questo non dire falsa testimonianza, quand’eravamo ragazzi, ‘nsom, voleva dire semplicemente, al catechismo, non dire bugie, no? che ci sembrava una cosa strana che Dio avesse messo tra i Dieci Comandamenti, ch’eran tutti così importanti, no? la bugia: non ci sembrava un grande peccato! Era come se avesse detto, dopo aver detto delle cose enormi, grosse, tipo non rubare, non uccidere e e e e non attaccare la gomma da masticare sotto il banco, ‘nso, ‘nsomma, una cosa da niente, no? […] e invece questo Comandamento è importantissimo perché c’è il rapporto ovviamente tra la vita e la verità (?).
Considerazioni di una desolante mediocrità, culminanti in un’asserzione “rivelatrice” che contiene in sé parecchia vaghezza, chiarita in parte da Benigni con la successiva affermazione che “la nostra vita è guidata dal concetto di verità” (“dovrebbe essere guidata”, direi). Tutto sta, poi, ad intendere il senso da attribuire a questa “verità”, che in relazione al Comandamento di cui si tratta si è inclini a tradurre con “sincerità”. Perché un conto è dire che la vita deve essere orientata alla e dalla ricerca del Vero, altro che deve essere contraddistinta dalla lealtà.

Ma vi dirò di più: questo Comandamento è il pilastro di tutta la nostra società: tutto il nostro vivere civile è tenuto su da questo nostro Comandamento, perché noi ci dobbiamo fidare per esempio quando chiediamo a qualcuno per strada che ora è! Ci dobbiamo fidare delle indicazioni stradali, degli orari dei treni… ‘nsomma, c’è tutto il nostro vivere insieme. Perché se chi parla dice il falso, se chi promette non mantiene, se chi compra non paga, se chi testimonia inganna, crolla tutto, si sfascia tutto, no?
Che l’Ottavo Comandamento sia “il pilastro di tutta la nostra società”, mentre tutti sanno che questa si regge quasi esclusivamente sulla falsità, è proprio una storiella poco divertente. Se l’esegeta-comico avesse almeno detto “dovrebbe essere”! Lo stesso show sui Comandamenti poggia sui presupposti falsi che il comico divulghi cultura e catechizzi rettamente l’uditorio, mentre in realtà diffonde imprecisioni, svarioni ed eresie al solo scopo di fare lucrosissimo mercato (e, novità assoluta, la merce è la Bibbia!).
Certo che, a prendere sul serio gli esempi del comico, se per strada ci dicono un’ora per un’altra saltano gli equilibri della nostra vita sociale! Per dabbenaggini del genere non mi viene in mente che l’aggettivo polirematico “sesquipedale”! Insomma una sconcertante banalizzazione del senso di questo precetto decalogico. E cecità voluta, per captatio benevolentiae, specialmente nell’elenco delle azioni che “sfascerebbero” il vivere sociale, mentre ne sono la vera perversa sostanza! Si tradirà, l’esegeta, quando fra non molto affermerà: ”Il potere mente sempre”, non rendendosi conto che del “potere” è lui stesso un’espressione!

Questo Comandamento vieta di dare giudizi vaghi senza prove; vieta l’inganno, l’ipocrisia, eeee la finzione, l’omertà, quelli che fanno finta di non aver visto niente e di non aver sentito niente, no?; vieta la doppiezza, la malevolenza, la falsità, l’adulazione, il parlare untuoso, mellifluo, la malizia, il pettegolezzo, la bugia che sfocia nella calunnia, le menzogne semplici e quelle più complesse, usando qualsiasi mezzo, calpestando ogni principio morale, quelle proprio che danno luogo a delle mostruosità, menzogne per demolire un avversario, un avversario politico, per colpire a morte una persona manipolando la verità. [Mancano spergiuro, giudizio temerario, ironia, millanteria… colpa questa cui non si sottrae nemmeno chi millanta sapere… ndc.].
Ci si chiede perché Benigni non usi lo stesso metro ad litteram per tutti i Comandamenti: perché trattando il Quinto “tiri il comandamento verso la modernità del ‘no alla pena di morte’, idea lontanissima dall’ebraismo, formatasi nel tempo grazie al pensiero della Chiesa” (Giovanni Lazzaretti); perché nel caso del Sesto restringa il significato al solo adulterio, deprecando l’intervento successivo della Chiesa e auspicando il ritorno alla “purezza ebraica” dell’interpretazione; perché per l’Ottavo dilati il senso ben oltre quello originario che si riferiva all’ambito giudiziario, ai falsi testimoni, per estenderlo al fitto elenco riportato. Pare insomma che vada dove lo portano il comodo e la ricerca del consenso piuttosto che nella direzione della “leale” (tanto per essere in tema) ermeneutica.
Il Cardinale Gianfranco Ravasi, non escludendo naturalmente l’estensione e l’approfon-dimento di significato dell’Ottavo Comandamento, sostiene con chiarezza che in esso “è coinvolto prima di tutto e sopra tutto l’orizzonte giudiziario, tant’è vero che la resa migliore dell’ebraico dovrebbe essere questa: «Non deporre contro il tuo prossimo come testimone falso». Il verbo usato, infatti, è quello tecnico della comparizione di un testimone in sede processuale. Ora, considerando il rilievo che rivestiva la testimonianza a voce in una civiltà di cultura orale (lo scritto era secondario rispetto alla parola detta o data) è facile comprendere perché questo comandamento fosse la prima norma in assoluto nel celebre Codice di Hammurabi, testo-base del diritto babilonese. […] Merita forse un cenno la prassi processuale dell’antico Israele. Ogni villaggio aveva come sede giudiziaria la porta pubblica che svolgeva le funzioni di municipio. Membri di diritto della corte di per sé erano tutti i cittadini residenti, non soggetti a tutela (come le donne e i minorenni) e dotati dei diritti civili (matrimonio, culto, servizio militare). I giudici e l’assemblea stavano seduti; chi testimoniava stava in piedi e, per la particolare tipologia di questa corte popolare, si poteva essere contemporaneamente testimoni e giudici. Una raffigurazione dal vivo di un dibattimento municipale alla porta del villaggio, il luogo ove tutti transitavano sia per i commerci, sia per recarsi al lavoro nei campi, è da leggere nel capitolo 4 del delizioso libro biblico di Rut”.
Di nuovo ci si domanda perché un Comandamento rivolto all’umanità debba essere stato “emanato” da un Dio infinito, onnisciente, eterno ecc., in relazione ad una contin-genza storica, prevedendo poi evoluzioni sia negli enunciati che nelle interpretazioni. Nel Deuteronomio, ad esempio, i termini usati per sancire il precetto sembrano appartenere ad una società “più evoluta”, come si può desumere da questo passo dell’Enciclopedia Cattolica online: “Il comandamento non si riferisce alla bugia in generale, ma alla testimonianza resa in tribunale, come appare anche dal termine tecnico ebraico ’anah, “deporre”. Più precisamente, Es 20,16 proibisce la testimonianza “falsa” (šeqer), mentre Dt 5,20 proibisce la testimonianza “vana” (šaw); il senso comunque non è differente. La formulazione del Deuteronomio è posteriore e suppone una società più evoluta e maliziosa”.
Questo, però, non è un problema che riguardi “gli show” di Benigni, che invece incontrano gravi difficoltà, per le loro caratteristiche mistificatorie ampiamente dimostrabili, ad essere giustificati sia di fronte al Decalogo che alle considerazioni del Catechismo della Chiesa Cattolica relative all’uso dei mezzi di comunicazione sociale (CCC 2493-2499).

Voi mi direte: “Ma questo Comandamento, quindi, ordina di dire sempre la verità?”. No, perché sarebbe tremendo. Dire sempre la verità come un dovere renderebbe impossibile non solo vivere, ma proprio ogni forma di vita (?).
Prima l’esegeta ha affermato (nel suo solito modo goffo) che il rispetto dell’Ottavo Comandamento è il presupposto stesso del vivere sociale, ora dètta un principio che sembra essere quello di Benjamin Constant, che nell’opera Le reazioni politiche (La Francia nell’anno 1797, VI parte, n.1, p. 123), scrive: “Il principio morale che dire la verità è un dovere renderebbe ogni società impossibile, se fosse preso in modo incondizionato e isolato”.
Il fatto è che il termine verità viene usato in un’accezione “familiare”, più che filosofica: il concetto di “verità” non può coincidere con quello di “veridicità” né può essere mai ridotto ad un dovere, come ha ben dimostrato Immanuel Kant, proprio in risposta al passo citato, in Su un presunto diritto di mentire per amore degli esseri umani. Sgombrato il campo dall’equivoco e detto che un testimone non può essere vero o falso, ma semplicemente sincero o bugiardo (come non può essere mai falsa una testimonianza che, per quanto non sincera, sia riferita nel modo in cui è stata pronunciata!), si può cercare di discutere se sia più o meno opportuno, più o meno etico essere sempre sinceri, veritieri, anche alla luce del versetto biblico: “Il labbro veridico è stabile in perpetuo, ma la lingua bugiarda non dura che un istante” (Pro 12,19). A riguardo ci sono quelli che, come Kant [54], tendono al rigorismo in margine al proprio sistema di pensiero. Molti autori antichi e moderni, quali Solone, Aristotele, Agostino, Tommaso d’Aquino, Wolff, Fichte, solo per citarne alcuni, considerano infatti il mentire come un’azione intrinsecamente cattiva, sempre e comunque. C’è chi, come Giacinto Butindaro (absit iniuria!) si dimostra intransigente per rigidità religiosa: “La Scrittura non parla di eccezioni in cui è lecito mentire. In qualsiasi circostanza e per qualsiasi ragione la menzogna è da aborrire”. C’è chi insomma ad ogni costo, perfino quando la sincerità arrechi danno al prossimo, è convinto che la “menzogna” va rifuggita. Se è vero che Gesù stesso affermò: “Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno” (Mt 5,37), credo si possa senza timore ritenere che la radice della vera menzogna è nelle intenzioni di chi mente.
Sicché io condivido quanto scrive Aulo Didimo nella sua opera Le scuole filosofiche: “Il mentire non consiste nel dire il falso, ma nel dirlo con l’intenzione di mentire e di ingannare il prossimo”, anche se sono del parere che l’unica menzogna da considerare tale, e sempre ingiustificabile (unverantwortlich, per dirla con Robert Spaemann [55]), sia la “deformazione intenzionale” ordita per un fine dannoso (alludo al concorso di una voluntas fallendi e di una voluntas nocendi); analogamente, in apparente paradosso, può considerarsi bugiarda anche una sincerità usata a fin di male: è il caso di “colui che a uno che non gli presta fede dice che in una certa via ci sono i briganti conoscendo che lì davvero ci sono; e se gli dice così è perché chi lo ascolta si diriga effettivamente verso quella strada credendo false le parole del collega” (Morali pastorali, La menzogna, 4.4). In ogni altra circostanza alla manipolazione volta a nuocere si sostituisce il velo, onestamente utile o pietoso, o subentra l’ignoranza, per cui si reputa vero e si afferma ciò che in realtà è falso, o si tace ciò che si reputa falso ed invece è vero: “Riteniamo che una persona sia sincera o bugiarda in base al giudizio della sua mente e non in base alla verità o falsità della cosa in sé”; ed ancora: “La colpa del mentitore sta nel desiderio di ingannare” (Morali pastorali, La menzogna, 3.3). Si può far proprio anche il motto di Gregorio Magno: “Ci sono cose che non si dicono perché non si devono dire; e cose che si dicono perché si devono dire (Regula Pastoralis, 2,4). In sintonia sembra pure Millàn-Puelles, che così definisce la veracità: “La rettitudine etica propria di chi, nel manifestare ciò che effettivamente ammette, non vuole recare nessun innecessario pregiudizio ad altri o a se stesso” [56].
Infine non si può non ricordare che lo stesso Jahvè premia le levatrici che mentono a fin di bene al Faraone (Es 1, 15-21).

E il potere… Il potere non vuole che la vediamo [la verità], non vuole che la conosciamo, perché il potere ha paura che si sappia la verità, non vuole che si sappia la verità. Guardate è una cosa strana: è una legge alla quale tutti i poteri obbediscono. IL POTERE MENTE, SEMPRE!
Anche il “potere mediatico” dunque ci nasconde la verità. Lo stesso potere di cui gode l’esegeta-comico (di natura anche politica?) si nasconde dietro una maschera, ha paura di svelarsi: se lo facesse la gente aprirebbe gli occhi e… il palco crollerebbe! Quello da cui Benigni arringa le folle facendosi credere un mostro di cultura! Mostro magari sì, non però come “prodigio”…

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NONO COMANDAMENTO

Non desiderare la donna d’altri. Ecco, vedete: arrivati al Nono Comandamen-to oramai Dio e Mosè sono entrati in confidenza, cominciano a parlà di donne…
A parte l’accenno al riso divertito nell’enunciare il Comandamento (ascolta), la battuta introduttiva è magari spiritosa, ma non sembra opportuna né rispettosa: soprattutto in un contesto decalogico è una pubblica violazione del Secondo Comandamento e tradisce la vera (segreta) disposizione d’animo dell’ermeneuta da circo!

Nella numerazione cristiana “Non desiderare la donna d’altri”, l’abbiamo visto, è un Comandamento che ormai s’è proprio imposto nella mente popolare e nella fantasia di tutti come un Comandamento che ha a che vedere col sesso, no? o il tradimento, o i pensieri pieni di chissà che, no?; invece nella sua origine il sesso non c’entra niente, anche qui. Parla della proprietà. Da una parte c’è da dire purtroppo, perché l’epoca era fatta così. Appropriarsi letteralmente di una donna che appartiene ad un altro uomo, sposata! L’atto, non l’intenzione.
Senza volersi dilungare, per ora, sulla fitta questione della semantica dei verbi di desiderio sia nel testo dell’Esodo che in quello del Deuteronomio, si dirà che Benigni trascura completamente la versione deuteronomica, dove il desiderio della moglie del prossimo è prioritario e distinto dal desiderio degli animali e delle cose, con una conseguente analisi parziale e, come già per altri Comandamenti, critica nei confronti delle scelte della Chiesa Cattolica. In ogni caso quando egli afferma “c’è da dire purtroppo, perché l’epoca era fatta così” (una persona di proprietà è realmente diritto insostenibile: ma “donne e buoi” sono accanto anche in certe saggezze popolari…), viene messa in discussione la “scrittura” divina dei Comandamenti, figli di un tempo storico e non di una mente acronica e “giusta in una dimensione universale”.
Il grande esegeta sancisce infine: “L’atto, non l’intenzione”! Non fornisce però la minima spiegazione di tutti i secolari problemi ermeneutici che il Comandamento ha suscitato in relazione ai verbi di desiderio usati nel testo biblico; problemi che io ho pensato di sintetizzare, nella trattazione del Decimo Comandamento, attraverso un contributo tratto da I Dieci Comandamenti di Edouard Hamel, nella traduzione di Rino Bartolini.

Non desiderare la donna d’altri non vuol dire che è proibito o che si fa peccato a guardare una donna… così, a pensare delle cose, non è un divieto nei confronti di un impulso, di una passione istintiva di fronte a una bella donna; no. Il Comandamento non condanna appunto una reazione spontanea davanti alla bellezza o al fascino. Sarebbe troppo, sarebbe impossibile. No? Ecco. Il comandamento così com’è scritto, vieta di desiderare la moglie del prossimo, ma non così, ma con tutto un piano nella testa di attivarsi, di elaborare col pensiero tutta una strategia di conquista, per impossessarsi di quella donna. Un piano, una macchinazione per raggiungere quello scopo, senza badare a leggi morali, a niente, proprio la mente, la volontà e l’azione, tutte in moto per conquistare e appropriarsi della moglie del prossimo. Ma non per una volta così, un’avventura, no, farla diventare sua, appropriarsene, perché all’epoca erano proprietà del marito, prima de de de del padre e poi del marito, e quindi è un discorso sulla proprietà.
L’ermeneuta da circo sembra inizialmente procedere sulla falsariga delle più recenti esegesi ecclesiastiche, per scivolare poi nella consueta indulgenza, in materia di sesso (peraltro oggetto superfluo, incoerente dopo la precisazione che il Comandamento non riguarda il sesso, ribadita in fondo al confuso discorso), che lo porta ad ammettere più di una violazione, fino ad assolvere, se non a benedire, non solo la concupiscenza, ma l’atto che l’appaga, sia pure nella forma di passeggera avventura. Così prima egli pare ricalcare il pensiero di Ravasi e poi concede la trasgressione del Comandamento!
Riferendosi agli ultimi due precetti del Decalogo il cardinale scrive: «La nostra attenzione deve concentrarsi proprio sul verbo fondamentale “desiderare”, in ebraico hamad (in realtà, il passo del Deuteronomio ne usa un altro per il “desiderio” della donna, ma in pratica essi sono sinonimi). In un saggio importante, apparso già nel 1927, sul Decalogo, lo studioso tedesco Johannes Herrmann puntualizzava che “hamad non significa un ‘desiderare’ nel senso di un semplice volere o augurarsi, ma include tutte le macchinazioni che portano a impossessarsi di quanto è desiderato”. Detto in altri termini, non siamo in presenza della condanna di un vago desiderio o di un’attrazione istintiva, bensì di un vero e proprio progetto tendente alla conquista di una meta prefissata».
E se la meta prefissata è l’accoppiamento, questo per l’insigne comico toscano non è da escludere, a meno che non preveda l’intenzione di “impossessarsi definitivamente” della preda: perché il discorso è “sulla proprietà”! Senza che i polli all’ascolto se ne accorgano, Benigni sovrappone le epoche e concede l’infrazione in rapporto ad una concezione di età biblica, in questo caso essendo elastico in rapporto al testo ed ancora una volta profilando il paradossale criterio della “morale storica”, del presunto adeguamento, cioè, della legge divina alle transitorie usanze umane.
L’apostolo Paolo afferma: “Io non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non concupire. Ma il peccato, còlta l’occasione, per mezzo del comandamento, produsse in me ogni concupiscenza; perché senza la legge il peccato è morto” (Ro 7,7-8), per cui, alla luce della legge sinaitica, quella di cui Benigni ha nella prima serata predicato aver portato agli uomini la libertà, concupire – ossia desiderare ardentemente – la moglie del prossimo (e le di lui cose) è peccato, e non perché la donna gli appartenga nella persona. Non sembra indispensabile, quindi, elaborare un piano di azione per infrangere questo Comandamento, ma pare sufficiente nutrire il solo desiderio ardente quale premessa all’inevitabile tentativo di attuazione e perfino come surrogato di questo. Del resto, nel discorso della montagna, Gesù Cristo ammoniva: “Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore” (Mt 5,27-28). Sicché nel momento in cui uno “guarda una donna così e pensa delle cose” – per usare le parole di Benigni – pecca. Conferma tale supposizione anche l’analisi diligente delle puntuali parole di Cristo, “per appetirla” e “nel suo cuore”, per quanto lo stesso Ravasi dia troppo rilievo alla “macchinazione” piuttosto che all’equazione brama-atto potenziale: “Gesù non è così irrealistico e puritano da bollare irrimediabilmente una reazione primordiale, un’attrattiva spontanea ma, come sottolinea il rimando al “cuore”, cioè secondo il linguaggio biblico alla coscienza, egli punta al “desiderio” nel senso di macchinazione, progettazione, decisione intima e profonda. Cristo è, perciò, pronto a perdonare l’adultera che in un momento di debolezza può aver peccato; ma condanna chi, dopo aver tentato in tutti i modi di irretire nei suoi desideri la moglie del suo prossimo, alla fine paradossalmente non ci riesce. Eppure egli ha consumato l’adulterio nel suo “cuore”. Decisiva è, quindi, la volontà, la scelta morale” (Gianfranco Ravasi).
Come abbiamo visto, secondo Benigni si può invece anche avere un’avventura con la moglie del prossimo (“una volta così”): non s’infrange nessun Comandamento divino neppure in questo caso… Basta solo non appropriarsi per sempre della donna (e il “non commettere adulterio?)! È palese dunque l’incitamento dell’improvvisato predicatore alla “fornicazione”, che è peccato agli occhi di Dio: “State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo” (1 Co 6,18).

Se non avessimo desiderato la donna e l’uomo d’altri crollerebbe tutta l’arte dell’Occidente, diciamo, no? [Lasciamo perdere l’uso illetterato dei tempi del verbo! ndc.]
Dopo essersi profuso sulla bellezza della parola desiderare e sulla cultura del desiderio che ha pervaso la storia dell’uomo e pervade la nostra epoca, l’esegeta-comico arriva a sostenere che se l’umanità non avesse violato il Nono Comandamento (modernizzato, adattato anche al desiderio dell’uomo d’altre, all’improvviso trascurando la presunta allusione del precetto, prima enfatizzata, alla proprietà “materiale”), non sarebbe mai fiorita tutta l’arte dell’Occidente! Ben venga dunque la trasgressione, via libera al peccato, con buona pace delle ecclesiastiche allodole che hanno colmato i turiboli per incensare la “pubblicità” (non certo gratuita e rispettosa del prossimo) elargita alla causa del Vaticano dal genio di Misericordia!

Abbiamo proprio dentro di noi, tutti lo sentiamo, un’ansia continua, indistruttibile d’infinito: siamo limitati nella nostra natura, ma infiniti nei nostri desideri, infiniti, come l’oceano [che non è infinito… ndc.], avete visto che è infinito, ma sbatte contro i propri confini [?] popò popùm (ascolta), sentiamo dei sussulti dentro di noi: è quello… Desideriamo sempre, ma desideriamo cosa? Lo dice la parola stessa: de-siderium, che viene da sidera, stelle, lo spazio siderale, no?, si dice. Le stelle: desiderio vuol dire proprio il bisogno, l’ansia, l’anelito, di raggiungere, propo di abbracciare, di di andare al di là delle stelle, di più. C’è qualcosa dentro di noi che ci dice che non ci basta tutto questo, non ci basta, e non solo noi, gli esseri umani, ma tutto l’universo è guidato da una tensione di desiderio, tutto il cosmo è desiderante, desidera essere qualcos’altro, cambiare, divenire, e non si ferma mai, e questo è proprio, proprio scientifico, l’universo continua a muoversi, a vivere, a creare, a espandersi, a desiderare!
L’imbonitore passa, in modo giustificato solo dalla “bancarella”, ma oggettivamente ridicolo, dal desiderio della donna d’altri (si dirà più avanti del significato dei verbi di desiderio nell’Antico Testamento) al desiderio come tensione verso l’infinito. Sono troppo limitato per capire questi trapassi pindarici coartati dalla logica mercantile! E i sussulti popò popùm che sento dentro sono da evacuazione…
Non poteva mancare l’etimologia presente in ogni “show del desiderio” dell’inimitabile poeta “squidernato”, quella della parola desiderio, imprecisa, a dire il vero, e forzata alla circostanza, dato che non tutti concordano sul senso di de-sideribus (attesa sotto le stelle dei desiderantes; cessazione dell’interrogazione degli astri per vaticinio; lo scongiurare l’influsso di astro contrario e simili). E quando “l’impareggiabile artista” si abbandona all’ispirazione, allora il caos dell’universo gli prorompe dall’anima e dalla mente, la grammatica cieca costella le mai nuove traiettorie fantastiche, generalmente senza direzione, perché prive di meta…
Qualunque persona dotata di un minimo di logica può rendersi conto che, rispetto al tema da trattare, qui Benigni farnetica!

Abbiamo visto che il desiderio è inseparabile, è indissociabile dalla nostra natura, dalla natura umana. La cosa incredibile è che qui se ne fa oggetto di divieto giuridico, di divieto giuridico: vietato desiderare, di legge! È incredibile, è impossibile! Qui c’è una cosa che non c’è mai stata in nessun codice prima, in nessuna legge e non ci sarà mai, né ora e né in futuro. Il pensiero nella legge! Qui non mi si vieta di farlo il male: mi si vieta addirittura di pensarlo, se no vengo punito! Ma come fai a scoprirmi? ma lo posso sapere solo io se lo penso, no? chi mi può punire? chi me lo può vietare? (ascolta)
È del tutto evidente che Benigni oscilla, all’interno di una conoscenza approssimativa, per non dire parziale, tra il desiderio che si proietta nell’azione e il puro desiderio interiore, denunciando e ingenerando confusione. “Il pensiero nella legge” (per quanto qui si tratti di una legge di Alleanza in cui l’uomo deve rispondere davanti a Dio e non davanti ai tribunali) è esclamazione teatrale, non certo supportata da un’analisi seria.
È il caso di richiamare l’attenzione, come faremo anche più avanti, sul fatto che già nel 1946 Petersen aveva sostenuto che “i processi mentali degl’israeliti non si davano successivamente, ma uniti. Per essi il desiderio e l’azione erano come legati con profonda unità, di modo che il desiderio, per una specie di necessità interiore, implicava l’azione. Fin quando esiste il desiderio, l’azione corrispondente è già presente. Dove non c’è azione non c’è vero desiderio, Dove non c’è vero desiderio, non c’è azione” [W. L. Moran, De Foederis Mosaici Traditione, in “Verbum Domini”, 40, (1962) 3-17].
Sono sufficienti queste considerazioni per comprendere che il Comandamento va oltre il semplice desiderio interiore e si riferisce alle azioni come conseguenze inevitabili di una brama smodata: le ridicolaggini del “catechistello toscano” ne risultano smentite. Anche perché nel Nuovo Testamento (del quale Benigni tiene sempre scarso conto) è lampante l’interesse che Gesù dimostra prima di tutto per l’impurità morale, cui pospone decisamente l’impurità “legale”: “Dal cuore, infatti, provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie. Queste sono le cose che rendono impuro l’uomo; ma il mangiare senza lavarsi le mani non rende impuro l’uomo” (Mt 15, 19-20).
Quanto alle domande finali del passo riportato (ma come fai a scoprirmi?… ecc.), Benigni risponde “io”, nel senso che solo noi possiamo conoscere i nostri pensieri e vietarci di indugiare su quelli peccaminosi, o punirci per averlo fatto… ma poi, con la consueta incoerenza dice che «Dio sa tutto e legge dentro di noi», sicché i quesiti non solo diventano retorici, ma superflui, se non addirittura sciocchi.

Dio, diciamo, coi Dieci Comandamenti ci ha fatto prendere coscienza della coscienza, diciamo, eh; da allora la coscienza è nata e guida tutte le nostre azioni e i nostri pensieri, e cresce con il crescere degli uomini e di Dio, perché Dio e gli uomini crescono insieme, eh, naturalmente, come dice la Bibbia. [Dove? Mai che il catechista citi una fonte! ndc.].
A parte il fatto che Benigni avrebbe dovuto usare l’espressione “coscienza morale”, dal momento che il termine coscienza, non bene contestualizzato, non è univoco e può riferirsi alla “capacità dell’uomo di percepire i propri stati e le proprie azioni” (Piero Bertolini [57]), a me sembra proprio una sciocchezza affermare “da allora la coscienza è nata”, o parlare della “scoperta della coscienza”, scoperta dell’America ante litteram (ascolta), soprattutto in forza del concetto filosofico di sindèresi [58] che le parole del Pontefice Paolo VI e il riferimento biblico in esse presente confermano: “L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (Rm 2, 14-16). Pio XII aveva detto a sua volta: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità” (Pio XII, La famiglia è la culla, 23 marzo 1952, III capoverso). Non è dunque il Comandamento divino che ha dato la coscienza morale all’uomo, ma Dio stesso all’atto della creazione. Si consulti pure il CCC, 1777-1778; 1780-1781. Che cosa possa significare che la coscienza morale “cresce con il crescere degli uomini e di Dio” lo sanno soltanto Benigni e, magari, Dio!

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DECIMO COMANDAMENTO

La trattazione del Decimo Comandamento “di Benigni”, svolta in maniera molto rapida dal catechista-comico, non presenta elementi di rilievo, se non l’espressione con cui il comico classifica il desiderio della roba d’altri come ossessione furiosa per il possesso, definizione che sembra ben attagliarsi al male che da sempre lo affligge! Sicché, anche ad integrazione dell’analisi del Nono Comandamento, riporto un documento chiarificatore degli ultimi due precetti del decalogo, tratto dal libro di Edouard Hamel S. J. I Dieci Comandamenti.
“Nella relazione dell’Esodo, il decimo comandamento si legge come segue: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17). La lunga enumerazione della seconda frase non è altro che il commento di un comandamento più breve: “Non desidererai la casa del tuo prossimo”. La parola “casa” si prende qui in un’accezione larga e designa la domus paterna dell’israelita. Comprende in primo luogo tutte le persone che costituiscono la sua famiglia e poi il resto dei beni. L’opinione tradizionale ha inteso sempre il verbo “desiderare” come designando la radice stessa degli atti, la disposizione intima del cuore. Il comandamento proibiva di conseguenza il desiderio ingiusto circa i beni del prossimo. È questo il senso primitivo del comandamento? Il Decalogo, già lo sappiamo, ai suoi inizi non proibiva altro che i crimini maggiori contro l’Alleanza e che avevano una sanzione ben determinata nel Pentateuco. Ebbene, come può cadere sotto la sanzione di una pena esteriore la semplice intenzione? Come spiegare che solo il decimo comandamento proibisca gli atti interni, quando gli altri si riferiscono agli atti esterni?
La prima risposta a questa difficoltà l’offrono i recenti studi fatti sul senso del verbo ebraico hamad. Secondo Herrmann e Stamm questo verbo esprime abitualmente nella Bibbia un sentimento che porta all’esecuzione di ciò che si desidera. Indica non solo il desiderio, bensì include anche gli atti che conducono alla presa di possesso dell’oggetto desiderato. Indica “un impulso al quale seguono quasi immediatamente gli atti corrispondenti”: una volta nato, al contatto con un oggetto esteriore, il desiderio conduce infallibilmente all’atto [P. MAMIE, Le Décalogue. Recherches textuelles et notes theologiques, in “Nova et Vetera”, 83 (1963), 220; H. HAAG, Der Dekalog, pp. 33-34 ; J. J. STAMM – M. E. ANDREW, The Ten Commandments in Recent Research, pp. 102-103].
Tale sembra essere certamente il senso di hamad quando nei passi seguenti è seguito da un secondo verbo con il significato di prendere e che viene con molta verosimiglianza a esplicitare ciò che già indicava hamad implicitamente. «Darai alle fiamme le sculture dei loro dei. Non bramerai e non prenderai per te l’argento e l’oro che le ricopre, altrimenti ne resteresti come preso in trappola, perché sono un abominio per il Signore, tuo Dio» (Dt 7,25). «Sono avidi di campi e li usurpano, di case e se le prendono» (Mi 2,2). Nel libro di Giosuè, Acan confessa la sua colpa in questi termini: «… avevo visto nel bottino…duecento sicli d’argento e un lingotto d’oro del peso di cinquanta sicli. Li ho desiderati e me li sono presi» (Gs 7,21). In altre due pericopi, ad hamad non segue il verbo “prendere”, ma il contesto indica che sta chiaramente implicando un atto di questa natura. Durante l’assenza degl’israeliti, che andavano in pellegrinaggio tre volte all’anno, nessuno doveva “desiderare” i loro beni: «…cosi quando tu, tre volte all’anno, salirai per comparire alla presenza del Signore tuo Dio, nessuno potrà desiderare di invadere la tua terra» (Es 34,24). Qui è chiaro che la proibizione di un semplice desiderio non avrebbe alcun senso; è il saccheggio dei beni che si proibisce.
In un versetto del Salmo 68 si tratta delle gelosie delle montagne in relazione a Gerusa-lemme, il monte del tempio di Yahvè: «Perché invidiate, montagne dalle alte cime, la montagna che Dio ha desiderato per sua dimora? II Signore l’abiterà per sempre» (Sal 68,17). Hamad qui non significa solo il desiderio della collina di Sion, ma il fatto di stabilire in essa la sua residenza.
Il decimo comandamento proibiva dunque nella sua origine la realizzazione esteriore di un desiderio, cioè le manovre affettive per impossessarsi dei beni del prossimo. Quest’interpretazione viene a confermare la tesi sostenuta spesso, secondo la quale i comandamenti della seconda tavola proteggono i diritti fondamentali della persona umana, ma presentandoli in ordine di valori decrescenti. Nel collocarsi all’ultimo posto, il decimo comandamento proibisce d’impadronirsi dei possedimenti dell’israelita sposato e signore: primo, delle persone che costituiscono la sua casa, sua moglie, i suoi servi, le sue serve; poi, i suoi animali, e finalmente i suoi beni materiali.
Nella redazione deuteronomica, il decimo comandamento si trova cosi: «Non desidererai la moglie del tuo prossimo. Non bramerai la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Dt 5,21).
Questo testo implica alcune varianti in relazione a quello dell’Esodo.
Mentre nell’Esodo la moglie figurava tra i primi “possessi” del marito, qui la si nomina in primo luogo, trovandola cosi chiaramente separata dal resto dei beni. La si presenza come un possesso a parte, differente dagli altri. Questa distinzione ci suggerisce già che la moglie si fa qui oggetto di comandamento speciale.
L’enumerazione dei beni che non bisogna “desiderare” è differente. La parola “casa” non ha il senso che aveva nella versione dell’Esodo; non indica pin la “famiglia” in generale, ma la casa di pietra, che abitava l’israelita con tutta la sua famiglia.
Altra particolarità importante: il testo dell’Esodo ripete due volte lo stesso verbo hamad, quello del Deuteronomio impiega due verbi diversi: hamad quando si riferisce alla moglie e awah quando tratta degli altri beni. Abbiamo visto più sopra che senso aveva hamad: desiderare per appropriarsi. Qui, come nell’Esodo, si proibiscono le macchinazioni per appropriarsi della sposa del prossimo.
Ma qual è il senso del verbo awah, utilizzato nel secondo membro della frase?
Vari esegeti pretendono che awah non indica il desiderio seguito da un atto d’aggressione, come hamad, ma solo il desiderio interiore. Questo verbo alcune volte ha come complemento oggetti o persone che si desiderano ardentemente, senza poterli ottenere con le proprie forze. Cosi si desidererà «il giorno del Signore» (Am 5,18), e perfino lo stesso Yahvè (Is 26,9).
Se tale è il senso di awah, il decimo comandamento si sdoppia nel Deuteronomio non solo quanto all’oggetto, ma quanto al suo senso. Proibisce in primo luogo le macchinazioni (hamad) per impossessarsi della sposa del prossimo e poi il desiderare (awah) gli altri beni. E mentre la prima proibizione si mantiene ancora nell’ordine dei soli atti esteriori, la seconda si è interiorizzata già con segnali di evoluzione e di progresso morale: all’affermare che il semplice desiderio ingiusto è già riprensibile e che il peccato si dà prima nel cuore dell’uomo, la versione deuteronomica non dice meno del testo dell’Esodo, ma al contrario si estende più oltre [P. MAMIE, ibid., p. 221].
Questi stessi autori vedono in questo un altro segnale di affinamento della coscienza morale d’Israele, nel fatto che la moglie non è inclusa nelle possessioni del marito, ma che è oggetto di un comandamento a parte: questa dignità si affermerà e riconoscerà sempre di più.
In uno studio recente il P. Moran respinge questa tesi [W. L. MORAN, The Conclusion of the Décalogue (Es 20,17; Dt 5,21), in “Catholic Biblical Quart.”, 29 (1967), 543-554]. II semplice fatto che hamad non significhi solo desiderare, ma che implichi spesso atti di appropriazione, non basta per distinguerlo da awah, perché questa implicazione sembra che caratterizzi tutti i verbi di desiderio. Awah a volte può avere lo stesso significato di hamad, come per esempio nel testo dei Proverbi: «Non mangiare il pane dell’avaro e non bramare le sue ghiottonerie» (Pr 23,6). È evidente che bramare equivale qui a mangiare.
Nell’Antico Testamento i verbi di desiderio non possono distinguersi l’uno dall’altro a partire dall’interiorità. Tutti i verbi, che descrivono un movimento della volontà, hanno in comune che implicano sempre gli atti che portano il desiderio verso la sua realizzazione. Come prova questo testo del Deuteronomio: «Se un uomo sposa una donna e, dopo essersi unito a lei, la prende in odio, le attribuisce azioni scandalose e diffonde sul suo conto una fama cattiva…» (Dt 22,13-14). Questo prendere in odio significa qui “sperimentare (e manifestare) avversione per (voler) separarsi da…”.
La tesi non è nuova, afferma Moran, perché già fu sostenuta nel 1946 da Petersen. Secondo quest’ultimo, i processi mentali degl’israeliti non si davano successivamente, ma uniti. Per essi il desiderio e l’azione erano come legati con profonda unità di modo che il desiderio, per una specie di necessità interiore, implicava l’azione. Fin quando esiste il desiderio, l’azione corrispondente è già presente. Dove non c’è azione, non c’è vero desiderio. Dove non c’è vero desiderio, non c’è azione.
Secondo Moran, non si può fondare nell’impiego dei due verbi differenti, hamad e awah, un’interiorizzazione parziale del decimo comandamento nella versione deuteronomica. Avendo questi due verbi fondamentalmente lo stesso significato, il decimo comanda-mento, sebbene sdoppiato, non cambia significato. Bisogna leggerlo come segue: “Non macchinerai per impossessarti della sposa del tuo prossimo. E neppure farai niente per impossessarti dei suoi beni”.
Moran sostiene inoltre che non si può dedurre niente neppure appoggiandoci nel differente statuto sociale della sposa, per il solo fatto che nella recensione deuteronomica non sia inclusa tra i “possessi” del marito, e la faccia oggetto di un comandamento a parte. La ragione di questa separazione della sposa può spiegarsi in altra maniera.
Effettivamente l’enumerazione di beni che non bisogna “desiderare”, nella versione deuteronomica sembra che si è presa da una lista-tipo dei beni destinati a vendersi, cambiarsi o essere oggetto di eredità. Alcuni documenti legali ugarittici, utilizzati nelle transazioni di beni immobili, si redigevano secondo uno schema quasi identico. In cima a queste liste di beni scambiabili si trova invariabilmente la coppia “casa-campo”. Seguono poi altri beni immobili e varie forme di coltivazioni; poi il personale, i servi, le serve e gli animali. La lista termina sempre con la clausola “e tutto ciò che gli appartiene”. Merita ricordare ora uno di questi testi, perché costituisce un perfetto parallelo con la lista del decimo comandamento. Si tratta di un prestito consentito da un re a un tale Takhulenu. Questo prestito non sarebbe valido che durante la vita del monarca, perché alla sua morte “le sue case, i suoi campi, i suoi servi, le sue serve, il suo bue, i suoi asini e tutto ciò che gli appartiene” non gli apparterranno più.
Se, come è molto probabile, l’enumerazione dei beni della versione deuteronomica s’ispira a queste liste di beni utilizzate con fini commerciali, non c’è niente di strano che la sposa manchi di un posto tra di esse. Mai si considerò in Israele la sposa come proprietà del marito con lo stesso titolo del resto dei beni. Si potrebbe dire al massimo che era “possesso” in certo senso. Continuava ad essere libera anche rimanendo a lato di suo marito. Non era oggetto di commercio. In concreto, non poteva essere venduta. Se la versione deuteronomica del decimo comandamento, come sostiene Moran, è stata organizzata e redatta in funzione di distinzioni legali più precise, c’era bisogno di porre a parte la sposa ed escluderla dai beni del marito, che potevano essere oggetto d’interscambi commerciali.
I Settanta (link1; link2), nella loro versione, interiorizzarono il decimo comandamento utilizzando nell’Esodo e nel Deuteronomio un solo verbo: epithumeo (ripetuto due volte) che indica il desiderio interiore. Nell’epoca della traduzione greca dell’Antico Testamento, verso il terzo secolo prima di Gesù Cristo, la coscienza giudaica più raffinata attuava dunque il decimo comandamento a livello delle intenzioni e dei desideri.
Secondo i sostenitori della prima opinione citata più sopra, l’interiorizzazione realizzata da I Settanta era già insinuata all’epoca della redazione del Deuteronomio. Moran al contrario non la trova fondamento nella versione deuteronomica del Decalogo, che non mostra la minima traccia d’interiorizzazione del decimo comandamento.
Tuttavia non si può negare che l’interiorizzazione realizzata da I Settanta presupponeva un’evoluzione del pensiero giudaico. Nel giudaismo tardivo non si comprendevano i Dieci Comandamenti allo stesso modo dell’inizio. Il Decalogo aveva mutato di senso. Non si contentava più di proibire i crimini maggiori contro l’Alleanza in prospettiva esclusivamente comunitaria. I comandamenti non rappresentavano più solo i crimini antisociali, ma tutto l’ambito della moralità personale e interiore. Oltre gli atti esterni dell’uomo, raggiungeva il suo cuore. Il collettivismo un po’ sommario dell’inizio è superato: ci troviamo già nell’ambito della responsabilità personale, anche senza dimenticare la dimensione comunitaria e sociale.
La versione deuteronomica del decimo comandamento, con l’ordine di presentazione dei vari oggetti di proprietà, suggerendo già lo sdoppiamento, è ciò che si trova alla base dell’enunciazione dei comandamenti cosi come l’esprimono cattolici e luterani. Per compensare la contrazione realizzata da sant’Agostino dei due primi comandamenti (perché si rese chiaramente conto che la proibizione degl’idoli non era altro che una concretezza del primo comandamento) e conservare allo stesso tempo il numero di dieci, si è preso il costume di sdoppiare il decimo, intendendo sempre desiderare nel senso di un desiderio interiore, come d’altra parte lo faceva anche la versione de I Settanta“.

* * * * *

FINALE

Dei Dieci Comandamenti ognuno ci ha il suo preferito, no? Addirittura Dio preferisce “Ricordati di santificare il sabato”. […] Questa domanda la fecero anche a Gesù… E lo sapete Gesù cosa rispose qual era il suo preferito, diii Comandamenti? Nessuno di questi dieci! […] Il suo “preferito” era un altro Comandamento, sempre scritto da Dio, che sta sempre nella Bibbia, però un po’ nascosto nel libro, tra le pagine. Però già alcuni se n’erano accorti ch’era bello, no? e Gesù è andato a prenderlo, l’ha tirato fuori e ha detto: “Questo è il mio Comandamento preferito: ama il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e ama il prossimo tuo come te stesso”. Sono due Comandamenti, ma son diventati uno solo: si chiama il comandamento dell’amore. E disse che questo è “il Comandamento”!
«Addirittura Dio preferisce»… Benigni Santo subito! Deve essergli apparso il Signore Dio per comunicargli questa Sua predilezione…
Qui non si tratta di classifiche o di preferenze! Come si è già visto viene chiesto a Gesù quale sia il Comandamento più importante e Cristo formula, per così dire, una sintesi che abbraccia tutti i Comandamenti, perché l’amore verso Dio e verso il prossimo libera dall’osservanza dei precetti, in quanto tutti li ossequia. Nessuno che ami veramente Dio si abbandona all’idolatria, manca di rispetto al Suo nome, si dimentica di dedicarGli un giorno; nessuno che ami il suo prossimo come se stesso manca di rispetto ai genitori e alle autorità, uccide, commette adulterio oppure offende d’impurità il proprio o l’altrui corpo, ruba, mente, invidia e brama ciò che appartiene agli altri.
La banalizzazione del comico saputello sminuisce questa grande verità, facendone oggetto di gusto e di graduatoria statistica o da competizione, nonché di pensiero “nascosto” nel testo sacro che Gesù va a scovare per elezione, quando Egli stesso afferma senza possibilità di equivoco: “Vi do un comandamento nuovo!” (Gv 13,34) e ne evidenzia la qualità di compendio dell’intero Decalogo: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22,40).
Disgraziatamente Benigni pone l’accento sul fatto che i due comandamenti unificati vengono denominati “il comandamento dell’amore”. E prima ancora di continuare possiamo immaginarci quale prolissa predica sull’amore e derivati stia per propinarci, con una piega ben diversa da quella predicata dal Messia…

Il prossimo è qualcuno che ci è stato imposto di amare e che fa di tutto per farci disobbedire!
Battuta deviante, che proprio mal si accorda con l’amore espresso dalle parole di Gesù morente: “Padre, perdona loro…” (Lu 23,34). Per di più non è coerente parlare di imposizione dopo aver decantato i Comandamenti come dono attraverso cui è stata elargita agli uomini la libertà…

Guardate, tutta la Bibbia, tutti i Dieci Comandamenti, tutti i libri sacri, sono un commento a questo comandamento: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.
Falso! Perché sia vero quello che SoTutto afferma è necessario non omettere la prima parte: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”.

Affrettiamoci ad amare! Noi amiamo sempre troppo poco e troppo tardi: affrettiamoci ad amare! Perché al tramonto della vita saremo giudicati sull’amore, perché non esiste amore sprecato, e perché non esiste un’emo-zione più grande di sentire quando siamo innamorati che la nostra vita dipende totalmente da un’altra persona, che non bastiamo a noi stessi, e perché tutte le cose, ma anche quelle inanimate, come le montagne, i mari, le strade, ma di più, di più… il cielo, il vento, di più… le stelle, di più, le città, i fiumi, le pietre, i palazzi, tutte queste cose che di per sé sono vuote, indifferenti, improvvisamente, quando le guardiamo, si caricano di significato umano, e ci affascinano, ci commuovono… Perché? Perché contengono un presentimento d’amore, anche le cose inanimate! Perché il fasciame di tutta la creazione è amore… E perché l’amore combacia con il significato di tutte le cose, la felicità, sì, la felicità!
Ero stato facile profeta! La predica sull’amore è prolissa e prende esattamente la piega sospettata, che andrà a sfociare in un altro concetto capace di sommuovere la platea: la felicità! Piega che quasi echeggia la fasulla esegesi del verso “Amor ch’a nullo amato amar perdona” delle serate dantesche: “quando siamo innamorati”! Ma che cosa c’entra l’essere innamorati con il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso?”.
Non parlarmi delle tue emozioni d’innamorato, Pontefice Roberto: parlami di quanto ami con i tuoi spettacoli lucrosi, imbonendo “il prossimo tuo” e intascando cifre spudorate alla faccia degl’imboniti! E se devi accennare all’innamoramento, parlane non come pericolosa dipendenza totale da un’altra persona, ma come presupposto di una consacrata unione per il perpetuarsi della vita. Non parlarmi di presentimento d’amore nelle strade, nei palazzi e nelle città, devastanti prodotti del mercanteggiare umano, più che divine espressioni della creazione; o del solito, scontato cielo, o delle stelle e del vento, generatori, nelle tue parole di fiacchi sentimentalismi, più che palpitanti segni di un abbraccio d’amore trascendente.
E non usare i Comandamenti come pretesto per cantare l’apoteosi della felicità, in una forma quasi trivialmente demagogica, che si fa beffe delle dilaganti sventure dell’uomo!

A proposito di felicità: cercatela, tutti i giorni, continuamente. Anzi, chiunque mi ascolti ora, si metta in cerca della felicità, ora, in questo momento stesso, perché è lì, ce l’avete, ce l’abbiamo, perché l’hanno data a tutti noi; ce l’hanno data in dono quando eravamo piccoli, ce l’hanno data in regalo, in dote, ed era un regalo così bello che l’abbiamo nascosto, come fanno i cani con l’osso, quando lo nascondono, e molti di noi l’hanno nascosto così bene che non si ricordano dove l’hanno messo, ma ce l’abbiamo, ce l’avete. Guardate in tutti i ripostigli, gli scaffali, gli scomparti della vostra anima, buttate tutto all’aria! I cassetti, i comodini che ci avete dentro: vedete che esce fuori! C’è la felicità. Provate a voltarvi di scatto, magari la pigliate di sorpresa, ma è lì. Dobbiamo pensarci sempre alla felicità, e anche se lei qualche volta si dimentica di noi, noi non ci dobbiamo mai dimenticare di lei, fino all’ultimo giorno della nostra vita.
È vuoto, falso, teso al consenso, se non al profitto materiale, ciarlare per il pubblico estasiato, annunciando il dono che da bambini sarebbe stato dato a ciascuno e che da taluni sarebbe stato nascosto come fa il cane con l’osso, magari dimenticando poi il nascondiglio! Sciocca e perfino insensata l’esortazione a cercare quel dono nei cassetti dell’anima, con metafore che nel contesto sanno di poeticismi patetici, di induzione alla facile commozione ed alla fede ingenua. Milioni di uomini, sulla terra, che quotidianamen-te vivono in condizioni estreme d’indigenza, muoiono di fame, sono afflitti dalle guerre e dalle persecuzioni, perdono i familiari più cari, fuggono dalle terre natali, sono colpiti da malattie mortali, in quali comodini potranno mai rovistare per vedere “uscire” la felicità che “è lì, ce l’avete, ce l’abbiamo”?… Fortunati loro se riusciranno ad afferrare qualche briciola di serenità!
Le cose vanno sinceramente proposte, non deformate, piegate ai propri intenti.
Si dica piuttosto all’uomo che può imparare a vivere nel migliore dei modi possibili, evitando l’aspirazione a mutare l’immodificabile, a pretendere l’impossibile; adeguando le proprie risorse a ciò che della realtà non si può cambiare, in modo mai passivo, se pure non incline a rabbioso accanimento; cercando in ogni circostanza di agire con forza d’animo; cogliendo, quando è possibile, i sorrisi della vita; reggendo con coraggio all’urto delle avversità. In ogni caso, sforzandosi sempre di comprendere, delle esperienze che l’esistenza gli riserva, il senso che più giova allo spirito (da una precedente pubblicazione dal titolo “La felicità secondo SoTutto”). Su questa incontrollata enfasi benignesca (vera e propria “fanfarata”) si legga pure il contributo di Francesco Mercadante. Infine, è manifesta la digressione fuori tema, per impegnare tempo e guadagnare ulteriore consenso.

E non dobbiamo avere paura nemmeno della morte. Guardate che è più rischioso nascere che morire, non bisogna aver paura di morire, ma di non cominciare mai a vivere davvero! Saltate dentro all’esistenza ora, qui, perché se non trovate niente ora, non troverete niente mai più: è qui l’eternità! Dobbiamo dire sì alla vita, dobbiamo dire un sì talmente pieno alla vita che sia capace di arginare tutti i no, perché alla fine di queste du’ serate insieme abbiamo capito che non sappiamo niente e che non ci si capisce niente…
I voli pindarici proseguono, affastellandosi a formare un’incoerente insalata, “sapiente” contorno affabulatorio, atto a stordire l’uditorio, a togliergli senso critico, a plagiarlo. Amore, felicità, morte, vita… Nascere è rischioso, ci dice l’esegeta… (magari sì, magari no…) morire meno: ma come può essere un rischio morire? Tanto vale accostare i due rischi per creare un effetto ciarlatanesco e poter dire che bisogna aver paura di “non cominciare mai a vivere”, per poter esortare a saltare dentro la vita, quasi con un senechiano protinus vive (di cui dubitiamo l’esegeta sappia qualcosa), un vivi subito, perché poi non ci sarà più tempo… E attraverso la girandola delle parole, tutti vengono inghiottiti e non si accorgono che il catechista sta per negare quanto ha detto in due serate di chiacchiere concitate: “è qui l’eternità”! Dunque a che pro rispettare il Decalogo, vivere onestamente secondo i precetti divini, amare Dio e il prossimo? Tutto finisce con la morte, non c’è immortalità, non c’è eternità! Il vertice della coerenza. La quale si esprime anche nella negazione di tutte le spiegazioni date: due serate in cui abbiamo capito che non ci si capisce niente!

…e si capisce solo che c’è un gran mistero e che bisogna prenderlo com’è e lasciarlo stare, e che la cosa che fa più impressione al mondo è la vita che va avanti e non si capisce come faccia… ma come fa? ma come fa a resistere? ma come fa a durare così? È un altro mistero e nessuno l’ha mai capito, perché la vita è molto più di quello che possiamo capire noi: per questo resiste! Se la vita fosse solo quello che capiamo noi sarebbe finita da tanto, tanto tempo, e noi lo sentiamo, lo sentiamo che da un momento all’altro ci potrebbe capitare qualcosa di infinito! E allora a ognuno di noi non rimane che una cosa da fare: inchinarsi. Ricordarsi di fare un inchino, ogni tanto, al mondo, piegarsi, inginocchiarsi davanti all’esistenza, come ha fatto un grande poeta che si chiama Whitman. Ed è con le sue parole che vi vorrei salutare. Respirare l’aria, parlare, passeggiare, essere questo incredibile Dio che io sono! O meraviglia delle cose, anche delle più piccole particelle! O spiritualità delle cose! Io canto il sole all’alba e nel meriggio, e come ora nel tramonto: tremo commosso della bellezza e della saggezza della terra e di tutte le cose che crescono sulla terra. E credo che una foglia d’erba non sia meno di un giorno di lavoro delle stelle, e dico che la Natura è eterna, la gloria è eterna. Lodo con voce inebriata perché non vedo un’imperfezione nell’universo, non vedo una causa o un risultato che, alla fine, sia male. E alla domanda, alla domanda che ricorre: “Che cosa c’è di buono in tutto questo?” la risposta è: “Che tu sei qui, che esiste la vita, che tu sei vivo, che il potente spettacolo continua e tu puoi contribuire con un tuo verso” [Walt Whitman (1819-1892)].

………………….APPLAUSI INTERMINABILI………………….

Il guazzabuglio di temi e di logica prosegue ininterrotto e sconcertante, una spirale di confuse associazioni libere, che sfocia nel congedo affidato ai versi di Walt Whitman, pervasi di tangibile panteismo, dove il poeta si avverte come un incredibile Dio e Dio è l’universo stesso, “Natura eterna”, perfezione assoluta, di fronte a cui inginocchiarsi adoranti e idolàtri. Quanto di più lontano, evidentemente, dalla concezione del creato biblico e dal Decalogo, indipendentemente dalla validità del testo poetico.

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PER CONCLUDERE

Senza dilungarmi a citare la marea dei frettolosi ed acritici commenti entusiastici dei cervelli neutralizzati dall’artiglieria di Benigni o a riportare a mio vantaggio i non molti pareri sfavorevoli alla sceneggiata televisiva sul Decalogo, cito in sintesi quattro posizioni: contro moderata, pro interessata, divinizzante, equidistante, e inizio dall’autorevole pensiero di Padre Edoardo Scognamiglio, teologo e filosofo che insegna Teologia dogmatica presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (Napoli) e Dialogo interreligioso e Introduzione all’Islam presso la Pontificia Università Urbaniana (curriculum): “Sicuramente è stata accattivante e per certi aspetti simpatica e interessante, ma ben lontana dal significato biblico e teologico che tale Rivelazione riveste per i nostri fratelli maggiori, gli ebrei, e per noi cristiani. Si è trattato di una lettura libera, sciolta da vincoli, al di sopra e al di fuori di una concezione biblica storico-critica e filologica del Pentateuco e del Nuovo Testamento”. Per contro si rinviene l’approvazione abbagliata di molti religiosi: “ Il Sir, l’agenzia dei vescovi italiani, parla di un «Benigni in punta di piedi» che ha dimostrato «come si possa fare spettacolo vero senza scadere nella ricerca di consensi costi quel che costi, facendo leva solo sulla propria arte e sulla fedeltà a contenuti veri dopo tremila e passa anni». Per il severo Famiglia Cristiana si è trattato (riferendosi alla serata del 15) di «quasi due ore di lettura intensa e senza digressioni del Decalogo biblico, mantenendo sempre viva l’attenzione del pubblico e senza mai cadere nella banalità. Una grande prova del comico toscano» (fonte). C’è poi la delirante estasi divinizzante e divinatoria di Sandro Addario: Grande comunicatore e catturatore di consensi, competenza su temi di spessore (letteratura, politica e ora religione). Da sempre vicino alla sinistra che conta, ora può contare anche sull’apprezzamento della Chiesa e strizzare l’occhio ai moderati. Sembra quasi delinearsi un identikit per un possibile prossimo Presidente della Repubblica. Chissà se Renzi non ci abbia già pensato. Del resto la cosa non è nuova: ne parlò perfino Eugenio Scalfari nel 2012, sponsorizzandolo, e da tempo esiste una bacheca di Facebook dal titolo «Vogliamo tutti Roberto Benigni Presidente della Repubblica». Infine c’è l’atteggiamento di chi stima i risvolti economici e “culturalpresunti”, e salva Benigni in quanto voce di se stesso: “Molti potranno dire (giustamente): “Ma Benigni dice questo o quello sulla dottrina” ed è certamente vero, ma resta un fatto: Roberto Benigni non parla a nome della Chiesa, né di nessuna chiesa. Ha certamente studiato e tratto delle personali considerazioni sui Dieci Comandamenti, su Dio e sulla Grazia, ma restano considerazioni personali all’interno di uno spettacolo televisivo di cui ci interessa – per così dire – più l’aspetto “comunicativo”, ovvero che si parli di Dio, in prima serata, senza dire delle banalità e che – sorpresa – ad ascoltarlo ci siano milioni di persone (superando se stesso, ieri 38,32% di share e oltre 10 milioni di spettatori, uno in più della prima puntata). È questo il merito (vero) che riconosciamo a Benigni, non altro… (Lucandrea Massaro).

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Per quanto mi riguarda le critiche contro di me le conosco ormai tutte, inutile parlarne: sono un incorreggibile ignorante invidioso, incapace di riconoscere e di apprezzare il vanto d’Italia nel mondo. Per quel che concerne le giustificazioni a favore di Benigni sono sempre le stesse, sono in serie, escono dalla fabbrica dell’italica stupidità (alla quale si sforzano, senza alcuna possibilità di successo, di far appartenere anche me…):
1. “Ma Benigni è un comico!”: faccia il comico, allora, e non lezioni di storia sull’Inno di Mameli, sulla Costituzione, sulla Divina Commedia, sulla Bibbia, sempre condite con un moralismo che la sua spiccata tendenza alla trivialità non potrebbe e non dovrebbe proprio permettersi, e sempre a suon di qualche centinaio di Euro al secondo!
2. “Ma Benigni fa guadagnare milioni alla Rai con la pubblicità”: non è sempre così! I dati dimostrano che in certi casi l’auditel è stato un fallimento. Per di più Benigni pretende sempre, per contratto, di non essere interrotto dalla pubblicità; è in ogni caso scandaloso pagare tanto chi vale oggettivamente poco e magari offrire duecento volte meno a chi vale molto, ma molto di più (penso ad Ennio Morricone, ad esempio, che dignitosamente ha rifiutato la proposta della Rai di esibirsi in concerto per 10.000 Euro, cifra che a Benigni viene corrisposta ogni 40 secondi di spettacolo).
3. “Ma Benigni è un genio!”: genio di che? genio degli affari, probabilmente, visto che è l’uomo di spettacolo più ricco d’Italia! Per il resto ho dimostrato ampiamente le sue lacune di preparazione generale e le incompetenze specifiche. Anche sul piano professionale, come comico, come regista, perfino come attore (capace d’impersonare solo se stesso) il toscano è assai discutibile.
4. “Ma Benigni rende popolare e accessibile a tutti la cultura”: per rendere accessibile “a tutti” la cultura bisogna prima di tutto possederla e Benigni, come ho dimostrato ampiamente in ogni occasione, ne ha piuttosto poca, sicché può solo divulgare la sua incompetenza e farla ingannevolmente apparire cólta. Le operazioni del giullaretto di Misericordia sono soprattutto commerciali, non divulgative, né tanto meno filantropiche, e servono alle sue tasche e all’immagine della Rai, azienda alla quale interessa l’indice di ascolto ben più di ogni altro aspetto. Inoltre la modalità televisiva, soprattutto se occasionale, non potrà mai essere strumento valido di acquisizione e di crescita culturale. La gente deve imparare che l’apprendimento che genera il sapere richiede altri ritmi, altra prassi, e non s’improvvisa: è frutto di fatica e di costanza, non l’esito di qualche sgangherato spettacolo.
5. “L’importante è che di certi argomenti si parli, e Benigni lo fa”: se bastasse parlare! È il come che conta, e non in termini di intrattenimento, non raramente sciocco e ripetitivo, ma di sostanza. I fiumi di parole di Benigni travolgono come un’inondazione e proprio come un’inondazione sono dannosi: acqua turbinosa, fangosa e incontrollata. Ho pubblicato saggi più o meno lunghi su tutte le “grandi esibizioni culturali” del “fumoso toscano”, nella veste di prodotto editoriale cartaceo e in formato elettronico nei siti che curo (www.odanteobenigni.it e www.dettaglitv.com), saggi sempre accuratamente ricchi di documenti comprovanti le tesi esposte, saggi a disposizione di chi abbia voglia di leggere e di capire. Non ritengo dunque di dover aggiungere alcunché.
6. Ma Benigni ha avuto un gran numero di riconoscimenti: certo, Oscar, candidatura al Nobel, Lauree honoris causā, inviti in Senato, in Parlamento, perfino in quello europeo, in Vaticano… La schiera degli annebbiati e degli “interessati” aumenta! Oscar “comprato” dalla Miramax (link); la candidatura al Nobel, una vera corbelleria, a partire dal nome del promotore, Franco Corbelli; le demenziali Lauree onorifiche [nove! Arti della comunicazione (onorificenza conferita del resto anche a Vasco Rossi ed a Valentino Rossi), Filologia moderna (Firenze 2007 e Cosenza 2011), Lettere (ben tre Atenei hanno conferito questa laurea al “massimo letterato vivente”: Bologna nel 2002, Lovanio nel 2007, Malta nel 2008; nel 2012 la Grecia non ha voluto essere da meno, con una Laurea in Lingua Italiana), Psicologia, Filosofia, infine Legge (fonte Wikipedia) nel 2015! Siamo davvero alla follia pura, al paradosso degli Atenei che sviliscono i titoli per reclamizzarli, perché in certe assegnazioni non c’è altra giustificazione che quella della pubblicità che le Università ne ricavano]; per quanto riguarda gl’inviti nei massimi consessi politici e religiosi non possiamo pensare che alla ricerca di coscienzeconsenso popolare, di propaganda, oppure all’offuscamento delle coscienze o, ad essere proprio buoni come santi, a un’epidemica distrazione.

EPILOGO

Per comprendere la “buona fede” di Sua Santità Benigni, possiamo fare uso dele sue stesse parole, rivelatrici della sostanza dei suoi show. Intervistato da “Il Corriere della sera” così smaschera la sostanza del suo pathos nelle varie serate “culturali” della TV:

C’è chi ha insinuato che la lettura televisiva dell’ultimo canto è il segno della sua conversione. Lei che ne dice?
«Mi diverte molto. È una bella idea e un grande omaggio; se qualcuno ha visto che era in atto una conversione, vuol dire che sono stato convincente. Per quell’ora, mentre leggevo il Paradiso, davvero mi sono convertito: non si può fare Dante senza credere e io credo davvero che Dante abbia visto Dio. Non si può parlare di Dio ma solo a Dio. Poi non è che se uno va in chiesa una volta diventa cristiano, così come non è che se uno va in garage diventa una macchina… Però ci si dimentica che sono un attore e perché sia credibile, la conversione deve avvenire. Quindi sono molto contento. È proprio una bella idea».
https://groups.google.com/forum/#!topic/it.cultura.cattolica/xCqD_nctIL4

In sostanza Benigni recita, e l’attore non deve fare altro che “mentire” la propria parte a se stesso e porgerla quanto più veritiera possibile agli spettatori, per apparire altro da sé pur sempre restando quello che è.
Chi va oltre la scena, dice solo sciocchezze.

Non abbiamo quindi discusso della recitazione, ma, dal momento che questa implicava precise conoscenze, abbiamo messo in evidenza una lapalissiana ignoranza della materia scelta per lo spettacolo, una clamorosa deviazione dal pensiero ortodosso e, non ultimo grave difetto, lo scopo incontestabile del lucro oltre ogni intento pedagogico.
Il povero ermeneuta toscano non è quindi anche un novello Padre della Chiesa – come non è mai stato un dantista, uno storico, un costituzionalista – , ma, ancora una volta, un abile creatore di prodotti di mercato per l’industria dello spettacolo.

Chiunque voglia apprendere seriamente le discipline che il comico “tratta” alla TV, nei teatri, sulle piazze, si rivolga a libri seri o a studiosi attendibili, e la smetta di idolatrare Dio Roberto, peccando senza possibilità di indulgenza contro il Primo Comandamento.


[1] http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/14/benigni-torna-in-tv-i-comandamenti-di-san-roberto/1154558/
[2] http://www.rivistaaic.it/la-corte-di-cassazione-ignora-la-storia-disapplica-la-legge-e-qualifica-la-rai-ente-pubblico.html
[3] Pare compreso uno spettacolo in seconda serata sulla solita Commedia (comunque 4 milioni diviso 5 ore, diviso 60 minuti: circa 13.000 Euro al minuto!).
[4] “A ognuno secondo i suoi bisogni, nella fase più elevata della società comunista” (K. Marx – F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969, pag. 962); la citazione è per denunciare l’incoerenza del “sedicente proletario” Benigni!
[5] L’azione di tentare Dio con parole o atti, il sacrilegio, la simonia sono peccati di irreligione proibiti dal primo comandamento (CCC, Parte III, Sezione II, Cap. I, 2139).
[6] Rai Uno, 29 Novembre 2007, incipit stucchevole e rivoltante per il Quinto Canto dell’Inferno.
[7] Amore dunque per il solo denaro, che il comico sa mascherare con mille blandizie: http://notizie.tiscali.it/feeds/11/08/01/t_02_20110801_000080.html?ultimora
[8] Gli errori non sono mie sviste, ma fanno parte del cólto corredo benignesco (mi verrebbe da dire benignota…).
[9] “Benigni dice che per apprezzare il suo spettacolo occorre comportarsi come se dio esista. Il paragone che segue chiarisce tutto: “Quando andate al cinema a vedere l’Uomo Ragno, in quel momento ci credete all’Uomo Ragno, no? Credete all’Uomo Ragno e non volete credere a dio?!” In altre parole, l’invito del menestrello è a mettere in atto una sana suspension of disbelief [sospensione dell’incredulità]: un atteggiamento *assolutamente necessario* ogni qual volta ci si accosta a un’opera di fiction, sia essa un film o un romanzo o un videogioco. Detto in altri termini: lo sappiamo tutti che dio non esiste, come non esistono gli elfi; ma se mentre leggo Tolkien do per assodato che nella realtà immaginata dall’autore gli elfi esistono, mentre leggo la Bibbia devo dare per assodato che nella realtà narrata dagli autori dio esiste” (Mosè Viero:
http://paroladimose.it/costume/benigni-lesegeta-a-induzione/).
[11] Naturalmente sono io che non capisco la genialità del pensiero benignesco!
[12] “Allora si cominciò a invocare il nome del Signore”. Per il significato del tetragramma consulta http://digilander.libero.it/domingo7/TETRAGRAMMA.htm#_ftn2
[13] “Si udì una voce dal cielo che disse a Mosè: “Mosè, è la fine, il tempo della tua morte è venuto”. Mosè disse a Dio: “Ti supplico, non mi abbandonare nelle mani dell’angelo della morte”. Ma Dio scese dall’alto dei cieli per prendere l’anima di Mosè e gli disse: “Mosè, chiudi gli occhi” e Mosè li chiuse; poi disse: “Posa le mani sul petto” e Mosè così fece; poi disse: “Adesso accosta i piedi” e Mosè li accostò. Allora Dio chiamò l’anima di Mosè dicendole: “Figlia mia, ho fissato un tempo di 120 anni durante il quale tu abitassi nel corpo di Mosè. Ora è giunta la tua fine; parti, non tardare”. E l’anima: “Re del mondo, io amo il corpo puro e santo di Mosè e non voglio lasciarlo”. Allora Dio baciò Mosè e prese la sua anima con un bacio della sua bocca, poi Dio pianse per la morte di Mosè”.
http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Esempi/2000-2001/03-E_Dio_pianse_la_morte_di_Mose.html
[14] “Radicale mutamento nel modo di pensare, di giudicare, di sentire, spec. in seguito all’adesione a una nuova fede religiosa” (Devoto). Così la vedono (ma vedono?…) don Maro http://www.formiche.net/2014/12/17/benigni-poeta-del-decalogo/, e Caverzan
http://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/ascolti-quasi-biblici-vero-miracolo-benigni-che-parla-dio-1076232.html. Del resto gli abbagli sono all’ordine del giorno quando si ha a che fare con le parlantine ciarlatanesche…
[15] Non so se l’abbiate… Esiste il congiuntivo, coltissimo oratore!
[16] Rispettosa considerazione della divinità!
[17] La solita, insopportabile maniera di presentare le cose, concludendo con una frase ad effetto. Una serie di banalità, comunque!
[18] http://www.studibiblici.eu/Monoteismo%20evoluzione%20o%20rivelazione.htm
[19] Siro Lombardini, Lettere ai giovani, Roma, Rubbettino, 2005, p. 81.
[20] Che catechesi!
[21] http://destatevi.org/dio-e-geloso-egli-si-chiama-il-geloso/ (con verifica e correzioni).
[22] http://www.cristianocattolico.it/catechesi/psicologia/la-gelosia-riflessione-biblica-ed-indicazioni-pastorali.html
[23] Adorazione tributata a oggetti o a immagini a cui si attribuiscano caratteri e poteri divini (Devoto).
[24] Parole dal significato oscuro.
[25] Leone XIII, nell’Enciclica Libertas praestantissimum (20/06/1888) asserisce che la legge morale è “iscritta e scolpita nell’anima di tutti gli uomini”; pensiero da cui si evince che i Comandamenti divini sono “principi naturali”, incisi nell’anima, patrimonio dell’uomo di qualunque fede e di qualunque cultura. Sulla legge naturale e il punto di vista degli ultimi pontefici vedi http://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=3457
[26] «Il terrorismo in tutte le sue manifestazioni, e l’assassinio ‘in nome di Dio’ non possono mai essere giustificati»(Comitato Internazionale Cattolico-Ebraico, Dichiarazione congiunta, Buenos Aires 2004).
[27] Un’altra fonte (Repubblica.it) riporta un dato inferiore: “L’Encyclopedia of Wars di Charles Phillips e Alan Axelrod prende in esame 1800 conflitti nella storia: meno del 10 per cento di essi è stato causato da motivi religiosi”.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/03/30/perche-dio-e-tornato-sulla-scena43.html
[28] http://www.campariedemaistre.com/2014/12/povero-benigni-si-e-perso-sul-piu-bello.html
[29] “Più di trent’anni fa Roberto Benigni fu condannato (e poi assolto in appello) per bestemmia e turpiloquio, durante la festa nazionale dell’Unità di Reggio Emilia nel settembre 1983” http://www.firenzepost.it/2014/12/16/benigni-dal-wojtylaccio-ai-dieci-comandamenti-e-la-rai-gli-paga-2-milioni/;
http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/divino-benigni-show-dell-attore-molto-apprezzato-anche-piani-91001.htm; http://www.ilrestodelcarlino.it/reggio_emilia/cronaca/2012/08/27/763406-benigni-festa-pd.shtml Vale la pena ricordare anche le tre bestemmie pronunciate in pubblico in occasione del conferimento, a Firenze, della Laurea honoris causā in Filologia Moderna, il 28 giugno 2007
(http://ricerca.gelocal.it/altoadige/archivio/altoadige/2007/06/29/A1TPO_A1T88.html)
[30] Cfr. la sezione dedicata al Comandamento specifico.
[31] Non mi riesce di risalire alla fonte del passo citato, almeno nella forma in cui Benigni lo propone. Mi aspettavo che si trattasse della Bibbia Diodati, la traduzione per eccellenza dei protestanti italiani, essendo a conoscenza del fatto che il comico si è valso della consulenza del pastore e teologo valdese Paolo Ricca, citato dall’attore stesso nella prima serata e prodigo di apprezzamenti (come poteva essere diversamente?) nei confronti della performance del suo “allievo”, ma come si vedrà più avanti, le cose non stanno così.
http://riforma.it/it/articolo/2014/12/17/benigni-ha-restituito-i-comandamenti-alla-loro-evangelicita
[32] Benigni pone l’accento sulla parola “terra” come sinonimo di “questo mondo”, senza tener conto che la stessa parola appare riferita alla “terra promessa” (Quando entrerete nel paese che io vi do… Lev 25, 2). Del resto la versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana (Bibbia CEI) riporta la traduzione “paese”, non terra (come la Diodati, cui si accennava).
[33] A. T. Patrick, La formation littéraire et l’origine historique du Décalogue, in “Eph. Théol. Lov.” 40 (1964), 251.
[34] https://www.facebook.com/fratiassisi/posts/656314997736656
[35] Purtroppo le fonti non nominano il Faraone (o i Faraoni) nel cui regno si svolsero gli eventi narrati nell’Esodo. Alcuni studiosi, indotti dal riferimento in 1 Re 6,1, che parlerà di 480 anni intercorrenti fra l’Esodo ed il tempio di Salomone, sostengono si tratti del XV sec. A.C. Essendo Salomone salito al trono nell’anno 960 a.C. l’Esodo sarebbe avvenuto verso il 1440 a.C. Tuttavia, la notizia biblica che gli Ebrei furono addetti alle costruzioni faraoniche nell’area del Delta del Nilo, contrasta con questa datazione. Infatti, tali opere edilizie furono cospicue nella diciannovesima dinastia, non nella diciottesima (che fiorì nel XV sec.) Dal momento che i reperti archeologici indicano piuttosto una data del XIII sec., sarà forse più sicuro considerare i 480 anni di 1 Re, come una cifra tonda indicante dodici generazioni (12×40). Da Es 1,11 (gli Israeliti costruiscono le città-magazzino per Faraone), giungiamo a considerare il regno di Seti I (1309-1290 a.C.) come il periodo dell’oppressione, continuata dal suo successore Ramses II (1290-1224 a.C.). L’effettivo esodo dall’Egitto avvenne poco dopo la salita al trono di quest’ultimo. Dopo i 40 anni (ancora una generazione) di peregrinazione nel deserto, incominciò la conquista della Palestina (circa 1250 a.C.). La distruzione di numerose città palestinesi (per es.: Hazor, Lakish e Tell Beit Mirsim) nella seconda metà del XIII sec. – fatto attestato dalla moderna archeologia scientifica – conferma questa datazione. Pertanto, si ritiene il 1280 a.C. la data approssimativa dell’Esodo dall’Egitto. http://www.corsobiblico.it/esodo4.htm
[36] Come si concilia con questo versetto l’affermazione fatta in precedenza da Benigni: “Dio regala loro i dieci Comandamenti, regala loro la libertà”?
[37] Pura e semplice “legge del taglione”!
[38] Su Caino e Abele interessante la “lettura ‘laica’ di Genesi 4,1-16” di Giuseppe Barbaglio, per quanto non in tema con la critica presente.
[39] “Gesù Bambino. Il mio pensiero va a tutti i bambini oggi uccisi e maltrattati, sia a quelli che lo sono prima di vedere la luce, privati dell’amore generoso dei loro genitori e seppelliti nell’egoismo di una cultura che non ama la vita…”.
[40] Tendenza all’adeguazione o alla conciliazione con idee ed esigenze proprie delle fasi più avanzate del progresso, spec. sul piano religioso, sociale e culturale │ Modernismo cattolico, movimento di rinnovamento del cattolicesimo, sorto alla fine del sec. XIX, che mirava ad accordare i dati centrali della rivelazione neotestamentaria con le correnti filosofiche (m. religioso) e sociali (m. sociale o politico) del momento; fu condannato come eretico da papa Pio X nel 1907 (Devoto).
[41] Dal lat. tardo fornicare, derivato di fornix -ĭcis ‘arco, volta’, passato poi a significare ‘dimora di donne pubbliche, bordello’ (Devoto).
[42] “La Chiesa cattolica obsexa fino alla cattiveria, trasforma tutto ciò che riguarda la sessualità umana in qualcosa di orribile” (link).
[43] “Va sfatato un luogo comune, che ricorre talora in pubblicazioni ostili alla Chiesa e al suo insegnamento: l’idea che la Chiesa abbia manipolato nel corso dei secoli il Decalogo (lo stesso Benigni parla di “falsificazione” a proposito del sesto comandamento, trasformato, come ci ricorda, da “Non commettere adulterio” in “Non commettere atti impuri”). In realtà, la “versione” dei Comandamenti è sempre quella riportata nella Bibbia (e precisamente nei libri dell’Esodo e del Deuteronomio), anche se dal XV secolo nella Chiesa è invalso l’uso di elaborare delle formule che, in forma sintetica e di facile memorizzazione, esprimessero i precetti del Decalogo, ovviamente riletti alla luce del messaggio cristiano. Non si tratta di “altri” comandamenti, ma di semplici formule catechistiche per l’iniziazione cristiana, la cui funzione è semplicemente quella di esporre ai fedeli l’insegnamento morale del Decalogo come “attualizzato” alla luce del Vangelo. Da questo punto di vista, la formula catechistica tradizionale “Non commettere atti impuri” (o “Non fornicare”, che fa riferimento agli atti sessuali tra un uomo e una donna liberi, non uniti in matrimonio) vale a mettere in evidenza che l’esigenza morale – di difesa dell’amore e in particolare dell’amore coniugale – sottesa al sesto comandamento non si esaurisce nell’adulterio, essendo diverse le forme di offesa all’amore realizzabili dall’essere umano contro il disegno voluto dal Creatore. È lo stesso insegnamento di Gesù a muoversi in questa direzione, quando, nel discorso della montagna (cfr. in particolare Mt 5, 27-31), radicalizzando le istanze etiche sottese al sesto comandamento contro una lettura formalistica che si fermava alla “lettera” del precetto, ricomprende – nella comune condanna – il desiderio carnale verso una donna sposata (quale adulterio del cuore) e il divorzio (quale adulterio legale). Ma proprio perché l’amore coniugale, che la Legge di Dio intende difendere, è amore che comporta l’esercizio della sessualità, la Tradizione della Chiesa ha considerato il sesto comandamento come inglobante l’insieme della sessualità umana” (Bartolo Salone, La Perfetta Letizia, 22/12/14).
[44] Un’azione può essere peccaminosa, non una donna, che sarà se mai peccatrice!
[45] “Quella di aver “modificato la Bibbia” è una precisa accusa alla Chiesa della comunità evangelica e valdese e non è certo un caso che tra i “consiglieri” di Benigni vi sia stato il pastore valdese Paolo Ricca” (UCCR, 17/12/14).
[46] “In pratica, secondo Benigni, la Bibbia tollererebbe non solo la masturbazione ma un po’ tutto quanto ruoti attorno al sesso, indipendentemente dall’essere sposati o meno, a patto non si commetta adulterio” (Marcia Roma Medjugorje).
[47] L’espressione da anglomani class action è nata nel 1997 (Devoto).
[48] Leggevo parole identiche in Oggi ho imparato a leggere, di Giacomo Marchi (pag. 34), ma a proposito del perdono: “Padre Daniel, alla Messa della domenica, diceva sempre che il perdono è la cosa che più ci avvicina e ci accomuna a Dio”. Più plausibile, anche perché non vedo come la sessualità possa accomunarci a Dio se non, forzatamente come fa Benigni, attraverso la sua funzione “creatrice” (che va più propriamente qualificata come riproduttiva, dal momento che creare vuol dire produrre dal nulla).
[49] La citazione corretta è: “L’universo intero non vale il giorno in cui Israele ebbe il Cantico dei Cantici” (Rabbino del II secolo d. C.).
Benigni sembra preannunciare la performance sanremese del 2020, dove l’ignoranza si è ancora una volta travestita da cultura, per foraggiare le pecore che “lo ‘mperché non sanno” e… le tasche dell’imbonitore toscano che, per quanto svalutato, vi ha infilato almeno 1000 Euro al minuto! (Ricordo che in occasione dell’ormai lontana serata del V Canto dell’Inferno la Rai ebbe il coraggio di elargire all’improvvisato ed indecoroso esegeta più di 15.500 Euro al minuto…).
Risultato? l’interpretazione di una versione, non si sa quanto autentica, precedente a quella del testo biblico, del Cantico dei Cantici, diventa occasione per ridurre l’amore a semplice uso della genitalità e del corpo, ignorandone l’alto significato ideale.
«Centinaia di preti di campagna, pagati mille euro al mese, ci spiegano da 2mila anni che l’amore non equivale a “fare l’amore”. Le due cose non combaciano perché non si può scambiare grossolanamente l’amore con una delle sue espressioni, neanche la più importante». Non so proprio come il Cardinale Ravasi, citato da Benigni tra le fonti della propria “lezione magistrale”, potrà mai vantare l’esito sanremese della sua consulenza…
(http://www.affaritaliani.it/…/ascolti-tv-sanremo-2020-ricco…).
N.B. Questa nota è posteriore alla stesura del presente comtributo.
[50] Coniato dal nome della moneta comune dell’Unione europea e dal latino vorāre, divorare: che si nutre di denaro. [50 bis] Non concordiamo con la sintassi sballata del Nobel per la Letteratura… Al fine di comprendere il perché, decliniamo-coniughiamo nelle prime tre persone singolari il periodo “mettersi in condizione di non poter seguire”, escludendo il complemento oggetto enclitico. 1a persona: mi metto in condizione di non poter seguire”; 2a persona: ti metti in condizione di non poter seguire; 3a persona: si mette in condizione di non poter seguire. In tutti e tre i casi la proposizione consecutiva implicita, in forma attiva, è strettamente legata al soggetto della principale: io sono in condizione di, tu sei in condizione di, egli è in condizione di non poter seguire… Ne risulta che Dario Fo dichiara che Benigni si mette in condizione di non poter seguire LO (quello, lui… chi?). L’errore grave sta nel fatto che la consecutiva doveva essere espressa in forma passiva, per cui Fo avrebbe dovuto affermare: Mi ha sorpreso la facilità con cui Benigni si mette nelle condizioni di non poter più essere seguito. Tutto qui. All’anima di Stoccolma! Del resto in tante altre circostanze l’uso di un eloquio approssimativo e un’incompetenza “sorprendente” tradiscono il drammaturgo, attore, regista, scrittore, autore, illustratore, pittore, scenografo, attivista, comico e Nobel italiano. Un pietoso fiore alla memoria…
[51] Per quanto Benigni possa alludere in maniera goffa al parallelismo sposo-sposa Jahvè-Israele quale si può ben rilevare in Osea [che rappresenta il popolo d’Israele come “sposa infedele” per essersi dato al culto dei falsi dei del paganesimo cananeo (1 Re 16, 30-35; 18, 16-24; 2 Re 10, 18-21; 17, 13-16)], servendosi del tetragramma YHWH “Io sono colui che sono” (Es 3,14) in modo arbitrario, come espressione della fedeltà dello sposo-Dio (“io ci sono, io ci sarò”), laddove esso vuole soprattutto filosoficamente e teologicamente porre l’essere divino come “essenza e necessità di natura” (La Sacra Bibbia, Casa Editrice Adriano Salani, 1961, p. 115).
[52] “Le gabelle non sono bellissime, servono alla casta ed ai suoi leccapiedi (non di rado per pagare cachet insultanti ad artisti organici), penalizzano i meno abbienti, distruggono il tessuto produttivo, creano povertà e miseria” (Leonardo Facco).
[53] Sul significato della parabola evangelica della vigna e della giusta mercede cfr. Peppino Accroglianò, Cristianesimo e questione sociale, Edizioni Romano, p. 33.
[54] “La menzogna è prima di tutto una mancanza di responsabilità verso se stessi, poiché distrugge quell’identità costitutiva di uomo interiore e uomo esteriore, in cui consiste l’autorelazione etica” (Kant; la citazione è tratta da R. Spaemann, La responsabilità personale ed il suo fondamento, in AA.VV., Etica teleologica o etica deontologica, CRIS, 49/50, Roma 1983, pp. 19-20).
[55] R. Spaemann, La responsabilità personale ed il suo fondamento, in AA.VV., Etica teleologica o etica deontologica, CRIS, 49/50, Roma 1983.
[56] A. Millán-Puelles, El interés por la verdad, Rialp, Madrid 1997.
[57] Dizionario di pedagogia e di scienze dell’educazione, Bologna, Zanichelli, 1996.
[58] Nella filosofia scolastica, la facoltà per cui l’uomo conosce immediatamente i principi universali del bene e del male (Devoto).

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