A proposito di Relativismo

A PROPOSITO DI RELATIVISMO

La legittima pluralità di posizioni ha ceduto il posto a un indifferenziato pluralismo,
fondato sull’assunto che tutte le posizioni si equivalgono
(Karol Wojtyla, Fides et ratio, 88)

Quando la ragione non è ricondotta alle proprie profondità
dall’intuizione dell’essere o dall’esperienza del mondo interiore,
essa si trastulla nei sensi e tra i fantasmi,
senza nemmeno rendersi conto che ne è prigioniera
(Jacques Maritain, La filosofia morale, p. 16)

Per una società affetta da Infodemìa esistono solo verità soggettive
(Maurizio Muraca, TEDxAsiago)[1]

 

 

L’assoluto è una qualità intrinseca, che non è soggetta al giudizio, alla valutazione di chi esperisce: che l’acqua è acqua è un assoluto.
Il relativo è soggetto al giudizio, alla valutazione di chi esperisce: così qualcosa può piacere o non piacere, indipendentemente dalla sua intrinseca qualità di bello o brutto, giusto o iniquo.
Il relativismo (tutto è relativo) è l’assolutizzazione di un relativo che non può essere assunto come presupposto di ogni realtà.
La Realtà è assoluta (e coincide con il Principio Primo), le realtà sono relative, ristrette ai loro specifici ambiti.
L’essere può esprimere assolutezza, ma anche relatività.
Senza parte nominale e senza complementi è assoluto, riferibile soltanto – che esista o non esista – all’Essere, o Principio Primo, o Realtà (L’Essere metafisico, che perennemente È). Quando esprime temporaneità, l’essere non copulativo può avere solo il significato relativo alla durata limitata del vivere (in senso lato riferito anche al terzo regno), mai di “essere” (l’Essere metafisico non “vive” semplicemente, È, l’essere temporaneo non È, semplicemente vive); oppure indicare uno stato, una condizione, quando sia legato a un complemento (essere in, tra, a, trovarsi…). L’essere copulativo è invece “essere qualcosa” o “avere una qualità” (essere medico, essere grande).
L’esperienza non è riducibile a una categoria singola, non può pretendere di porre un assoluto senza i relativi e un relativo senza GLI assoluti.
Si può concepire UN Assoluto-assoluto accanto ad una molteplicità di assoluti-relativi (attinenti cioè a concetti specifici) e di relativi-assoluti (ovvero assolutamente relativi).
Il Principio Primo è l’Assoluto-assoluto.
Il bello, il brutto, il giusto, l’ingiusto e simili sono Assoluti-relativi (correlati ai rispettivi ambiti di bellezza, bruttezza, giustizia, ingiustizia et similia, frutto delle generalizzazioni scaturite dall’umana esperienza, codificatesi come archetipi nell’inconscio e geneticamente trasmesse).

     Va da sé che in contesti diversi la generalizzazione-sintesi può avere espressioni dissimili, anche contrastanti, che tuttavia confermano il senso della parola astratta. Perché la forma verbale unitaria (astrazione sintetica) compendia la natura generale, non le manifestazioni particolari che ne derivano. A un cannibale può sembrare giusto mangiare un proprio simile, a chi non è antropofago no. La parola giusto conserva tuttavia, nei due casi, lo stesso significato di adesione a determinate regole che determinano quanto è lecito o no, differenti nei vari “insiemi” che le stabiliscono e le adottano, e di applicazione delle medesime. Giusto deriva infatti dal latino ius iuris, che indica il “diritto”, il quale  altro non è, propriamente, che un «complesso di norme imposte con provvedimenti espressi o vigenti per consuetudine, sulle quali si fondano i rapporti tra i membri di una comunità o si definiscono quelli tra comunità estranee»[2]. Per estensione il concetto vale poi in altri ambiti, magari etici, estetici, religiosi, sportivi e via dicendo.
Ciò che piace e ciò che dispiace, ed affini, sono relativi-assoluti (o assolutamente relativi, se si preferisce), perché dipendenti dal giudizio del singolo che esperisce.
Non è plausibile che sia bello ciò che piace, perché il bello è un assoluto-relativo, il piacere una valutazione soggettiva di un’esperienza: il bello è un essere, il piacere un sembrare (una valutazione).
Gli assoluti-relativi hanno fondamento nell’esperienza e nel bagaglio genetico umano (archetipi), e più pregnanza acquistano in rapporto all’evoluzione individuale.
È opportuno chiarire che quando parlo del concetto di assoluto-relativo intendo l’insieme delle generalizzazioni, delle convenzioni, delle norme, dei criteri, assunti come riferimenti gnoseologici e valori necessari ed “universali” (non metafisici, ma ristretti ad un insieme umano – o comunque ad esso simile – a partire dal più generico, l’umanità)…
Senza l’assoluto-relativo si rende impossibile ogni forma di comunicazione ed ogni enunciato risulta privo di fondamento e di sostanza conoscitiva e comunicativa (gli aggettivi qualificativi sarebbero ad esempio inutilizzabili: il grado comparativo stesso dice della precarietà della qualità, valida in relazione al contesto; una formica è piccola se il termine di paragone è l’elefante, grande se confrontata con un granello di sabbia… ma se per convenzione il parametro di riferimento è l’uomo, piccolo, come assoluto-relativo, è riferibile alla formica e al granello di sabbia!).
¿Non si potrebbe parlare, in tal senso, di una sorta di Giudizio sintetico a priori? ovvero di una «Forma a priori del soggetto pensante» dipendente da attività trascendentale?[3] Per Kant il Giudizio sintetico a priori è costituito da un contenuto a posteriori che deriva dalle impressioni sensibili, e da un elemento a priori, la forma. Il contenuto di tale giudizio deriva perciò dall’esperienza, ma presenta contemporaneamente un carattere universale e necessario, visto che la sintesi dei dati emersi dall’esperienza avviene secondo il modo di funzionare della mente umana.
In relazione a questa interpretazione (quella che cioè si basa sul concetto di assoluto-relativo) si può dichiarare che:
-   l’assoluto (ab-solutus) è ciò che è in ogni particolare
-   l’assoluto è tutto non essendo niente
-   l’assoluto è idea, il particolare è concretezza
-   l’assoluto è potenza, il particolare è atto
-   l’assoluto è libertà, da qualsiasi vincolo, di qualsiasi incarnazione, il particolare è necessità, dunque prigionia: non può essere diverso da se stesso
-   l’assoluto è sintesi, il particolare essenza
-   l’assoluto è referente, il particolare è riferito, ascritto.

     Al “sapere di non sapere” socratico, il relativismo pare contrapporre l’ognuno SA quello che gli sembra, una sorta di negazione pirandelliana della conoscenza, se non fosse per il fatto che il “parere” soggettivo assurge ora a forma di conoscenza, moltiplicando gli assunti plausibili in una “Babele del vero” che impedisce qualunque forma di condiviso riferimento: come comunicheranno fra loro mille soggetti con mille differenti verità concernenti i medesimi “oggetti”?
Mi torna in mente un passo del mio manuale di filosofia, usato nel primo anno del triennio liceale, e che da quel libro riesumo:

«Il concetto è trama di rapporti fissi, permanenti, intelligibili tra dati sensoriali contingenti e mutevoli. I casi di ingiustizia o ingiustizia sono infiniti e infinitamente varii: ma che cosa è giustizia o ingiustizia, cioè il concetto di giustizia e ingiustizia che troviamo in tutti quei casi, è uno solo e sempre lo stesso. Il concetto è legge secondo la quale i dati devono essere organizzati: sempre eguale essa, per quanto varii siano questi: condizione essenziale perché da tutti a proposito di tutte le esperienze particolari una stessa cosa possa essere pensata nello stesso modo. Quello che io osservo per mezzo dei sensi (oggetti di percezione) o che io mi rappresento con l’immaginazione, è «particolare», «contingente», «soggettivo»: il concetto che penso è invece «universale» e «necessario». Vedo o mi rappresento quell’albero, un dato albero (particolare), che c’è, ma avrebbe potuto anche non essere, è così ma avrebbe potuto anche essere altrimenti (contingente), che io, miope, e in queste condizioni di luce e a questa distanza, percepisco in un certo modo, altri in condizioni diverse percepirà in modo diverso (soggettivo). Ma nel concetto io penso l’albero, nella sua universalità, ossia ciò che si deve trovare in tutti gli alberi; e quello che penso io quando ho il concetto di «albero», debbono egualmente pensarlo tutte le menti (necessità razionale) e appunto per questi caratteri del concetto noi possiamo intenderci tra noi [4]».

     Distinguiamo almeno il “parere” fondato su argomentazioni convincenti dal capriccioso “io la penso così, dunque è vero quello che penso io”! Anche se, per un relativismo categorico, nessuna argomentazione potrà mai essere più convincente di un’altra. Insomma: se per me l’acqua è vino, essa è vino e basta! E se per te invece è olio, sarà olio e basta! Figuriamoci in che modo riusciremo più a fare la spesa in un contesto “illuminato” da questo tipo di credenza…
La quale tuttavia si può mettere, A PIACERE, in discussione, ritornando a una visione meno cervellotica delle cose.
Diversamente, il Caos.

Amato Maria Bernabei


[1] «Per la scienza esiste la realtà oggettiva, che si raggiunge attraverso la ricerca critica, ma per una società affetta da infodemia esistono solo verità soggettive. Infodemia: che cosa significa questo termine questa nuova malattia della nostra società? È la quantità eccessiva di informazioni generata dalla tecnologia di Internet, che rendono difficile orientarsi su un certo argomento, perché è difficile capire quali sono le fonti affidabili […] Il potere non ama la scienza, perché la scienza è libera. È emblematico il caso di Galileo, ma quanti scienziati sono stati e sono tuttora perseguiti per le loro idee, perseguitati da parte dei regimi autoritari. La tecnologia viene invece asservita ad interessi economici, politici e ideologici» (Maurizio Muraca, Da cosa deriva e cosa implica la perdita di fiducia nella Scienza? TEDxAsiago, consultazione del 25 marzo 2024:

https://www.youtube.com/watch?v=LS7udUns54w)

[2] Alla voce Diritto in Giacomo Devoto, Giancarlo Oli, op. cit.
[3] Ludovico Geymonat, Storia della filosofia, Milano, Garzanti, vol. II, pp. 205-206). Per Kant il Giudizio.
[4] Eustachio Paolo Lamanna, Nuovo sommario di filosofia, Firenze, Le Monnier, 1971, p. 50.

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Dario Fo: La divulgazione dell’ignoranza 2

Questo post, da me pubblicato su Dettaglitv.it, risale al 27 febbraio 2011.
Non essendo tale sito più attivo,
propongo la trascrizione del documento nella mia area personale.

* * * * * * *

GR1, 29 Marzo 2006, ore 08,25 circa: «…io teorizzo per Sartorio quello che è un puer aeternum (Renato Miracco, critico d’arte e storico, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York dal 2007 al 2009, curatore della mostra in onore del pittore “dimenticato” Giulio Aristide Sartorio, intervistato da Gianfranco De Turris). Un fanciullo (puer) sarà mai di genere neutro (aeternum)? puer aeternus, caro spocchioso critico-storico-manager della cultura! o fa’ a meno di usare espressioni latine!

      La depressione, si sa, è il male dell’epoca, non soltanto come patologia dell’umore, ma anche come sindrome di una grave decadenza del valore, frutto del prevalere incondizionato delle logiche del profitto. In un contesto nel quale la vendita è il primo obiettivo, “la qualità” del prodotto non è più la sua intrinseca buona specie (prodotto di qualità, si dice, per indicare una buon articolo di mercato), ma la sua capacità di riscuotere consenso e di ottenere smercio. Da questo criterio, la malattia, e tutto il corredo dei suoi sintomi, che si cronicizzano e si aggravano. Il tenore generale della cultura si abbassa gradualmente, come il livello dei corsi d’acqua nei periodi di siccità. Non si fa più in tempo a registrare e ad enumerare tutti gli episodi di violazione della decenza da parte dei protagonisti dello scenario culturale italiano, e non solo. Paradossalmente l’enfasi pubblicitaria dà l’impressione che mai, come in questa epoca, i “grandi” siano stati tanti, e tutti degni dei più alti meriti e dei più ambiti riconoscimenti.

Questa volta soffermiamo l’attenzione su uno dei sommi “letterati” contemporanei: il Premio Nobel per la Letteratura 1997, Dario Fo. Tralasciamo il fatto che del Premio che gli è stato conferito non sono stati ritenuti degni autori “mostruosi” come Jorge Luis Borges, ed occupiamoci piuttosto dello spessore del nostro saltimbanco. Nel 2009, nel corso di una Puntata di Radio anch’io, il conduttore Giorgio Zanchini intervista Dario Fo e gli chiede di illustrare le ragioni della sua propensione al popolare, al giullaresco, i motivi della scelta di rappresentare sul palcoscenico la storia con la “esse minuscola”. La risposta del dotto Nobel è fra le sue cose più amaramente esilaranti…:

     Io volevo ricordare una cosa: che… Dante Alighieri, prima di iniziare la sua carriera e soprattutto incominciare a scrivere il… un’opera veramente mondiale, veramen… che non, che non ha quasi uguali, eeee… ha compiuto un’inchiesta, che è durata qualche anno, raccogliendo tutti i testi volgari, appunto, della poesia giullaresca, e l’ha chiamata DE VULGARIS ELOQUENTIAM!!! Ecco, hmm… poche co… Pochi sanno di questo particolare: naturalmente gli eruditi lo sanno, i cólti lo sanno, ma la gente e a scuola non lo si racconta mai[1]ascolta

     Stendiamo un velo sulla forma. Resta un assurdo, improponibile contenuto, del quale stiamo per occuparci: non prima di aver fatto notare, però, che il titolo dell’opera dantesca è DE VULGARI ELOQUENTIA, e che a braccio Dario Fo tradisce una precaria conoscenza della materia… Il “de” richiede l’ablativo nel complemento di argomento, non certo il nominativo o il genitivo (vulgari, dunque, non vulgaris), né tanto meno l’accusativo (eloquentia, non eloquentiam). Torniamo ai “concetti” che Fo elabora. Grave ci sembra il fraintendimento per il quale egli considera il De vulgari eloquentia come uno scritto a favore di una lingua di uso “popolare, marginale”, aggettivi di cui il conduttore Giorgio Zanchini si serve per qualificare l’orientamento “artistico” del Premio Nobel. Tanto è vero che, se può essere mossa una critica all’Alighieri, questa è di aver teorizzato in maniera esclusiva a favore del “volgare” letterario. Scrive il Sapegno: «L’errore di Dante nel De vulgari eloquentia è di aver sentito la coscienza dell’arte in modo così forte da sopravvalutarla, trascurando o deprimendo l’uso comune, parlato e non letterario, della lingua». E più oltre: «Il De vulgari eloquentia è l’affermazione teorica della nuova poesia italiana, poesia dotta ed aristocratica alla quale non possono salire se non quelli in cui sia ad un tempo incendio e scienza»; ed ancora: «Il significato profondo del De vulgari eloquentia è appunto in questa vigorosa consapevolezza dell’opera preminente degli scrittori nella formazione del linguaggio di un popolo…»[2].

     Per di più chi ascolti Dario Fo non conoscendo l’opera dell’Alighieri potrebbe immaginare che questa sia una raccolta di testi scritti in volgare, una sorta di corposa antologia, frutto di anni di meticolosa ricerca… Ma Dario Fo ha letto l’opera? Scrive Manzoni: «Al libro De Vulgari Eloquio è toccata una sorte, non nova nel suo genere, ma sempre curiosa e notabile; quella, cioè, d’esser citato da molti, e non letto quasi da nessuno…» [3].

     Il De vulgari eloquentia, scritto in Latino fra il 1304 e il 1308 (non all’inizio della “carriera” di Dante, come vuole l’erudito Premio Nobel), è un trattato rivolto ai letterati di professione, di estrazione borghese (non proprio adatto, dunque, a suffragare l’inclinazione di Dario Fo verso la tradizione popolare e giullaresca) e vuole definire un idioma volgare che possa conseguire un’alta dignità letteraria, elevandosi al di sopra delle varie parlate regionali e sottraendosi all’egemonia del Latino” [4]. Anche Gianfranco Contini, del resto, aferma con estrema chiarezza che l’obiettivo di Dante nell’opera in questione è quello di promozione aristocratica del volgare

     A chi a bocca spalancata esprime la sua meraviglia per i miti del nostro tempo, bisognerebbe far capire come stanno le cose… ma, per dirla con l’illustre Dario Fo, «la gente non lo si racconta mai».


[1] Tutti i documenti audio ai quali facciamo riferimento potevano essere ascoltati, al tempo della pubblicazione della maggior parte dei post riportati, sul sito http://dettaglitv.com/, ora non praticabile.
[2] Natalino Sapegno, Disegno storico della Letteratura italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1974.
[3] Lettera a Ruggero Bonghi intorno al libro De Vulgari Eloquio
https://www.alessandromanzoni.org/opere/14
[4] http://www.homolaicus.com/letteratura/de-vulgari.htm

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Almeno l’ortografia… (ed altro, sulla Poesia)

Il post apparve sul sito Dettaglitv.it il 5 febbraio 2011.
Dal momento che tale area non è più raggiungibile,
ne pubblico la revisione sul mio sito personale.

* * * * * * *

Due gravi errori ortografici nella prima mezza facciata (il primo riguarda la scrittura scorretta in luogo del corretto troncamento po’) e uno nella seconda (senza considerare quelli presenti in altre pagine del volume) fanno scarso onore ad uno scrittore! Spero che da allora l’Albinati abbia ripassato un po’ di grammatica, imparando
-   le regole dell’apocope (anche su Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/Apocope),
-   la formazione del plurale dei nomi in -cia e -gia
http://www.accademiadellacrusca.it/faq/faq_risp.php?id=3943&ctg_id=44)
-   e le norme che regolano l’accentazione dei monosillab(la prima persona singolare dell’indicativo presente del verbo dare, io do, non si può confondere con la nota musicale do http://forum.accademiadellacrusca.it/forum_5/interventi/1391.shtml,
per cui non va accentata; trascuro le sottigliezze legate al raddoppiamento fonosintattico, o sintagmatico, o geminazione, che poco mi convincono e per le quali il Devoto e la stessa Crusca ammettono la possibilità della grafia “dò”).

Senza contare lo stile, che qui appare approssimativo e degno appena di un compitino (mal riuscito) di scuola superiore. Tralasciamo l’orribile cacofonia dell’ultima riga (a furia di scosse comincia a assottigliarsi, dove ben tre “a” costringono ad un’affannosa respirazione per la pronuncia…). Per fortuna ci sono nel libro pagine più interessanti… di prosa, però, non certo di poesia (tanto meno “elegiaca”, visto che del canto e della melodia – questo è il significato etimologico della parola greca èlegos - non hanno proprio nulla).

Per leggere l’intero documento, corredato di immagini,

SCARICA PDF

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Inferno, XXXV – I traditori della cultura: Roberto Benigni

Già pubblicato su Dettaglitv.it il 9 Maggio 2011

L’operazione su Dante, condotta da Roberto Benigni, è uno degli imbrogli mediatici più clamorosi, capace di riscuotere il consenso perfino di ambienti colti, ma quanto meno distratti, che dietro la maschera del merito divulgativo non hanno saputo cogliere, o hanno voluto di proposito nascondere, il danno che veniva arrecato a un patrimonio culturale da salvaguardare soprattutto attraverso il rispetto. Il “comico” toscano ha indecorosamente offeso la Letteratura Italiana e l’immagine del sommo Alighieri, stravolgendo e profanando, per uno spettacolo da baraccone e per denaro, i sacri versi della Commedia.

Ho voluto immaginare che Dante, per divinazione della sorte che sarebbe toccata ai suoi versi per bocca di Benigni, abbia voluto aggiungere un Canto, il XXXV appunto, al suo Inferno, punendo severamente il comico per la colpa di “tradimento della cultura”. Pubblico l’intera parafrasi del documento in .pdf, da aprire ed eventualmente salvare, che contiene comunque, oltre i versi, le annotazioni.

Inferno, XXXV – I traditori della cultura [2]

Non scrissi che prima di uscire a riveder le stelle, quando io e Virgilio risalivamo servendoci del fitto e duro pelo di Lucifero che ci faceva da scala, udimmo un grossolano riso a crepapelle, come quando alla sete di qualcuno mai si nega il vino dalla canna, fino a che la mente non ne risulta “ammalata”, fino all’ubriachezza, cioè. Fatto per il quale io dissi a Virgilio: “Maestro, non avevamo esplorato già ogni girone dell’inferno (le segrete cose… già non sapemmo tutte), lungo il tragitto che mira al recupero della serenità interiore (per la quiete), nel momento in cui scorgemmo, attraverso quel rotondo foro, la luce del giorno?

Egli mi rispose: “Dio volle che prima di tornare sulla terra, tu vedessi una pena più dura di quella inflitta a Lucifero (che lo viso a fondo).  Chi lucra servendosi dei tuoi versi mischiati a volgarità di ogni genere, rubando per l’indegna fame di denaro, l’arte (belli arredi) della tua opera, è stato sprofondato al di sotto di Lucifero (colui ch’è fitto, conficcato a testa in giù nell’estremità dell’inferno); chi offende le istituzioni politiche (Presidente del Consiglio, scettro azzurro) e quelle religiose (il Papa, bianca corona), che non reagiscono perché in fondo la propaganda che ne ricavano è vantaggiosa, e non viene esiliato, come invece accade a te. Ma la giustizia divina, ahimè, non perdona. Guarda quell’immenso teatro circolare e le sue innumerevoli gradinate gremite di gente che incita Lucifero a praticare la respirazione bocca a bocca al dannato svenuto dal dolore! Sono tutti coloro che da ogni “contrada” accorsero ai suoi spettacoli, e che ora si sbellicano nel vederlo al centro della scena arso dalle fiamme, arrostito come S. Lorenzo sulla graticola. [1] Per l’eternità il peccatore viene rianimato, perché la bocca di Lucifero gli soffia l’ossigeno che lo tenga desto (respiro ancora per le vene). Da ogni punto dell’arena, le gradinate espellono pagine della Divina Commedia (la carta de la colpa commessa da Benigni), che bruciano, mentre il vento le trascina dal centro alla periferia e viceversa, finché ricadono sulla pelle di tutti gli astanti, ustionandoli. E dal momento che tu vuoi sapere bene come stanno le cose, quando il condannato arrostito recupera la sensibilità, l’Angelo lo bacia, come Lancillotto Ginevra, con quel bacio appassionato “di sei pagine” che lui andava raccontando. Contemporaneamente dalle fiamme si erge l’anima di Gianciotto, che impugna una lunga cesoia e taglia a fette (molte volte) i colpevoli genitali di Benigni (reo pisello, soprattutto con allusione alla fissazione del comico per “i piselli”), che ogni volta che si ridestano sono ben cotti.

E se non senti declamare versi, è perché il Sommo Amore (l’Eccelsa Carità) grazia gli uditori, sottraendo loro, attraverso il bacio di Lucifero (serra le porte, chiude la bocca), una voce che quando non ragliagracida”.

Io non saprei spiegare perché quello che vidi mi provocò una forte emozione, tanto da rimanere per parecchio tempo disorientato e senza parole. Infine, distraendo lo sguardo da quei peccatori e per un po’ rivolgendomi alla mia esperta guida, chiesi: “Padre, perché non comprendo? Tu mi parli dei miei versi e del peccato di chi li vende, insieme con volgarità di tipo sessuale, come se volessi raddoppiare la mia sofferenza, per il lucro e per la profanazione. Fa’ almeno in modo, visto che mi sfuggono i fatti e non ho perciò consapevolezza della cosa (se l’esperienza non è presso), che io possa parlare a chi di tanto in tanto sviene dentro le fiamme, a chi in fondo, da quello che dici, si punì con le sue stesse mani”.

Mi rispose: “Tu non sai che l’immenso teatro (‘l tondo loco) ospita la gente idolatra che nel suo idolo proietta il poco che ha dentro (trasmuta il poco). E l’idolo dalla squallida abilità d’imbonitore è quello che tu vedi baciato nientemeno che da Lucifero (basciato da cotanto amante), e che forse, subito dopo essere rinvenuto (quando muta il vento, quando cambia il suo stato), potrà risponderti”.

Così, appena il dannato, ancora boccheggiante, si ritrova sulla soglia del bacio (desto al bacio) che gli impedisce di recitare i versi e di parlare (soffocante), inflitto dalla stessa bocca che lo rianima, io gli grido: “Dimmi almeno quale sciagurato delitto hai commesso, come ti chiami e qual è il tuo luogo di origine (quale piana), se è proibito sapere di più”.

Rispose con la sua sgraziata voce roca: “Sono originario della Toscana, nato in provincia di Arezzo, in quella frazione che ha nome Misericordia, proprio la misericordia che non potei avere da Dio per vile uso de la mente umana (la mente di tutti quelli che ho imbrogliato). Persi la misericordia perché non studiai in modo approfondito i versi di Dante e li andai recitando per il mondo chiedendo compensi sproporzionati e oltraggiando in tal modo anche la povertà (per gl’incassi ipertrofici e perversi); così, di fronte al grave danno arrecato alla cultura, alla morale, alla religione, la coda di Minosse risultò troppo corta per indicare dove avrei dovuto sprofondare, e l’inferno fu carente di gironi. Di conseguenza,  per la pena eterna che subisco nella morte del corpo e dell’anima, mi toccò la fossa di cui nessuno conosceva l’esistenza, quella che si trova proprio sotto il capo di Lucifero, dove egli mi perseguita ininterrottamente con il suo fiato. Quando ritorni sulla terra, alla dolce condizione dell’esistenza, dove nei teatri le folle inneggiano alle false divinità, racconta quello che hai visto, in modo che più nessuno sia dannato come me”.

Aveva appena finito di parlare, che Lucifero gli penetrò di nuovo nella bocca, con la sua lingua sporca di fango e dal sapore puzzolente di cerume, mentre Gianciotto Malatesta, emergendo dalle fiamme, riprese ad affettargli i genitali.

“O Arezzo, vergogna d’Italia, che hai dato alla luce ed alzato agli onori un pagliaccio dalla mente poco pregiata e ne sfami la mai sazia avidità di ricchezza; alimenti quella lupa che è riuscita a corrompere perfino il Veltro che avrebbe dovuto ricacciarla  ne lo ‘nferno, da dove il demonio l’ha scatenata; il Veltro(ni) che quando a Roma celebra il rito ricorrente delle Notti Bianche (dentr o la notte nera che fa bianca) nutre Benigni-lupa proprio dei cibi che dovrebbe evitare, di terra e di peltro, cioè del potere (dei protagonisti) e di denaro (peltro, dal francese peautre, lega di metalli), e con l’elevato compenso che paga permette abiti di seta, non certo gli umili panni di lana che dovrebbero essere il simbolo dell’intervento auspicato nel I Canto dell’Inferno (i richiami al quale, evitiamo di chiarire in modo troppo circostanziato, dal momento che tutti gli Italiani, adesso, conoscono benissimo la Divina Commedia…).

Non senti la voce ormai stanca di chi chiama l’arte smarrita e la cerca dovunque, in ogni luogo e in ogni sfera, senza più trovare il genio che le manca, l’interprete geniale, pittore, musicista o poeta che sia? Non ti muove a compassione la disgraziata sorte della nostra grande tradizione culturale, che il comico va sciovinisticamente vantando, ma che nei suoi eredi giace mestamente nel proprio letto di morte? Perché non ti accorgi che il cavallo dell’arte è senza guida, se il fantino, in tutto, è proprio l’antitesi del bello (se cavalca chi a l’arte più dispiace)? Ahimè, gente che dovresti essere fedele all’arte e lasciar sedere Dante, quello vero, sulla sella, se ben comprendessi la volontà divina (da’ a Cesare quel ch’è di Cesare…).

Guarda come il cavallo dell’arte è diventato ribelle, perché sente gli sproni inadeguati di un sedicente artista, incapace di orientarlo, e perché tu pretendi la guida, tieni le briglie (la predella; il ponesti mano ha come soggetto gente, il popolo italiano che attraverso Benigni guida il cavallo; naturalmente forzando il senso dantesco).

Chi non è proprio nato per alimentare la fiamma della poesia e non conosce altro linguaggio che quello del sesso, scenda da cavallo e la smetta di fare l’esegeta e di “predicare”. Un infinito numero di volte (in eterno) sarà perseguitata la colpa che adultera i versi insigni della Commedia e che rende il responsabile per sempre indegno del perdono degli uomini e di Dio”.

Così disse il maestro che mi circonda di affetto.

E finalmente l’ultimo tratto del cammino infernale mi restituisce la luce sul viso, là dove il cielo stellato è più gremito di fuochi.

Amato Maria Bernabei

N.B. Su Benigni e la sua indecorosa divulgazione della Commedia è possibile consultare le altre schede presenti su questo stesso sito.


[1] Al centro di un enorme teatro all’aperto, Benigni è incollato per la bocca alla bocca di Lucifero, mentre dal basso fiamme perenni lo arrostiscono, come il martire San Lorenzo. Quando sviene dal dolore, l’Angelo ribelle lo rianima con la respirazione bocca a bocca, ma per evitare che parli o che reciti, lo bacia con la sua saliva puzzolente di cerume e mischiata al fango in cui i due sono immersi. Da ogni ordine di posti, dal centro verso la gradinata estrema e da questa verso il centro, si alzano e ricadono sulla pelle di tutti pagine incandescenti della Divina Commedia, provocando terribili ustioni. Ogni volta che Benigni rinviene, Gianciotto Malatesta, con un paio di lunghe cesoie, gli affetta i genitali cotti. Feroce, ma inevitabile, contrappasso.
[2]  Un “intelligente” lettore che niente di tutto (o anche tutto di niente) aveva capito, così commentava il  (naturalmente mascherato dietro un cosiddetto nick, ovvero nascosto  in un pusillanime pseudonimo…):
Ciaooo ha detto:
Dici che Benigni si permette di stravolgere e profanare la Commedia quando sei tu il primo a osare scrivere un XXXV Canto e ad umiliare Dante con la tue cazzate, almeno Benigni lo fa per soldi, tu lo fai gratis.
l’11/06/2011 alle 23,02 così replicavo:
Questa è la nobiltà: io le cose le faccio gratis, Benigni è solo un mercenario. Quanto a profanare Dante, il saltimbanco toscano lo distorce, ne cambia il pensiero e perfino i versi, io mi diverto soltanto a imitare lo stile dantesco per “punire” Benigni come merita… ma evidentemente la cosa è troppo sottile perché tu possa apprezzarla: credo che tu non abbia capito proprio niente. A proposito: in questo sito cerca di usare modi più urbani, evita il turpiloquio “alla Benigni”, altrimenti i tuoi commenti non saranno più pubblicati.

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Maria Luisa Spaziani: Giovanna d’Arco

Maria Luisa Spaziani - Giovanna d'Arco

Che garanzie di qualità può offrire chi vanta di aver passeggiato
con il Nobel russo Iosif Brodskij “nelle CALLE” [1] di Venezia?
ascolta

Epilogo

Tutta la notte la sognai gridando,
piangendo dentro il più angoscioso sogno.
Era lei, Caterina, l’infelice
“regina delle Streghe”? La rividi,
macilenta bambina che danzava
con gli occhi fissi a un cupo sortilegio,
presso il bosco di casa, sotto i rami
pagani della “quercia delle fate”.

Lei, quella buia figlia di regina,
si era arrogata un titolo fatale.
Dov’era andata? Quali conciliaboli
l’avevano irretita e poi perduta?
«Io mi assumo la croce» avevo detto
la notte degli addii. Non sapevo
che la sorte tramasse di assegnarle
il tormento a me sola destinato.

Passai tre mesi inerti, pullulanti
di fantasmi e di miasmi del passato.
Non speravo l’ausilio dell’Arcangelo:
luce alimenta luce, la suprema
Vita disdegna le anime già morte.
Eppure Dio non lascia chi lo spera
con contrizione per la sua salvezza.
E dal profondo io la invoco, Dio.

Guardavo sempre il fuoco nelle sere
di primavera e della prima estate.
Lo fissavo per ore. A lui chiedevo
direzione, consiglio, ispirazione.
Giunsero giorni di caldo scirocco.
Giallo era il cielo, come un appestato.
Si era fatto, il vallone di Jaulny,
un forno arroventato senza pane.

Il vento scardinava i tetti, i sassi,
bruciava i bocci e dissecava i frutti.
Laggiù al fondo dei pozzi rilucevano
poche lacrime di polvere e mota.
Venti giorni senz’aria respirabile.
Morivano gli armenti. Un malefizio
premeva sulle case addormentate
come quanto [2] un cristiano è insepolto.

Forse insepolto era il mio passato
mozzo, irredento un Cristo non risorto.
Mi aggiravo sperduta fra i saloni,
disperata chiedendo una risposta.
Nel gran silenzio soltanto una fiamma
gridava dal camino di cucina
che risucchiava tutte le scintille
in alto fuggitive sfrigolando.

Il guardiaboschi [3] si fece annunciare
e concitato disse che ad oriente
del castello una striscia molto estesa,
un miglio forse, aveva preso fuoco.
Tutte le grandi querce millenarie
erano pura cenere. Ordinassi
che allarme dare, che cosa decidere.
Sotto quel rozzo panno era la Voce?

Sì, era il Segno, Dio mi rispondeva.
Come a un amato a lungo a lungo atteso
mi avviai nel buio incontro al fuoco. spire
color di sangue e aurora mi ammantarono,
timide prima, e poi ruggenti e forti,
ben diverse dal fuoco stupratore
che su quel rogo mi avrebbe avvinghiata.
Profondo abbraccio, appassionato e unico.

E mentre già le vesti fiammeggiavano,
di colpo Lui mi apparve: era l’Arcangelo
del nostro primo incontro, e il mio stupore
rinacque intatto dai lillà di casa.
«Tu chiamavi piumaggio queste luci
che alle spalle mi spuntano, Giovanna.
Devi sapere: sono pura fiamma
e in cima al tuo destino ti aspettavano».

(da https://poetarumsilva.com/2018/03/04/spaziani-epilogo-giovanna-darco/)

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[1] Le calle sono fiori, mentre le strette vie di Venezia sono le calli!
[2] Nel volume pubblicato dalla Marsilio (2000) si legge correttamente “quando”. Chi in Internet pubblica materia letteraria dovrebbe sorvegliare perlomeno l’ortografia…
[3] “Guardiaboschi”? Refuso (presente nell’edizione della Marsilio del 2000) o granchio lessicale della “poeta”?

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INTUIRE DAL TRAMONTO

Leggendo l’Epilogo della Giovanna D’Arco di Maria Luisa Spaziani viene da pensare che un fosco tramonto è spesso l’esito di un trascorso cattivo giorno!
Non ho mai avuto il desiderio di conoscere il capolavoro della poetessa torinese (la poeta, se in memoria non vogliamo offen-derne la suscettibilità femminista [1], la quale, tuttavia, in un passo della postfazione alla “Giovanna d’Arco”, a pagina 94 dell’edizione 2000 della Marsilio, non disdegna di attribuirsi la “privilegiata situazione di libero studioso”, con due belle desinenze maschili!), voce dalla quale non mi sono sentito mai attratto, non sembrandomi abbastanza interessante né tanto meno grande, checché se ne dica, e quando mi sono imbattuto in questo passo di modesta letteratura non me ne sono certo pentito. Non esercito la professione del critico, ma sono convinto di aver maturato conoscenze e sensibilità adeguate per individuare la buona letteratura. Difficilmente ho letto una chiusa “letteraria” così brutta, spia di un fiacco gusto estetico, di un pensiero ordinario, di una padronanza metrica approssimativa, di una carente sensibilità musicale capace di trasformare un passo cadenzato e grandioso come quello dell’endecasillabo nella più comune delle prose, per di più in un contesto epico. Leggo, della Giovanna D’Arco, che è un poemetto in ottave. Sul sito della Marsilio è scritto nientemeno che «Maria Luisa Spaziani, fa rivivere Giovanna d’Arco e la inquadra nella musica delle sue ottave classiche». Da quando in qua l’ottava (classica, per di più) è diventata un capriccioso raggruppamento di otto endecasillabi senza rime, di cui non si conosce il criterio compositivo se non quello che appone il punto dopo l’ottavo verso e ricomincia la sequenza lasciando una riga vuota? Quelli della Spaziani sono nient’altro che brutti endecasillabi sciolti (non sempre “endeca”), senza nervo, artificiosamente separati in gruppi di otto. L’endecasillabo non è soltanto una sequenza di undici sillabe metriche contate magari sulla punta del naso, qualche volta anche male [2], come nel caso di “rustica, dall’unico spiovente” Canto I, pag. 9, che è un decasillabo non canonico [3], o di «a distesa trecento campane» e «accadrà nella valle di Jòsafat» del Canto IV, pag. 47, decasillabi canonici, il secondo sdrucciolo, o «radice prima. Mi fecero abiurare», verso di dodici sillabe metriche (con sinalefe “ro a”) non canonico, del Canto V, pag. 62, e il decasillabo canonico “fissamente da presso la morte”, Canto V pag. 65, e così via… [4]: l’endecasillabo è un suono, un segmento di suono che unendosi agli altri segmenti deve creare una melodia varia, flessibile, in grado di adattarsi al pensiero (possibilmente PENSIERO) che esprime, come la mimica di un volto è modellata da uno stato d’animo. Così Dante dipinge (Dolce color d’orïental zaffiro), rimpiange (Siede la terra dove nata fui), prega (Vergine madre, figlia del tuo figlio), lotta ed ansima (E come quei che con lena affannata), paventa (ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi), descrive (Come d’autunno si levan le foglie), consiglia (Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno), sentenzia (Amor, ch’a nullo amato amar perdona), inveisce (Ahi serva Italia, di dolore ostello), ama (la bocca mi basciò tutto tremante), enuncia principi universali (fatti non foste a viver come bruti), attinge filosofia e teologia (La gloria di colui che tutto move; Quella circulazion che sì concetta)… Si potrebbe continuare per pagine, dimostrando come all’interno di una misura costante possano trovare spazio i più disparati pensieri e i sentimenti più vari attraverso le più sottili sfumature, gli spunti più impensati, sempre congrui nelle loro dimensioni concettuale e sonora [5], fuse in armonia suprema.
Gli “endecasillabucci” della Spaziani (“una delle voci più autorevoli e suggestive della poesia contemporanea”, è scritto nella bandella posteriore del volumetto) arrossiscono. A dimostrarlo basta riportare la banalità di due versi che “epicamente” dovrebbero farci rivivere le fiamme del rogo patito da Giovanna D’Arco: ben diverse dal fuoco stupratore / che su quel rogo mi avrebbe avvinghiata… Brutta enfasi a parte, una “prosetta” divisa in sillabe, che peraltro caratterizza tutto l’Epilogo e, sospetto, l’intero poemetto… [6]
Inutile infierire, per ora, non disponendo ancora dei necessari elementi per approfondire.
La fama e la stima di cui la poeta torinese gode non sono, evidentemente, che prodotti del mercato, teso a creare i suoi miti da bancarella su parametri ben distanti da quelli che il valore esige, in ogni campo. Chi per qualunque motivo abbia visibilità e sia  per questo vendibile, sale i gradini delle gerarchie.
Di conseguenza la Spaziani è grande… ma soprattutto nella fortuna di essere piaciuta a Montale, il quale, non a caso, l’appellò con il nome fittizio di Volpe [7] dal “lieve / zampetto di predace” [8].

Maria Luisa Spaziani ed Eugenio Montale

(Che cosa piacque a Montale della Spaziani? De gustibus non est disputandum
ma il bello non è quasi mai ciò che piace, come il vero non è quasi mai ciò che si pensa)

Amato Maria Bernabei


[1] “…è doveroso chiamarla così, poiché detestava la definizione di poetessa che le sembrava maschilista ed escludente” (Franca Alaimo, Lieto Colle, Libriccini da collezione, 7 aprile 2015, in https://www.lietocolle.com/2015/04/silvio-raffo-la-divina-differenza-la-musa-lirica-di-maria-luisa-spaziani/). Sciocca suscettibilità! Saffo non si sarebbe mai offesa, forse perché era “poetessa” vera… Sciocca, soprattutto, perché, nel rinunciare pretestuosamente al sostantivo femminile, tanto vicino per suono al termine greco ποιητής (poiētḗs), la Spaziani fa uso, paradossalmente, del sostantivo maschile, femminilizzato dall’articolo, attribuendogli di fatto maggior valore e contraddicendo all’intenzione di garantire alla femminilità della sua arte una  considerazione pari a quella riservata agli uomini. Per celia si può osservare che Montale non si è proprio mai preoccupato della a finale della parola poeta, altrimenti si sarebbe ribellato, pretendendo l’appellativo di “poeto”…
[2] Accortasi della presenza di alcuni decasillabi, la Spaziani preciserà nella postfazione, che «L’orecchio coglierà subito l’inserto di qualche decasillabo dovuto a precise ragioni espressive». La “poeta” adduce una serie di giustificazioni documentate da riferimenti a versi precisi, senza riuscire ad essere convincente. Una sciocchezza sembra soprattutto la dichiarazione di aver voluto rallentare il ritmo della versificazione con l’inserimento (non l’inserto, che ci pare altra cosa…) di un verso incalzante come il decasillabo canonico (tatatà tatatà tatatà ta), che la sapienza e la musicalità manzoniane avevano collegato allo scalpitio dei cavalli: d’ambo i lati calpesto rimbomba / da cavalli e da fanti il terren (Alessandro Manzoni, Il Conte di Carmagnola, Atto II, Scena VI, vv. 3-4). Ad esempio: come può suggerire «l’idea della pigrizia e della noia del re» la cadenza anapestica del decasillabo riposarmi dai lunghi travagli? Se scrivo “quando tento un tranquillo riposo”, il decasillabo può suggerire magari il fallimento del tentativo per uno stato di eccitazione inibente, non di certo la pigrizia, la noia, l’abbandono!
[3] Quale “precisa ragione espressiva” avrà indotto la poeta all’uso così precoce di un decasillabo in «un’ottava classica»? (Maria Luisa Spaziani, Giovanna d’Arco, Venezia, Marsilio, 2000, p. 105).
[4] Incuriosito (negativamente) dalla lettura dell’Epilogo, ho acquistato in Rete al più basso prezzo possibile il poemetto. Alla prima sbirciata ho avuto conferma della pessima impressione avuta in precedenza ed ho potuto estrapolare senza fatica, a caso, i versi riportati.
[5] Livello semantico e fonico, direbbe un addetto ai lavori.
[6] Il sospetto si è poi rivelato fondato.
[7] Senhal che Montale attribuì alla Spaziani.
[8] Montale, Da un lago svizzero, in La bufera, Madrigali privati (il componimento è un acrostico, in cui le iniziali dei versi formano il nome e il cognome della poetessa: omaggio-trastullo di momenti infantili del sentimento, ai quali è difficile riuscire a sottrarsi…).

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 IL DEMERITO DEL MERITO
(ovvero stroncatura di una Musa “a brutto muso”)

La lettura casuale dell’Epilogo del “romanzo popolare” della Spaziani, avvenuta in un sito poco ospitale e poco democratico della Rete, in cui l’uso di un ironico pseudonimo a firma di una mia nota critica severa è divenuto, per anonimato, pretesto di non pubblicazione, mi ha sconcertato al punto che, dopo aver scritto le prime impressioni, riportate come introduzione, ho deciso che dovevo basare le mie critiche sulla conoscenza. A tale scopo ho sùbito controllato le offerte in Internet ed ho speso il patrimonio di ben 7,15 Euro (tutto è relativo, dicono) per acquistarlo. Testo peggiore di quanto mi aspettassi!
Ormai è cosa lampante: la metamorfosi del merito ha il volto di una moneta, il pregio è una distinzione commerciale. Conta soprattutto qualunque ragione che venda, perché ogni valutazione di qualità trova i suoi fondamenti nel mercato. Il successo, in termini di visibilità, di stima, di riconoscimenti, è assicurato a tutto ciò che genera profitto materiale, e si fonda, perciò ed ormai, «sull’incompetenza a tutti i livelli» [1].
La critica sapiente ed illuminata “giace”, anche in virtù di un relativismo che ridà spazio al criterio dei sofisti, capaci di flettere le architetture del pensiero alle esigenze di chi di volta in volta li sfamava. Le attribuzioni di buona qualità e il maggior numero dei giudizi estetici favorevoli sono servi untuosi e supini del tornaconto, sia di chi li proclama che di chi li smercia, sicché gli operatori culturali, nel senso più ampio della parola, sono agenti di spaccio, più adatti al mestiere quanto meno conoscitori della materia specifica e quanto più scaltri nel cogliere le occasioni che rimpinguino le borse, a scapito delle virtù dei prodotti e della possibilità (nociva per il negozio) che la plebe acquirente èlevi [2], sia pure di qualche gradino, il proprio livello di conoscenza.
Il merito legittimo è dunque diventato un demerito, perché troppo spesso non si accompagna alle caratteristiche rivendicate dal commercio, e langue, ignorato e disincentivato. «Non le sto dicendo che la sua opera non merita, ma che non vende», mi disse Cesare De Michelis per giustificare il suo dissenso di fronte al mio poema in terzine dantesche sulla mitologia greca [3], che finì per pubblicare solo dietro richiesta di una cifra esosa e per la diffusione del quale mai spese un centesimo, snobbandone anche la presentazione nella Sala delle Colonne di Montecitorio. Lo stesso De Michelis del quale la pagina ufficiale della Marsilio riporta, con giusto orgoglio, l’aforisma: “È più importante vendere i libri che si fanno che fare i libri che si vendono”. Lo stesso De Michelis che – si dice – aveva firmato assegno in bianco alla Tamaro per un romanzetto sentimentale che, a detta di qualche lettore che conosco, ha poco da invidiare al libro Cuore (parola non casualmente presente anche nel titolo del romanzo della scrittrice triestina), se non la migliore qualità letteraria [4]. Il buon Cesare (peraltro figura di rilievo del mondo editoriale ed accademico dell’ultimo mezzo secolo) che alla firma del contratto, in camera caritatis, riconobbe al poema grande qualità, dichiarandosi orgoglioso di poterlo avere in catalogo e non escludendo che potesse essergli riservata, magari a distanza di qualche decennio, una sorte rilevante, aveva ragione, perché la Tamaro avrebbe venduto sedici milioni di copie in tutto il mondo (Wikipedia) e il mio poema in terzine una decina di copie in Italia. Eppure Giorgio Bàrberi Squarotti, dopo aver “preteso” una copia del libro, chiedendo, quasi risentito, come potesse non saperne nulla, ed avergli dedicato una lettura di alcuni mesi, ebbe a scrivermi, tra il Dicembre del 2007 e il Gennaio del 2008: «La grandiosità di Mythos non ha pari […] è un premio a se stessi incontrare un’opera come la Sua». Parole che, credo, mai nessuno potrà vergare a proposito del romanzo della Tamaro.
Il merito genuino è dunque diventato un demerito.
Al contrario, ciò che non merita viene spesso accolto da grida di osanna e rami di palma, ricompensato da invadente visibilità mediatica, quando non da titoli accademici anche numerosi e paradossali: sia sufficiente citare l’affare milionario del Tuttodante di un ridicolo “esegeta” (se non addirittura “profeta”) dei nostri tempi.
Anche il caso del poemetto della torinese “Musa di Montale” rientra nella categoria incomprensibile (si legga come sinonimo di inammissibile, perché la comprensione del fenomeno è fin troppo scontata) dei successi e delle acclamazioni della mediocrità: è difficile negare che viviamo una stagione capace di inneggiare soprattutto al dozzinale.
Qualcuno, in difesa della “volpe” [5], dirà che “la poeta” (declinazione, questa sì, di fondamentale importanza per l’ipocrita moda che avversa il cosiddetto sessismo linguistico) non aveva intenzione di scrivere un’opera di poesia, ma un romanzo ritmico, una prosa cadenzata… Ai grandi non servono espedienti: la prosa del Manzoni (non si offenda Alessandro, scuotendo la tomba per l’accostamento) è di gran lunga più musicale del brodetto della Pulzella della signora Maria Luisa, al punto che questo viene annientato da qualunque passo, rilevato a caso, del grande milanese, anche evitando di scegliere i vertici di un decasillabo che piange in singulti segreti nel suo ritmo anapestico (Addio monti sorgenti dall’acque, decasillabo con sineresi in di-o, ma anche endecasillabo 4-7-10, se si preferisce, con suddivisione ad-di-o) o di un pittorico endecasillabo descrittivo, dolente di richiamo natio (come branchi di pecore pascenti) o di un endecasillabo dove l’accento di settima comprime la parola nella stretta di un’emozione d’amore (dove il sospiro segreto del cuore).

Gli endecasillabi del “romanzo” della Spaziani mancano di eleganza metrica e prosodica, difettano di vera musica, sono sciatte sillabazioni, talvolta monche o sovrabbondanti, sono privi, a seconda dell’occorrenza e del tono, di pathos, di idillio, di accenti romantici, di slanci mistici, di capacità evocativa, di potenza drammatica; non muovono né commuovono, piatta prosa debolmente scandita da pallidi accenti, troppo spesso densa di contenuti banali, quanto meno espressi in una forma ovvia, poveri d’immaginazione… Insomma la poeta avrebbe fatto meglio a non cimentarsi con l’ampio respiro, meglio a non tentare la forma classica (?) dell’ottava che, di canonico, ha solo una successione di gruppi di otto velleitari versi, mal cadenzati (dieci, undici e perfino dodici sillabe, come abbiamo visto) e privi di rime.  Sappiamo bene che non è la forma scelta e nemmeno il genere a premiare la poesia, la quale non ha bisogno di artifici per fiorire: esigiamo semplicemente che non si attribuisca alle opere quello che le opere non hanno. La Giovanna d’Arco della Spaziani non è scritta in ottave classiche, non in soli endecasillabi, non in fluente metrica, e non è nemmeno grande opera di poesia, non solo in quanto genere, ma pure in quanto “momento in cui si realizzano individualmente e si rendono intelligibili le possibilità creatrici e suggestive delle intuizioni e della fantasia”, come recita il Devoto. Per di più, essendo ritenuta il capolavoro della poeta, condannano la qualità artistica della medesima all’assoluta mediocrità.
Né salvano l’opera altri pregi che con l’arte di un poeta hanno poco a che vedere: la sostanza della poesia non è certo nelle indagini storiche, nei tratti più o meno fedeli alla realtà che la caratterizzano, non certo nei sopralluoghi, nel fascino esercitato sullo scrittore da uno specifico argomento o da un particolare personaggio. Sicché la valutazione della qualità poetica della Giovanna d’Arco della Spaziani deve prescindere da qualunque apprezzamento per le «zone non note o respinte dalla storiografia ufficiale» [6] esplorate e da simili peculiarità, e considerare purtroppo il poemetto, o romanzo popolare che dir si voglia, della Volpe un prodotto inferiore, e non poco, alle pretese dei vari Raffo e Vidiri Varano e di quanti vedono “la vate” torinese come una delle voci più alte del panorama letterario del Novecento.



[1] Brunetta Gian Piero, Guida alla storia del cinema italiano, Torino, Einaudi (2003), cap. IV, 6.
[2] Preferisco l’accento alla latina.
[3] Mythos.
[4] Non posso esprimere un parere personale, non avendo mai avuto né voglia, né occasione di leggere  il romanzo (?…).
[5] Tale per aver saputo trovare scaltramente la via del successo?
[6] Così recita il risvolto anteriore del volumetto pubblicato dalla Marsilio nel dicembre del 2000.

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CONFRONTO FRA LA SCHIETTA OTTAVA CLASSICA
E LE PRESUNTE TALI DELLA SPAZIANI

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D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ‘l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.
Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, XII, 69

Mentre aspetto vi dico della casa
rustica, dall’unico spiovente. [1]
In sei ci abitavamo, tutte insieme
dormendo, le tre femmine, in cucina.
In camera ci stavano gli uomini, [2]
mio padre Jacques insieme ai miei fratelli.
Alle cinque d’estate e d’inverno [3]
Puntuali ci svegliavano le pecore. [4]
Maria Luisa Spaziani, Giovanna D’Arco, I,2

Non si destò fin che garrir gli augelli
non sentí lieti e salutar gli albori,
e mormorar il fiume e gli arboscelli,
e con l’onda scherzar l’aura e co i fiori.
Apre i languidi lumi e guarda quelli
alberghi solitari de’ pastori,
e parle voce udir tra l’acqua e i rami
ch’a i sospiri ed al pianto la richiami.
Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, VII, 5

Ci fu una pausa in terra e in cielo, quasi
che il tempo si fermasse. Accanto al tronco
lentamente dall’ombra si annunziarono
l’aureola e il piumaggio di Michele.
In silenzio agitava le labbra. [3]
Io capii bene. Carlo non sentiva
né vedeva, se non una gran luce
che misteriosa tutta mi avvolgeva.
Maria Luisa Spaziani, Giovanna D’Arco, I,28

Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
Il mover de le frondi e di verzure,
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di là strani viaggi;
ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,
temea Rinaldo aver sempre alle spalle.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XXXIII,1

Ci accolse l’arcivescovo. Suonavano
a distesa trecento campane. [4]
Ancora folla immensa, contadini
e signori mischiati, come un giorno
accadrà nella valle di Giòsafat.  [5]
Poco dopo arrivava il gran corteo
di Carlo da Chinon. Quando mi vide
scese dal suo cavallo e mi abbracciò.
Maria Luisa Spaziani, Giovanna D’Arco, IV,2

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
ed ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XXIII,111

Mi strinsero, baciarono le mani
piangendo a calde lacrime. Al cavallo
strappavano dei peli della coda,
prematura reliquia. Rideva [6]
felice Gilles de Rais, ed a fatica
raggiungere potemmo per la cena
l’ospitale palazzo dell’amico
tesoriere del duca d’Orleans.
Maria Luisa Spaziani, Giovanna D’Arco, III,12

Gli esempi citati del Tasso e dell’Ariosto evidenziano l’abisso di competenza metrica, di sensibilità musicale [7], di pensiero fra i due, questi sì, grandi poeti, e la sbiadita scrittrice della Giovanna d’Arco. Sarebbero comunque stati sufficienti anche artisti del calibro di Pulci, Boiardo, Pucci, Boccaccio, o addirittura saggi di qualche sconosciuto (non per demeriti) contemporaneo, dal talento ben più evidente. Come di seguito si evince.

Era sera per noi, ma sera scura:
la sera tutta ardea qual solfarino,
e su entrambi incombeva la ventura
d’andare arrosto senza rosmarino.
Ma il prode Olimpio, eroe senza paura,
non restò ad imprecare al reo destino;
lasciò il tinello e disparì nel retro,
ed io per non sbagliar gli tenni dietro.
Stefano Tonietto, Olimpio da Vetrego, Poema comicavalleresco II,2 (2010)

«Già mi sgorga di rime una fontana,
già mi s’intreccian sillabe ed accenti;
Olimpio, va’! Per la fede cristiana
combatti e vinci, e se non vinci, astienti.
L’impresa tua comunque sovrumana
propagherò, te spento, ai quattro venti».
Egli una mano volse in giù spedito,
drizzando il quinto ed il secondo dito.
Stefano Tonietto, Olimpio da Vetrego, Poema comicavalleresco XXXI,51 (2010)
http://www.odanteobenigni.it/2013/11/08/poesia-fra-quanto-e-quale-poco-o-niente-vale/

La stupidità umana

Chi per la Rete salpi, col favore
del vento nelle vele, e chi capace
regga il timone per il vario umore
dell’onda, scoprirà quanto loquace
forma di umanità lungo il fervore
dei porti si riveli e quanto spiace:
troverà l’esperienza che conferma
l’uomo carente e la natura inferma. 

Conoscerà cervelli omologati
come da una catena di montaggio,
senza grigio che splenda e senza strati,
e lo sguardo che vede col bendaggio.
E leggerà gli scritti ineducati
sia per oscenità che per lignaggio,
e presunzione sempre, che non cura
quanto sia guasto il grano e la cottura.
Amato Maria Bernabei, L’infinito piatto, La stupidità umana 1-2
http://www.odanteobenigni.it/linfinito-piatto/

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[1] Orecchio grossolano? Il verso è un decasillabo con accenti non canonici (1-5-9 anziché 3-6-9).
[2] Decasillabo, essendo uomini parola sdrucciola (salvo brutta dialefe gli/uo).
[3] Decasillabo, salvo brutta dialefe estate/e.
[4] Dodecasillabo sdrucciolo, salvo sineresi “tua”, nella  parola pun-tu-a-li.
[5] Necessaria la dialefe in silenzio / agitava per avere un altro degl’innumerevoli brutti endecasillabi di questo poemetto.
[6] Altro clamoroso svarione musicale: il verso è un decasillabo con accenti canonici.
[7] Ancora un decasillabo canonico, per quanto sdrucciolo. Altro che i “fluenti endecasillabi sciolti (con qualche rallentamento di ritmo per sottolineare col decasillabo dei particolari momenti poetici)” di cui scrive Carla Vidiri Varano!

Carla Vidiri Varano

(http://www.ischialarassegna.com/rassegna/Rassegna1991/rass08-991/rass-libri.pdf) Che istanza poetica possono avere quelli più su riportati? La solita abitudine di voler giustificare l’ingiustificabile con arzigogolate trovate critiche (in questo caso proprio una generica baggianata che riverbera acriticamente le poco probanti ragioni addotte dalla stessa Spaziani nella Postfazione del suo libercolo). La verità è che ci troviamo di fronte ad una prosa ritmica, brutta come prosa e brutta come ritmo. Basta scrivere di seguito gli “endecasillabi” e nessuno si accorge più dei versi, ma nemmeno rintraccia la buona prosa: Ci accolse l’arcivescovo. Suonavano a distesa trecento campane. Ancora folla immensa, contadini e signori mischiati, come un giorno accadrà nella valle di Giòsafat. Poco dopo arrivava il gran corteo di Carlo da Chinon. Quando mi vide scese dal suo cavallo e mi abbracciò. Evidentemente è questo lo stile dei “grandi poeti contemporanei”, della cui rosa la Spaziani farebbe parte (sempre a detta della Vidiri Varano). Io però di grandi poeti non ne vedo da decenni nel panorama letterario italiano.
[8] Altro decasillabo canonico, non essendo indicata la dieresi sulla sillaba “quia”, che trasformerebbe il verso in endecasillabo.
[9] È  ridicolo leggere del rimprovero (peraltro fondato) mosso dalla Spaziani a Franco Buffoni a proposito del libro Suora carmelitana: «Apriva a caso il libro, leggeva due versi e mi diceva: “Vedi, non cantano… questi versi non cantano”». Poi li confrontava con le “ottave” del poemetto Giovanna D’Arco, che leggeva per dare esempio di “canto”!… (http://www.nuoviargomenti.net/poesie/il-racconto-dello-sguardo-acceso/).
Abbiamo dimostrato però che la musicalità dei versi della “poeta” spesso manca e che, quando essa affiora, è quasi sempre fiacca e non esemplare. Basterebbe confrontare il suono che diffondono i distici finali delle ottave classiche citate con l’occasionale e sgradevole distico “spazianiano” La gloria della Francia e di Gesù. / Tutto ciò che lui disse un giorno fu (Canto I, ottava 14).
Solo i grandi hanno consapevolezze. I piccoli non altro che presunzione.

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Riprendiamo ora una delle ”ottave” della Spaziani:

Ci accolse l’arcivescovo. Suonavano
a distesa trecento campane.        (decasillabo)
Ancora folla immensa, contadini
e signori mischiati, come un giorno
accadrà nella valle di Giòsafat.   (decasillabo, per ultima parola sdrucciola)
Poco dopo arrivava il gran corteo
di Carlo da Chinon. Quando mi vide
scese dal suo cavallo e mi abbracciò.
Maria Luisa Spaziani, Giovanna D’Arco, IV,2

Proviamo a riproporla senza “andare a capo”:

Ci accolse l’arcivescovo. Suonavano a distesa trecento campane. Ancora folla immensa, contadini e signori mischiati, come un giorno accadrà nella valle di Giòsafat. Poco dopo arrivava il gran corteo di Carlo da Chinon. Quando mi vide scese dal suo cavallo e mi abbracciò.

PROSA, sciatta prosa impoetica, come già era negli artificiosi “a capo”! Non così se operiamo nello stesso modo con un’OTTAVA ariostesca:

Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
Il mover de le frondi e di verzure,
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di là strani viaggi;
ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,
temea Rinaldo aver sempre alle spalle.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XXXIII,1

Fugge tra selve spaventose e scure, per lochi inabitati, ermi e selvaggi. Il mover de le frondi e di verzure, che di cerri sentia, d’olmi e di faggi, fatto le avea con subite paure trovar di qua di là strani viaggi; ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle, temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

La versificazione e la musica sono intatte! La poesia è conservata, perché c’era e non poteva smarrirsi. Questa è arte!
Quindi bando alle esaltazioni gratuite, insussistenti, come quelle di Silvio Raffo che scrive: «La sua opera, di recente consacrata dal Meridiano Mondadori, è la prova più lampante della possibilità di coesistenza di registro alto e leggibilità, dunque di “tradizione” e comu-nicazione», dove per “registro alto” non si sa che cosa Raffo voglia intendere e dove si dimentica che già l’Ariosto aveva dato prova, ma prova schietta, insuperabile, della possibilità di convivenza di leggibilità ed altezza di poesia.

Cuce sempre veste goffa
chi non sa d’ago e di stoffa.
Amato Maria Bernabei

È forse il caso di abbandonare i preamboli e di accedere al cuore della questione.
Cominciando dal vanto che l’autrice fa della sua opera, accostandola spudoratamente, benché in modo in apparenza velato, ai capolavori dell’Ariosto e del Tasso, accanto a quello di riprendere un genere poco frequentato in Italia: «È un poema in ottave, genere popolare alle origini della nostra letteratura, tipico dei cantastorie, poi nobilitato dal Boccaccio prima d’imporsi come forma classica e illustre con l’Ariosto e il Tasso. È quindi in endecasillabi, sia pure senza la canonica rima finale […] Ed è soprattutto, con i suoi 1392 versi, un romanzo popolare, come dice il sottotitolo, genere raro in Italia e pressoché ignoto nel nostro secolo» [1].
In realtà, a mio modestissimo e forse irriverente parere, il risultato che l’opera della poeta torinese consegue non è romanzo, per l’impedimento della scelta metrica che produce (per imperizia?) una prosa elementare e sbiadita, né poema, per la versificazione piatta ed impotente, in cui la musicalità decantata dai più non è di sinfonia, di melodramma, di sequenza di lied o di ballate (molto più convincenti sono, per melodia e parole, i compo-nimenti di Fabrizio De Andrè) e non riesce ad avere nemmeno la leggerezza ritmata e la poesia dei testi espresse dai migliori cantautori.
La prima pagina dell’ibrido spazianiano (né romanzo, né poema, come abbiamo appena rilevato) già presenta più di qualche bruttissimo verso (in camera ci stavano gli uomini, che, fra l’altro, per essere endecasillabo sdrucciolo ha bisogno di una sgradevole dialefe: gli-uomini, essendo noto al lettore educato che il verso sdrucciolo è sempre un ipèrmetro e che di conseguenza la sillaba finale non va metricamente computata).

L’incipit è banale, e sembra difettare perfino di logica:
Vedevo un muro bianco. Voi direste
uno schermo […]
Noi non potremmo dire proprio niente, nulla potendo intuire di quello che viene introdotto… anche perché un muro non può richiamare in nessun caso uno schermo da proiezione per “una storia che si illumina”, ma al massimo uno schermo nell’accezione di riparo, o di barriera.
Da scolaretta maldestra, poi, la Spaziani avvia la sua  sciatta “prosa versificata”.
Da tre anni aspettavo. Che cosa?
Mentre aspetto vi dico della casa…
Proprio scrittura degna di “una delle voci più autorevoli e suggestive della poesia contemporanea”!
A volte si ha proprio l’impressione che la critica, anziché muovere dal testo e dai contenuti di un’opera, parta dall’autore in quanto personaggio (divenuto tale per qualsivoglia ragione di carattere esterno al di lui valore) e dalla rilevanza delle sue vicende biografiche (nel caso della Spaziani soprattutto dal legame affettivo che l’astuta “volpe” strinse con Montale).
Dopo aver avvertito il lettore che
Alle cinque d’estate e d’inverno
puntuali ci svegliavano le pecore…
volendo forse suggerire che in primavera e in autunno si riuscisse a dormire di più… [2] la poeta s’incammina lungo 1392 noiosissimi versi, non senza qualche idea cervellotica, più adatta a un contesto da Mille e una notte, come l’incomprensibile e goffa lingua parlata dall’angelo, che rientrerebbe in un’esigenza teorico-estetica non nuova nella produzione della Spaziani:

Marò mivalla univallentes pria
cresciò bundantia crivellò carene,
multa de Dio convene arcisaviota
marlinevelle adasto. Lunsitoni,
gronsilampe sarrete ultravalente
microlombat antares unisarfiota
 [3]
crenalantoni crivellò carene,
unisarfiota ter unisarfiota.

Una lingua «composta da un miscuglio di suggestioni latine, greche, provenzali, francesi e tedesche. La lingua inesistente, inaudita, con cui la Spaziani fa parlare l’angelo non rappresenta un unicum nell’opera della poetessa torinese. Spesso torna, in diversi momenti e luoghi della sua produzione, il tema della lingua, del logos che si pone al di fuori di ogni interpretazione simbolica, della glossolalia o della voce pura [4]. L’angelo che porta questa voce è, per la Spaziani, la poesia stessa, ovvero quella forza che preme costantemente dai confini del territorio della lingua e del dicibile, deformando tali confini, facendo scorgere spiragli di enunciazioni inesplorate, zone di voce ancora pure»
(Riccardo Giacconi in http://helicotrema.blauerhase.com/maria-luisa-spaziani/).

Insomma, per tagliar corto: di classico la Giovanna d’Arco non ha proprio niente, se non il fatto che dal punto di vista della versificazione e della poesia (ma in larga parte anche della stessa scrittura) è un vero e proprio… classico bluff.


[1] Spaziani Maria Luisa, Giovanna d’Arco, Postfazione, Venezia, Marsilio 2000, pp.104-105. Con candida, ma inaccettabile ingenuità, purtroppo avallata dal relatore (relatrice) Prof.ssa Ricciarda Ricorda e dai correlatori Prof. Aldo Maria Costantini e Prof. Paolo Leoncini, la laureanda Giulia Dell’Anna scriveva nella sua Tesi di Laurea L’universo poetico di Maria Luisa Spaziani, discussa all’Università Ca’ Foscari di Venezia nell’Anno Accademico 2011-2012, «Se si dice che L’Orlando Furioso fu il poema della vita dell’Ariosto, sul quale pose mano fino alla morte, ebbene la Giovanna d’Arco è L’Orlando Furioso della Spaziani. Credo che il parallelo calzi a pennello, non solo per il continuo lavorio (che tuttavia per la Spaziani fu tutto un brulichio di idee che per anni rimasero chiuse nel profondo della mente) bensì anche per il metro dell’ottava».
http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/1601/819906-1165705.pdf;sequence=2
Con il “trascurabile” particolare che l’Orlando Furioso si compone di 38.736 versi, circa trenta volte il poemuccio della Spaziani, essendo poi, per grandezza poetica, sideralmente più in alto. Senza contare il fatto che quelle della Spaziani NON SONO OTTAVE (se non perché formate da otto righe) e tanto meno sono classiche.
[2] Per i meno avveduti precisiamo che l’osservazione è puramente ironica.
[3] Chissà quale giustificazione contestual-semantica ci darebbe la Spaziani per questo brutto dodecasillabo! Più facile dedurre che l’orecchio della sessantottenne signora abbia toppato.
[4] Evidentemente la Spaziani privilegia il livello fonico della scrittura poetica, pur non essendo capace di conseguire risultati di eccellenza sotto questo profilo. Del resto il livello semantico, povero delle caratteristiche che il linguaggio poetico esige, non è certo superiore. Poco si comprende la necessità della punteggiatura in un “testo” che sa di formula fiabesca.

 _____________________

S C A R T I L E G I O
Una raccolta dei passi fonicamente e semanticamente più brutti
del brutto “ro-manzo popolare” della Spaziani

 

Vedevo un muro bianco: voi direste
uno schermo, una storia che s’illumina.
ottava 1

Da tre anni aspettavo: che cosa?  (decasillabo canonico, o dialefe ni-a)

Mentre aspetto vi dico della casa
rustica, dall’unico spiovente. (decasillabo)
In sei ci abitavamo, tutte insieme
dormendo, le tre femmine, in cucina.
In camera ci stavano gli uomini, (decasillabo sdrucciolo, salvo sgradevole dialefe gli-uo)
mio padre Jacques insieme ai miei fratelli.
Alle cinque d’estate e d’inverno (decasillabo canonico, o altra dialefe, pessima, te-e)
puntuali ci svegliavano le pecore.  (endecasillabo sdrucciolo, ma con sineresi tu-a)
ottave 1-2

Per caso da bambina avevo inteso
il parroco informarsi da mia madre
“se io sapessi”. Poi dimenticai,
ottava 4 p. 10

Mia madre la nutriva con la carne
di capra, a noi da sempre proibita (decasillabo, o dialefe pra-a)
tranne alle feste grandi e con decotti
ottava 5 p. 10

Non imparava a mungere le capre
rifiutava i lavori in cucina. (decasillabo, o dialefe ri-in, migliore di va-i)
ottava 6 p. 11

Anche il paggio era splendido. E portava
un misterioso rotolo pesante
che sciorinato risultò un tappeto.
ottava 7 p. 11

Secondo le istruzioni di quel paggio,
il tappeto fu issato accanto al letto
di Caterina ad attutire il gelo.
ottava 9 p. 12
__________________________

Le ottave 11 e 12 meritano una riflessione a parte.
Quella di far parlare l’Angelo con una lingua che sembra un grammelot teatrale usato per effetti comici o farseschi, appare una trovata di cattivo gusto, a prescindere dalle giustificazioni di carattere teorico, come quelle sostenute da Riccardo Giacconi (http://helicotrema.blauerhase.com/maria-luisa-spaziani/), per il quale «questa voce è, per la Spaziani, la poesia stessa, ovvero quella forza che preme costantemente dai confini del territorio della lingua e del dicibile, deformando tali confini, facendo scorgere spiragli di enunciazioni inesplorate, zone di voce ancora pure». Non c’è teoria che possa redimere un’invenzione più appropriata al mondo delle favole che ad un ambito epico che intende celebrare la figura e le gesta della “Pulcelle d’Orléans”, tanto più che la Spaziani non si dimostra in grado di reggere l’endecasillabo nemmeno in questa circostanza, inserendo, non si sa per quale recondito fine, un inspiegabile dodecasillabo, qual è il cervellotico verso microlombat antares unisarfiota, le cui sillabe di seguito vengono conteggiate:

1         2         3         4         5         6         7         8         9         10         11         12
mi     cro      lom    bat     an       ta       res       u        ni        sar        fio        ta

Se le «zone di voce ancora pure» devono essere costituite da un’indecifrabile lallazione, non raramente sgradevole all’udito, anche a quello puramente interno e silenzioso, ben trionfi l’impurità vocale capace di far risuonare significati, più che novelli significanti (meno nobilmente balbettii) privi di convenzione semantica.
__________________________

Ripartiamo da un distico del tutto privo di buon gusto estetico:

La gloria della Francia e di Gesù.
Tutto ciò che lui disse un giorno fu.
ottava 14 p. 13

Finché un astuto a corte ricordò
la profezia di Merlino e disse:
«Un simbolo ci serve. Una bandiera
Basterà a rincuorare i Francesi. (necessaria almeno una brutta dialefe)

Portiamo Caterina (che comunque
è di sangue reale) fra i soldati.
Diamole un bel cavallo, suggeriamo
le frasi a effetto che dovrà gridare.
ottave 15-16

…Seguono scialbe (spesso sgraziate) ottave fino alla 27a, che conclude il primo canto.
Davvero siamo di fronte agli endecasillabi probabilmente più brutti della storia della letteratura italiana! Una versificazione da scolaretto apprendista in cattiva scuola!
Se l’endecasillabo doveva essere uno strumento per rendere ritmica una bella prosa “popolare”, il tentativo è mal riuscito, sia per quanto riguarda il modo di trattare il nobile verso che per una prosa non più tale, perché versificata (male) e decisamente brutta nel suo andamento e nei suoi contenuti. Quanto sostenuto risalta in modo evidente scrivendo di seguito, senza andare a capo, i versi del “romanzo” della Spaziani.

Per i canti successivi sarebbe interminabile e noioso continuare a riportare tutti i brutti passi: pertanto, ed eventualmente, ne sceglieremo in futuro alcuni particolarmente idonei ad arricchire lo “scartilegio” e ci dedicheremo se mai al bruttissimo Epilogo del “romanzo”.

In conclusione, fiacchissima opera di poesia (se tale possa essere considerata) la Giovanna d’Arco  e, in ogni caso, modesto esempio di letteratura. Non si capisce come nessuno se ne sia accorto o abbia voluto accorgersene.
Probabilmente la migliore “ottorighe”  (abbiamo già detto che quelle della poeta non sono ottave classiche) è quella riportata, forse non a caso, nella quarta di copertina, peraltro nemmeno adeguatamente riassuntiva, come avrebbe dovuto essere per la sua collocazione, dello scopo e dei contenuti del volumetto (tale perché piccolo e perché di poco valore).

Amato Maria Bernabei

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Per una terapia del mito: 7. Procne e Filomèla

 

Viviamo anni in cui il potere si diverte a risolvere il problema della parità dei sessi giocando con le vocali, come se modificare una grammatica asessuata (grammatica i cui generi non dispongono cioè di genitali: volpe è femmina grammaticalmente ed indica, guarda caso, anche il maschio!) risolvesse il problema degli stupri, degli omicidi di femmine (pardon dei femminicidi, in contrapposizione ad un maschicidi da creare), la questione del lavoro femminile sottopagato e così via. Del resto è ben più rapido (ma ben meno importante) intervenire su una “o” sostituendola con una “a”, che risolvere gli altri annosi, veri, quanto scomodi, problemi.
Così la femmina continui pure a subire stalking, mobbing, e stupidaggining del genere, nonché a percepire stipendiuccing, e si senta appagata di poter essere finalmente chiamata sindaca, ministra e magari, con un orrore grammaticale, perfino presidenta (e perché no? passanta, ipovedenta e simili).
Meglio abbandonare il sarcasmo e rendersi conto che da secoli per la donna nulla cambia, come risulta chiaro dall’orrore del mito greco di Procne e Filomèla.

Nella guerra contro il re di Tebe Làbdaco, il re dei Traci Terèo aveva prestato aiuto al re di Atene Pandìone, il quale, per riconoscenza, gli aveva dato in moglie la figlia Procne.
«Tereo, però, desiderava anche l’altra figlia di Pandione, Filomela; la sua storia assume, da questo punto in avanti, connotazioni infernali. Per riuscire nel suo intento, infatti, egli ritornò ad Atene e diede a Pandione la notizia della morte di Procne, chiedendo al suo posto di avere Filomela. Pandione gliela concesse, e Tereo la portò nel fitto di una foresta, dove da quel momento la tenne come prigioniera, impedendole di comunicare con l’esterno, a sua completa disposizione; per evitare che potesse parlare, non esitò a tagliarle la lingua. Per completare la sua messinscena, Tereo fece credere a Procne che Filomela fosse morta.
Ma benché isolata dal mondo, Filomela, che era un’abile tessitrice, riuscì nella sua prigione a tessere un abito sul quale erano rappresentate le scene della sua storia; riuscì poi a far avere il suo lavoro alla sorella. Procne seppe così che Filomela era viva e riuscì a trovare il modo di liberarla.
In occasione delle feste in onore di Diòniso, un corteggio bacchico si diresse nel folto del bosco, capeggiato dalla regina. Essa potè avvicinare Filomela e farla entrare nella schiera senza che venisse notata. Le due donne trovarono poi il modo di vendicarsi di Tereo. Procne gli aveva dato un figlio, Itis; la stessa Procne, con Filomela, lo fece a pezzi e lo mise a cuocere in un calderone, dandolo poi da mangiare a Tereo. Il re si accorse della macabra verità solo quando la moglie gli presentò la testa del bambino. Furente, si scagliò contro le due donne con la spada sguainata, e le avrebbe certamente uccise se Zeus non fosse intervenuto, trasformando tutti i tre personaggi coinvolti in uccelli. L’esatta identificazione è discussa, ma sembra che Tereo venisse trasformato in falco o in upupa, e le due sorelle in rondine e in usignolo».
(Anna Ferrari, Dizionario di miologia greca e latina, Torino, UTET, 2002, alla voce Tereo).
Non è necessario alcun altro commento, ma non si può non osservare che, alle violenze subite, le donne reagiscono in un modo che non fa loro onore, aggravando l’immagine di subalternità della figura femminile, visto che il potere, Zeus, riserva un’uguale, e tutto sommato permissiva, giustizia ai tre personaggi.

*  *  *  *  *  

Procne e Filomèla

tratto da: Amato Maria Bernabei, Mythospoema epico drammatico, Marsilio Editori, Venezia 2006

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   Menestrello

Quando dall’equinozio più si svela

il giorno e la tristezza più contrasta,

garrisce Progne e piange Filomèla. [1]                                   3

Non sempre l’occhio guarda come basta,

e negli affreschi traci oracolari

quello che vede, la figura guasta:                                              6

non i modi tradotti ed esemplari

scorge, ma, come il nesso non prevede,

intreccia almeno tre destini amari,                                             9

l’usignolo, la rondine e l’erede

del re dei Traci. Come nella scena

che interpreta l’errore che travede,                                          12

dove legge per l’estasi la pena,

e la foglia di alloro che asseconda

mutila e stride, e quel che segna aliena. [2]                          15

Il verso che sorride e che feconda,

che solo l’afflizione sente mesto

quando la luce scalda e sovrabbonda,                                    18

vola dalla pietà, però è funesto

nel mito, che riserva al tradimento

e alla violenza l’infernale gesto. [3]                                       21

 

   Meròpe

Il suono dei crepuscoli e il fermento

come poté legare il senso greco

all’abissale e al macabro tormento?                                        24

La rondine sui fuochi nello sbieco

grido che fa sperare nostalgie,

quasi riflesse dove spegne l’eco.                                            27

Come l’assenso delle melodie

dell’usignolo, liquide e fluenti,

dentro la luce e l’ombra delle vie? [4]                                   30

 

   Una vecchia indovina

Intus habes… le redini furenti

e il senno scarmigliato e sanguinario

scuotono dai capelli gli occhi assenti                                      33

e l’assassinio che non ha sudario,

che più lo specchio del paterno aspetto

muove, che salvi il materno divario. [5]                                 36

 

   Menestrello

Non salva il ventre, che curò l’affetto,

ma il seme offese e il frutto non consiglia,

che quanto più impotente, è maledetto.                                   39

Pandìone chiede e il debito aggroviglia

quando riconoscente Progne affida

ed uccide la prima e l’altra figlia.                                              42

Il quinto autunno per il cielo guida
la folle ruota che non fa rumore

logorando il sentiero che si fida. [6]                                       45

 

   Procne

L’estate stinge e riduce il colore

come una giovinezza che si sveste,

forse perché rimpiange dà languore…                                    48

Perché il passato affiora e si riveste

come rifrange e inganna una morgana,

che se ti accosti non ha più la veste.                                      51

Non c’è pienezza che non sia lontana,

anche dove il presente sia contento,

il tratto falso che si mostra e frana.                                         54

Se strugge, ma non urta il sentimento,

fa’ che ritrovi la stagione persa,

in chi le sopravvive e non ha spento                                       57

e dove condivise e si riversa;

fa’ che ritrovi almeno Filomèla,

che il tempo che più cambia fa diversa. [7]                           60

 

   Menestrello

Il desiderio ha il vento ed ha la vela,

solco dall’orizzonte rinascente

al fuso che finisce e non rivela. [8]                                       63

 

   Una vecchia indovina

Il filo, sempre corto, è incongruente…

l’istante ha mille rantoli ed un taglio

che pareggia l’involto differente.                                            66

Fende il dritto di prora ed ha l’incaglio,

come tutto che appare, ma nasconde,

ed è il panno tessuto e non lo smaglio,                                 69

consenso che all’intreccio corrisponde.

La morte vola come l’illusione,

illude il bene e al male lo confonde.[9]                                72

 

   Menestrello

Tocca il Pireo l’amara devozione,

uno dei cieli che l’azzurro splende

come un’insidia nella seduzione. [10]                                 75

 

   Terèo

Progne rimpiange e Progne si protende,

la nostalgia che navigando perde

il profilo dell’aria che discende.                                             78

Nell’anima il passato non si sperde,

bello perfino quando fu infelice

se l’istante felice non disperde.                                             81

E ricordando, se non contraddice,

non ha più dighe e Progne lo richiama

e non ha più dolcezza che le dice.                                        84

Un padre vuole sempre come ama

e raccoglie così come dispose,

che per il frutto al seme si dirama. [11]                               87

 

   Menestrello

Se mai vedesti belle le mimose,

non per l’anima vaghe e per il moto

ma per moto dell’anima alle cose,                                           90

come incanta se sboccia e non è vuoto

Maggio negli occhi di corolla e vento,

dove il prossimo fiore è sempre ignoto?                                  93

Quando assale la stoppia, in un momento

il fuoco scroscia, e la passione tace,

o parla con un altro sentimento                                               96

ma non rivela che diventa audace,

tanto che la richiesta pare franca.

Filomèla già canta come piace                                                99

a quelle notti che la luna imbianca

e rarefà le stelle, e i caprifogli

suona, o desiste se la luce è stanca;                                      102

alle frange dei boschi e dei rigogli

dove traluce il giorno o dove sgronda,

pulsando nelle pieghe dei gorgogli. [12]                               105

 

   Terèo

Solo per poco lascerà la sponda,

e senza rischio, per la sàrtia breve

al vento che propende e non abbonda.                                   108

E a Progne, che l’aspetta, sarà lieve

la lontananza; a me, l’ospite, sacra:

la nobiltà che rende se riceve. [13]                                        111

 

   Menestrello

La falsità che venera dissacra,

ed è più fredda quanto più abbellisce

e più insidiosa quanto più consacra. [14]                              114

 

   Una vecchia indovina

L’erba è profonda, e dove più infoltisce

l’agguato del felino ha gli occhi fermi

e trattiene lo scatto, che stormisce.                                        117

Odora il fieno nei respiri inermi,

distoglie le tiranniche salive

dall’attenzione oscura degli schermi.                                      120

Le barre salde sono alle derive

ed i gabbiani dentro l’acqua rossa

spillano i nati dalle carni vive. [15]                                         123

 

   Menestrello

Filomèla blandisce, perché possa,

e la brama sarebbe già paterna,

per avere ogni abbraccio ed ogni mossa.                               126

Così cieca è la notte che governa! [16]

Il presagio resiste, e poi permette

l’onda senza ritorno che costerna. [17]                                 129

 

   Il Sogno

Mentre il Sonno sospende, s’intromette

l’ùpupa fulva dal becco sfilato

che il cielo all’improvviso circonflette                                      132

capovolgendo, come tormentato,

verso lo sfondo che diventa ondoso,

per uno sbarco d’ombre destinato.                                          135

Perché il volo si espande minaccioso,

snuda su due fanciulle trasparenti

un rostro che se tocca è rovinoso.                                          138

Quando un fulmine, prima dei fendenti,

rompe ed annienta l’angosciosa scena

per tre canti diversi e tre fuggenti                                            141

che nella notte piangono una pena. [18]

 

   Menestrello

Solca la nave e solca l’orditura:

per Filomèla il cielo o l’acqua piena                                         144

una grétola azzurra prefigura.

E l’aquila ha ghermito e differisce,

che spacciò per affetto la congiura. [19]                                     147

 

   Una vecchia indovina

Presta drappi al delitto e custodisce

la notte, e dentro l’ombra il re trascina,

fra terra e mare che non differisce. [20]                                      150

 

   Orióne

Lo stupro implora la virtù divina:

la custodia celeste si addormenta

o gusta una passione concubina. [21]                                        153

 

   Menestrello

Prega gridando e di sfuggire tenta,

ma più si scuote e più la voglia sforza

che prende il corpo e l’anima violenta. [22]                                 156

 

   Una vecchia indovina

L’incubo sveglia un sonno senza forza

quando l’ora paterna sente un grido

al ventre penetrato che si smorza… [23]                                    159

 

   Il Sogno

Dove la primavera intreccia, un nido

sembra protetto e salvo dal rapace,

fino all’unghia inattesa ed allo strido,                                       162

che si prolunga e non è più nidiace,

e quando desta ha voce familiare… [24]

 

   Una vecchia indovina

La fame getta e finalmente tace. [25]                                          165

 

   Menestrello

Non chi non volle e non poté pregare

e perse tutto in un oltraggio solo,

più che con sé, con chi non sa stimare                                   168

che non abbraccia il prepotente assolo. [26]

 

   Meròpe

Non è l’ostio varcato che corrompe,

il taglio secco al cuore del garzuòlo                                         171

per la fiacca membrana che si rompe!

Solo l’anima sceglie ed è inviolata. [27]

 

   Filomèla

Fu dolce il fiume e il vento lo dirompe                                      174

e la natura mite è devastata.

Saprà il bosco, e dal bosco ogni respiro,

ed ogni senso per ogni ventata.                                              177

Perché nessun rispetto, ma il raggiro

ad Atene mentì, mentì al filiale

affetto, come torse a giro a giro                                               180

la castità ed il pegno coniugale. [28]

 

   Menestrello

Senza la punta un’arma non infigge,

e non lede l’ingiuria disuguale                                                  183

dove l’ombra e la luce non confligge;

ma il bianco al bianco che rileva il vero

e la bieca onestà, Terèo trafigge. [29]                                         186

 

   Terèo

Non avrai suono che sarà sincero,

e saprai la parola che ritratta

perché non tratta più nessun pensiero! [30]                               189

 

   Menestrello

Spera la morte, ma la spada tratta

fende la bocca che la mano afferra…

guizza l’ultima lingua ed è contratta                                         192

nella gola, che rantola ed aberra,

perché vibra e non sillaba nell’ancia

la voce che mortifica e rinserra.                                              195

Quale sorte dirà? quale bilancia

terrà la scena per l’ipocrisia

e per l’attore quando cambia guancia?                                    198

Piange la morte e sa la prigionia,

né si dà pena per la fondatezza

la verecondia della signoria:                                                    201

le basta come piange la doppiezza.

Sveste i monili e indossa le gramaglie

il lutto vero, per diversa asprezza,                                           204

che non piange l’inganno delle draglie,

e sente il desiderio che lo spinse

come la mano che intrecciò le maglie. [31]                                 207

 

   La Vendetta

Dalla scintilla atroce dove attinse,

muta, la brace, ha un solo focolare,

ma nutre le due fiamme in cui s’incinse.                                  210

Se tace, non finisce di guardare,

che mentre cova ha gli occhi aperti e fissi,

come la freccia che non può mancare                                    213

ha soltanto il bersaglio ed ha l’eclissi;

ma soffre il dolceamaro che corrode,

i sentimenti che si sono scissi. [32]                                            216

 

   Menestrello

L’impotenza al potere ed alla frode

oppone l’impensabile parola

che udrà nell’orditura chi non ode.                                           219

Non la deprimerà la rozza spola,

che invece porta il fuoco nella traccia

ed ha la stessa rabbia della gola                                             222

nell’indizio che maschera e rinfaccia.

Tesse la veste rara, e poi l’affida

al cenno, che rivela benché taccia. [33]                                     225

 

   L’oracolo

La mano familiare già si annida

insospettata, prossima e Fatale…

la mano scellerata e infanticida. [34]                                           228

 

   Menestrello

La difesa del trono è viscerale:

interpreta, assoggetta e non è dritta,

e sconfina, nel colpo trasversale.                                            231

Così Terèo raddoppia la sconfitta:

teme che usurpi, ed assassina Ariante,

e avvolge la deriva, non la bitta. [35]                                           234

Progne spiega la veste, trepidante,

come svolgesse dall’offerta il danno,

ed il sorriso è quasi debordante                                              237

per la bianchezza, vergine di ranno,

dove il cinabro splende nelle scene…

ma spengono le scene dove vanno!                                       240

…dove la nave immerge le carene

fra l’onda e il legno, dove si confonde

il simbolo che sa soltanto Atene;                                             243

dove nella boscaglia si nasconde

Atena intatta e Pan che si congiunge,

e l’eroe del silenzio è sulle sponde. [36]                                246

Nessun altro potere così funge

che dà l’opposto e cambia la natura,

come l’amore l’odio che raggiunge                                          249

- che nemmeno più sente la frattura -,

dall’intreccio del filo che denuncia

e non dà scampo al cuore che scongiura. [37]                           252

Era il tempo che Bacco non rinuncia,

Bacco che lungo il Ròdope incorona

le donne di Sithònia e l’orgia annuncia                                    255

dove brulica il bosco, che risuona,

di fervide baccanti. Le furiali

insegne indossa Progne, che impersona                                258

il rito delle smanie più carnali,

e nella notte complice dilegua

le compostezze scomode e regali.                                          261

Non sa se come apprese, oppure segua

l’istinto, dove maschera il sentiero

il sottobosco, e l’ombra non ha tregua,                                    264

il passo malsicuro è il passo vero.

Al cascinale il grido è più furioso

del sesso che divampa per il nero:                                          267

forza, rapisce e imperversa a ritroso. [38]

 

   Una vecchia indovina

Ora l’ordito non è più la veste

e intesse nella notte, premuroso,                                            270

più ladro nel piacere delle feste,

l’ultimo dito l’ultima rovina

che tradì, sovvertendo, le richieste. [39]                                     273

 

   Menestrello

La vergogna si sente più meschina

se più il furore abbraccia e più rincuora,

come se fosse mano, ed è pedina.                                         276

Chiedesse al male che la disonora

almeno umanità, perché contese…

ma piange, e la preghiera trascolora. [40]                                   279

 

   Procne

Non fu adulterio quello che si arrese,

non fu la colpa che strappò la voce,

ma piuttosto l’accusa che protese.                                          282

Qualunque strazio sarà meno atroce

e non esiste ostacolo che frena,

non c’è contrasto all’impeto, che nuoce                                  285

come stritola il guscio la dracèna. [41]

 

   Menestrello

Iti, che la cercava, la sorprende,

si sorprende che guardi a malapena…                                   288

…è dentro l’ossessione e non discende

e oscilla, come culla una follìa…

Iti l’abbraccia e appena la riprende,                                         291

ma poi guarda negli occhi la pazzia.

Come trascina per la selva scura

la più piccola preda, che già stria,                                           294

la disumana tigre; come dura

nell’anima sgomenta che si vuota

la nebbia di una morte, prematura,                                          297

Progne costringe e costringendo svuota: [42]

striderebbe la reggia, per orrore,

se non c’è più richiamo che la scuota…                                 300

La madre ha chiesto sangue fino al cuore.

Bolle nel bronzo e scotta allo schidione

le carni fresche, e imbandisce, il livore.                                  303

Siede Terèo, che gusta l’abiezione,

e quando sazio apprezza e si profonde,

il corso non trattiene l’avversione.                                           306

Chiede del figlio, e la pazzia risponde. [43]

 

   Procne

Come lo désti, nel ventre lo porti!

Fame che nell’infame si nasconde,                                         309

che appena basta per sfamare i torti,

il re di Atene, Progne e Filomèla. [44]

 

   Menestrello

Afferra il capo e sbatte gli occhi morti.                                    312

Urla il ventre alla carne che si svela

e rovescia la mensa, e sforza il bolo,

e già rincorre il colpo che raggela…                                        315

ma la pietà divina innalza il volo,

e dà le piume all’ùpupa, commossa,

alla rondine insieme e all’usignolo,                                          318

e una traccia di sangue che le arrossa. [45]

  


[1] Inevitabilmente il mito di Procne e Filomèla induce reminiscenze petrarchesche (e garrir Progne e pianger Filomena; Canzoniere, 310, v. 3; era ne la stagion che l’equinotio / fa vincitore il giorno, e Progne riede / con la sorella al suo dolce negotio; Triumphus Cupidinis, 4, vv. 130-132) non gratuite, come si vedrà nel prosieguo, nell’introdurre la “favola”. Nella stagione primaverile, quando dopo l’equinozio le giornate si allungano, e chi è triste sente acuire la propria sofferenza, per contrasto di fronte alla stagione che torna bella (come accade al Petrarca, appunto, nel sonetto citato: ma per me, lasso, tornano i più gravi / sospiri), garrisce la rondine e si lamenta l’usignolo (nei versi preferiamo Progne, più dolce di Procne), i due protagonisti del racconto.
[2] Non sempre l’occhio è sufficientemente sagace (guarda come basta), sicché a volte non decodifica in modo corretto quello che vede; come accadde a chi, trovatosi in un tempio a Daulide di fronte agli affreschi tracio-pelasgici, che volevano raffigurare i diversi metodi oracolari usati nel luogo, interpretò male i dipinti (quello che vede, la figura guasta, altera il contenuto della raffigurazione), creandone la favola di Procne e Filomèla. Infatti non vi scorge quello che era nell’intento del pittore, i metodi locali di divinazione esemplificati nei dipinti (i modi tradotti ed esemplari), ma, contro il nesso delle figure, intreccia un racconto i cui protagonisti, almeno in tre casi, quello di Filomèla, di Procne e di Iti (l’erede, figlio del re Terèo), sono destinati ad una fine amara (tre destini amari). Così viene fraintesa la scena che finisce per rappresentare l’errore che travede, dovuto al travisamento: cioè il dolore per la mutilazione della lingua inferta a Filomèla dal cognato Terèo, che l’aveva posseduta con l’inganno, perché non raccontasse i suoi misfatti, in luogo della smorfia della sacerdotessa stravolta dalla trance, che sembra perdere dalla bocca una foglia di alloro che un altro ministro le ha porto per favorire la divinazione (legge per l’estasi la pena); nella falsa interpretazione la foglia mutila quindi Filomèla, divenendo la sua lingua che cade, e sembra già stridere per il mito nel garrito della rondine in cui la sorella sarà trasformata (ma per metafora anche nel suo “pianto” di usignolo), “alienando”, alterando quello che indica davvero (naturalmente non è la foglia che mutila e stride, ma la lettura errata di chi la scambia per una lingua).
[3] I versi della rondine e dell’usignolo che “ornano” la stagione sorridente e feconda della primavera e che soltanto le tristezze e le sofferenze possono avvertire come strido e come pianto (sente mesto, come si è detto per il Petrarca) quando la luce del sole diventa più calda, e dura più dell’ombra nell’arco intero del giorno (sovrabbonda), scaturirono dalla pietà degli Dei che trasformarono Procne e Filomèla, che rischiavano di essere uccise, in rondine ed usignolo; in realtà le due figure nel mito sono tutt’altro che degne di pietà, visto che vendicarono il tradimento (Procne) e la violenza, lo stupro (Filomèla), con l’uccisione feroce (l’infernale gesto) del piccolo Iti avuto da Terèo, materialmente attuata dalla madre Procne, che poi imbandì, con le carni del figlio assassinato la mensa del marito.
[4] In che modo il senso greco (qui non solo come “modo di esperire il reale” – cfr. Il mito di Tesèo: l’emulo, v. 10 – ma anche e soprattutto come sentimento) poté associare il garrito (il suono dei crepuscoli; il crepuscolo è la luce fioca che segue il tramonto, ma anche, meno comunemente, quella che precede le aurore: qui estensivamente la parola si riferisce alla pienezza dei tramonti e delle aurore) ed il fermento incantevole dei voli ad una passione così disumana e raccapricciante, tormento degli abissi dell’anima dagli effetti così macabri? (Si evidenzia qui la non gratuità della reminiscenza iniziale). La rondine sui cieli rossi (fuochi) negli stridenti voli obliqui (nello sbieco / grido), il cui suono dà speranza perfino alle nostalgie brucianti, che accende e che porta quasi riflesse dove l’eco del grido si spegne. In che modo concepì l’assenso, la condivisione dell’infanticidio da parte delle melodie dell’usignolo che si sciolgono fluenti come fossero liquide, dentro vie di ombra e di luce? (L’usignolo canta sia di giorno che di notte).
[5] Nella narrazione di Graves, la lingua viene tagliata a Procne, ma nella versione di Ovidio, che seguiamo, è Filomèla che subisce l’amputazione, e Procne prorompe nel grido intus habes, quem poscis – chi cerchi è dentro di te -, quando Terèo, che ha appena ingerito le carni del figlio Iti, chiede di lui; questo avviene probabilmente per il fatto che quasi tutti i mitografi, tranne Igìno, hanno invertito i ruoli delle due sorelle (Robert Graves, I miti greci, Longanesi, Milano, 2002, p. 150, 46.4). Procne dunque, sfrenata, senza più redini (la furia ha perso ogni controllo) ed orrendamente stravolta (il senno scarmigliato… fuori di sé, spettinata e sanguinaria) scuote di fronte a Terèo la testa dagli occhi vuoti del figlio assassinato che, essendo stato fatto a pezzi, cucinato e mangiato, non potrà mai avere lenzuolo funebre (non ha sudario); scuote l’assassinio, che fu mosso più dalla somiglianza esteriore di Iti con il padre (lo specchio del paterno aspetto) di quanto non abbia evitato (salvi) la diversità di indole della madre (il materno divario: presunto!).
[6] Nemmeno il ventre che lo aveva nutrito con affetto difende il figlio, il ventre offeso dal seme traditore di Terèo, il cui frutto, per essere di un uomo così spregevole, non suggerisce pietà (il frutto non consiglia), tanto più sciagurato (maledetto) perché effetto dell’impossibilità di sapere, dell’impotente soggezione alla perfidia. Il re di Atene Pandìone chiede aiuto a Terèo, che regna nella Fòcide, e per debito di riconoscenza gli dà in isposa la figlia Procne, rendendo intricate le vicende del destino (il debito aggroviglia: il debito è soggetto e contiene anche la personificazione del debitore) ed inconsapevolmente condannando alla sventura (uccide) sia Procne che l’altra figlia più giovane Filomèla. La tradizione è alquanto ingarbugliata, sia sui ruoli assegnati alle due fanciulle, sia sui rapporti di parentela che esse ebbero con Terèo: per qualche mitografo infatti Procne è sorella di Pandìone, per altri figlia. Noi abbiamo seguito la tradizione cui attinse Ovidio. Erano trascorsi cinque anni dalle nozze. Il quinto autunno, infatti, guida lungo il corso del sole il carro dalla corsa frenetica e silenziosa, che però corrode il sentiero del tempo lungo il quale viaggia e che è ignaro del suo trascorrere (il sentiero che si fida è però soprattutto la vita umana, che illuminata e riscaldata dal percorso del sole, ha in esso piena fiducia, ma dalla sua corsa inesorabile viene tradita).
[7] Procne parla a Terèo. L’estate stinge i colori e riduce lo spazio di quelli che restano, come una giovinezza che sfiorisce (si sveste), e forse nel rimpianto della floridezza smarrita rende languidi per nostalgia. Perché il passato sembra affiorare e recuperare la sua forma, solo però come un miraggio, come una fatamorgana, che nell’aria rarefatta devìa (rifrange) e riflette i raggi luminosi capovolgendo i profili delle cose, ingannevolmente, visto che quando ci si accosta ogni figura svanisce (che è congiunzione con valore consecutivo: fatamorgana tale che…). Le certezze ed ogni pienezza risiedono solo nel passato (non c’è pienezza che non sia lontana), anche laddove il presente sembri appagante (sia contento), perché solo il passato è fermo nella sua sostanza, al contrario del presente che è una dimensione falsa, che sfugge (frana) mentre si mostra. Se il sentimento di nostalgia che mi strugge non ti offende (non urta) concedigli di rivivere il tempo smarrito attraverso chi sopravvive a quella stagione e quel tempo non ha spento, fa’ che esso (il sentimento), che si protende verso chi condivise quell’età, possa ritrovare almeno Filomèla, vedere quanto è mutata nel quinquennio più fertile di cambiamenti nell’arco dell’intera vita, quello che segna il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza (che il tempo che più cambia fa diversa).
[8] Terèo asseconda i desideri della moglie e si reca ad Atene, per pregare il suocero di permettere a Filomèla di soggiornare per qualche tempo con la sorella. Il desiderio di Procne già veleggia verso Atene, sulla rotta sud-occidentale che porta in Attica (solco dall’orizzonte rinascente, da Est, sia pure di poco), rivolto inconsapevolmente verso la sventura e la fine della vita, verso il fuso delle Moire, che non rivela quando il filo si esaurisce.
[9] Non c’è coerenza nella lunghezza delle varie vite, tutte diverse, ma sempre e comunque brevi; in ogni momento mille vite si spengono, colpite contemporaneamente e livellate, qualunque durata abbiano raggiunto (l’istante ha… un taglio / che pareggia l’involto differente, la diversa lunghezza del filo avvolto intorno al fuso). L’elemento verticale che chiude lo scafo nella parte anteriore della nave (il dritto di prora) fende l’acqua velocemente, e non lascia sospettare la possibilità che si incagli (ha l’incaglio: metaforicamente si allude al destino funesto del viaggio), come ogni cosa che in apparenza è diversa dalla sostanza che cela, non per accidentale errore, ma per preciso disegno (ed è il panno tessuto, non lo smaglio, il tessuto così come è stato concepito, non una fortuita smagliatura; smaglio è licenza di rima), come in questo caso la gentilezza consenziente di Terèo che asseconda (corrisponde) la trama tessuta dal Fato. La preveggenza è oscura, ma allude alla morte di Procne e Filomèla che avverrà per metamorfosi, volerà nella rondine e nell’usignolo: la morte vola come l’illusione, la morte vola come i sogni, ma se “illude”, è perché inganna il bene, che fa sembrare tale essendo invece male, quando sembra pietà divina ed è due volte malvagità, perché “predisposta” dagli dei e perché data in premio per un infanticidio (illude il bene e al male lo confonde).
[10] La gentilezza infausta (l’amara devozione) di Terèo approda nel porto di Atene, in uno di quei giorni (cieli) splendidi dell’autunno, che nascondono il morire della stagione in una luce smagliante, come un’insidia che si nasconde in una seduzione.
[11] Terèo parla a Pandìone. Tua figlia Procne rimpiange il passato e verso il passato si protende: la sua è la nostalgia di chi si allontana dalla terra natìa (navigando perde) e vede quasi discendere nell’acqua e scomparire il familiare profilo di cielo che lascia. (Terèo ancora non esprime la sua indole perversa, al raggiungimento dei cui intenti giova la componente di sensibilità e di gentilezza che la arricchisce). Nell’anima il passato viene mitizzato, e non viene mai dissipato (non si sperde; il “si” è passivante: non si disperde, non viene distrutto), ed è bello perfino quando fu infelice (Leopardi: per quanto triste e che l’affanno duri), dal momento che sa conservare anche un unico istante di felicità e solo quello rivive (c’è nell’uomo la tendenza ad edulcorare il passato). Se poi quello che ricorda coincide in tutto con quello che fu (se non contraddice), allora non c’è argine che trattenga il desiderio che il passato ha di rivivere, come accade a Procne, che ardentemente lo rivuole (lo richiama) e non conosce nessun’altra cosa che le parli e la accarezzi con altrettanta dolcezza. Terèo è abile nel discorso: un padre agisce sempre (vuole) nel modo in cui ama, dimostra l’amore con quello che fa e tutto quello che raccoglie nei figli dipende da quello che seminò (come dispose, in rapporto a come agì) e che dai frutti, attraverso nuovi semi, sarà trasmesso alla discendenza (si dirama).
[12] Mentre Terèo parla, entra Filomèla. Se la tua sensibilità ti ha mai permesso di apprezzare la bellezza incantevole delle mimose (la seconda persona ha valore impersonale), incantevoli (vaghe) non per i moti di un’anima che non possono avere, ma per lo slancio dell’anima verso le cose belle, pensa quanto più delizioso possa essere Maggio, il mese pieno della primavera, che sboccia negli occhi e non è vuoto, ha un’anima (Maggio negli occhi di corolla e vento, occhi che sono insieme fiori e vento che li muove; ma il vento è qui spazio, cielo, e soprattutto anima) e dove ogni boccio che si apre successivamente è sempre una sorpresa (ignoto). Quam si quis canis ignem subponat aristis (Ovidio, Metamorfosi, VI, 456): il fuoco rapidamente avvampa e crepita (scroscia) quando assale le stoppie, la passione che investe l’animo di Terèo però non fa rumore, tace; o meglio, Terèo continua a parlare, ma ora con un sentimento diverso, che tuttavia riesce a mascherarsi nelle argomentazioni (ma non rivela che diventa audace; Terèo non pèrora più la causa di Procne, ma la propria, preso com’è dal desiderio di possedere Filomèla, tuttavia lo fa con abilità, dissimulando le intenzioni), al punto che la sua richiesta sembra leale. Filomèla è incantevole già come sarà il suo canto che piace particolarmente a quelle notti che la luna rischiara (imbianca) rarefacendo la luce delle stelle e sembra lei suonare i sambuchi (i caprifogli: il sambuco è una pianta delle caprifogliacee), da cui si effonde il verso degli usignoli, o sospendere la musica quando, stanca, ritira la luce. E canta, Filomèla, come piace anche ai ricami fitti e rigogliosi dei boschi, dove i raggi tralucono dalle foglie o sgrondano negli spazi aperti fra i rami, pulsando nelle increspature dei gorgheggi, quasi ricalcandoli (la parola gorgòglio è qui in luogo di gorgheggio).
[13] Solo per poco Filomèla si tratterrà presso la sorella e non correrà alcun rischio, perché il viaggio sarà breve, ora che il vento propende, gonfia favorevolmente le vele e non abbonda, non è eccessivo (la sàrtia breve per metonimia è la nave rapida che renderà breve il viaggio). Così a Procne, che aspetta la sorella, sarà più accettabile la lontananza; quanto a me, l’ospite sarà sacra: è l’imperativo della nobiltà, che non può non rendere un favore quando lo riceve.
[14] Quando il rispetto è falso, è l’antitesi del sacro (dissacra) e più cerca di vestirsi di belle forme, più risulta insincero e freddo, e tanto più pericoloso, quanto più si appella a principi solenni (consacra; si allude naturalmente al secondo intervento di Terèo, che con molta evidenza ha perso lo slancio e la sincerità che le parole avevano prima che entrasse Filomèla, divenendo untuoso, convenzionale e freddo, perché animato solo da secondi fini).
[15] L’erba è alta e dove è più fitta il felino è immobile nel suo agguato, con gli occhi fissi sulla preda, ed aspetta il momento opportuno per piombarle addosso; ma il suo intento per ora si mimetizza nello stormire del vento che arriva dagli steli (lo scatto fatale è per ora nell’intenzione, e si nasconde, stormisce con il vento). Nelle narici indifese (respiri inermi) della vittima il fieno profuma, e distrae il gusto, il desiderio insopprimibile di assaporarlo (distoglie le tiranniche salive), dall’oscura minaccia, dall’attenzione che il felino riserva rimanendo ben nascosto (gli schermi, per metonimia, sono protési all’assalto). La barra del timone è salda, eppure è alla deriva (la nave di Terèo per Filomèla sarà sciagurata, ed il viaggio, seppure favorevole, la porterà alla rovina) e nell’acqua del mare, arrossata, i gabbiani sembrano spillare ferocemente il sangue dalle carni vive dei piccoli nati (l’allusione divinatoria è rivolta all’infanticidio che Procne e Filomèla porranno in atto.
[16] Filomèla cerca di convincere suo padre (perché possa), che si mostra riluttante, quasi presagisse, con ogni genere di moine (blanda tenens umeros, ut eat visura sororem: Ovidio, Metamorfosi, VI, 476) e l’incontenibile libidine di Terèo sarebbe disposta a diventare paterna (Terèo vorrebbe quasi essere il padre della fanciulla) per potere avere da lei ogni abbraccio ed ogni carezza. Tanto è cieca la notte che assoggetta l’animo umano (pro superi, quantum mortalia pectora cecae / noctis habent! – Ovidio, Metamorfosi, VI, vv. 472-473).
[17] Pandìone, come si è detto quasi presago, alla fine cede e lascia che Filomèla intraprenda il viaggio che non avrà ritorno e lo addolorerà mortalmente (costerna).
[18] Mentre il Sonno – qui divinizzato -, sospende la coscienza e la volontà, s’intromette il sogno di un’ùpupa, uccello dal pelo fulvo e striato e dal becco sottile (uccello che nel sogno rappresenta Terèo, che sarà in tale foggia trasformato da Zeus) che all’improvviso curva il volo (il cielo) invertendolo e tornando indietro (circonflette), come assalito da un fastidio (come tormentato), verso lo sfondo della scena, che si trasforma in distesa marina (diventa ondoso) e permette lo sbarco destinato, quasi predisposto, di ombre umane. Non può essere casuale l’approdo, per la scena che lo segue, dato che subito il volo dell’ùpupa si espande, l’uccello diventa gigantesco e minaccioso, e punta (snuda) contro due ombre, due profili indistinti di fanciulle (due fanciulle trasparenti; nel verbo “snudare” c’è la premonizione: la spada che Terèo rivolgerà contro Procne e Filomèla prima della metamorfosi), non il becco, ma addirittura un rostro micidiale, che se tocca è rovinoso. Ad un tratto un fulmine (premonizione dell’intervento di Zeus) si abbatte, prima dei colpi del rostro portati dall’alto (fendenti: ancora l’allusione alla spada) ed incenerisce la scena angosciante, dalla quale si alzano in volo tre differenti uccelli dal canto diverso, e tutti e tre in fuga (per tre canti… in cambio di tre, a favore di tre) che nella notte di Filomèla sembrano piangere per una dolorosa sofferenza.
[19] Con la nave che riprende il mare viaggia anche la macchinazione di Terèo (l’orditura). Per Filomèla il cielo o il mare aperto (l’acqua piena, perché riempie lo scenario) mentre sembrano sorriderle, sono soltanto una stecca per la gabbia (grétola) che preannunciano (nell’aggettivo azzurra c’è il sorriso apparente che contrasta quasi in ossimoro con la stecca per l’intelaiatura della gabbia). E Terèo ha ghermito la preda con i suoi artigli, ma rinvia il piacere (differisce) al momento più opportuno, pregustandolo, dopo aver spacciato per affetto la sua trama segreta.
[20] La notte copre i delitti (presta drappi al delitto) e sorveglia che si compiano (custodisce), e così il re (Terèo) trascina la sua vittima dentro l’ombra quando terra e mare, nel buio, si confondono (non differisce; nel momento in cui fra il mare e la terra non appaiono differenze; ma, con doppio senso, il buio della terra e del mare non permette di rinviare, “differire” la violenza, come fosse complice).
[21] La consueta amarezza ironica di Orióne. La violenza che Filomèla sta subendo supplica gli Dei, chiede aiuto al loro potere (implora la virtù divina; Orióne non racconta, ma presuppone), evidentemente, però, la vigilanza celeste si è addormentata o sta gustando i piaceri di amori illeciti (concubina è aggettivato).
[22] In realtà, racconta il Menestrello, Filomèla urla e prega e si dimena nel tentativo di sottrarsi, ma più si sforza e più costringe la voglia di Terèo, che si impadronisce del corpo della vittima, ma fa violenza soprattutto alla sua anima.
[23] Ad Atene il padre di Filomèla dorme, ma il suo sonno è leggero (senza forza) ed agitato, e si interrompe all’improvviso, allorché, nel momento della violenza, egli sente urlare (l’ora paterna sente un grido, la medesima ora, vissuta dal padre, sente gridare nel sonno), come udisse il grido della figlia il cui ventre, posseduto, perde ogni sensibilità, refrattario (si smorza).
[24] Pandìone sogna che è primavera e vede un nido che sembra ben riparato, al sicuro dagli attacchi dei rapaci… fino a quando non piomba un artiglio inatteso e si sente stridere la nidiata, strido che si prolunga e diventa umano (non è più nidiace, di uccellini indifesi, incapaci di volare), e nel momento in cui provoca il risveglio sembra addirittura familiare.
[25] La fame libidinosa è al culmine, eiacula (getta), e finalmente tace.
[26] Non tace però chi cercò di sottrarsi alla sopraffazione e non fu ascoltata nelle preghiere (non poté indica la preghiera impotente, la non efficacia della preghiera, non l’impossibilità di pregare), ed in una sola offesa perse tutto, più che nei confronti di se stessa, nella valutazione di chi (Terèo e chiunque come lui) non è in grado di capire (non sa stimare) che l’assolo violento dello stupro non abbraccia, non ama e non è amato, e dunque non tradisce la fede.
[27] Meròpe aggiunge il suo sostegno a Filomèla: non è l’orifizio violato (l’ostio varcato) che strappa la verginità, il taglio bruscamente penetrato fino al cuore del grùmolo (il garzuòlo, o anche grùmolo, è la parte più tenera ed interna di un cespo di verdura) per la fragile opposizione e per la rottura dell’imène (fiacca membrana). Solo l’anima può essere considerata vergine, che può scegliere di esserlo indipendentemente dal sopruso (la verginità è nell’anima).
[28] Il fiume era calmo e la tempesta lo fece straripare (il verbo dirompere è reso transitivo: lo rende dirompente, lo fa straripare), e l’indole che era mite è stata devastata dalla violenza, diventando feroce. Per quanto tu mi voglia tenere prigioniera nel bosco, griderò al bosco il delitto, e dal bosco lo saprà ogni respiro dell’aria, ed attraverso ogni soffio di vento, ogni udito (ogni senso). Griderò perché non fu certo il rispetto, ma l’imbroglio a mentire a Pandìone (ad Atene) ed a tuo figlio Iti, nello stesso modo in cui avviluppando (come torse) una spirale dopo l’altra, poté tradire la mia verginità e la fede coniugale.
[29] Un’arma senza la punta non infilza, così un’ingiuria ingiustificata, non adeguata all’oggetto offeso (disuguale), non offende nella dimensione psichica, dove non c’è conflitto quando c’è un contrasto simile (dove l’ombra e la luce non confligge; bianco e nero non contrastano con ostilità nella mente: chi non claudica non può offendersi se lo chiamano zoppo; confligge è latinismo, da confligěre). Ma il sentire accostare il bianco al bianco, il sentir dire quello che è vero, e l’avvertire smascherato il “pudore” che mira solo a “salvare la faccia” (e la bieca onestà, il volere apparire onesto, l’onestà apparente e quindi falsa) trafiggono Terèo.
[30] Non pronuncerai più nessuna verità  (suono che sarà sincero) e scoprirai come sa ritrattare la parola quando non è più in grado di esprimere alcun pensiero.
[31] Filomèla spera che la minaccia sia mortale, ma la spada che Terèo sfodera taglia la lingua che egli ha afferrato e stringe con l’altra mano. La radice dell’organo (l’ultima lingua) guizza contratta nella gola rantolante (…radix micat ultima linguae, Ovidio, Metamorfosi, VI, 357), che produce solo gutturalità aberranti (aberra), perché vibra, ma non può più scandire i suoni nell’ancia, nella lingua, articolare la voce, che delude i tentativi e rinchiude il segreto della scelleratezza (mortifica e rinserra). Che cosa inventerà Terèo? Che sorte dirà, toccata a Filomèla? Quale equilibrio (bilancia) riuscirà a velare, sulla scena, la recitazione dell’ipocrisia? E quale avveduto espediente avrà il trucco (cambia guancia) dell’attore? Terèo racconta che Filomèla è morta, mentre sa che la tiene segregata, e non si preoccupa minimamente della fondatezza delle sue affermazioni, visto che non potrebbe appoggiarsi alla testimonianza di chi era con lui: si comporta come di solito la spudorata tirannia (la verecondia della signoria; “verecondia” è soggetto di tutto il periodo, e personifica sarcasticamente Terèo), ma il pianto finto (come piange la doppiezza) gli basta per convincere Procne. Il cordoglio sincero di Procne smette l’abbigliamento ricco di ori ed indossa gli indumenti da lutto (le gramaglie), espresso per una sventura (asprezza) diversa da quella reale (lutto vero), che non piange l’inganno nato dal viaggio di Terèo (draglie, cavi di appoggio delle vele, metonimicamente sta per imbarcazione a vela e quindi per viaggio), ed avverte un profondo senso di colpa, attribuendo al desiderio che lo spinse (il lutto è soggetto e personifica Procne) a voler rivedere la sorella la causa della sciagura (intrecciò le maglie, preparò la rete in cui la sorella è caduta, rete del destino, per Procne).
[32] La Vendetta sembra una voce narrante: in realtà parla in terza persona di se stessa. Dalla scintilla feroce alla quale attinse il fuoco (il fuoco della vendetta fu acceso dalla violenza carnale e dalla mutilazione), ora la brace cova in un solo focolare, nell’animo di Filomèla, si nutre silenziosa, sia metaforicamente che realmente, ma prelude allo scoppio di due incendi (cova le due fiamme), perché fu fecondata (s’incinse) dal torto sia per la rivalsa di Filomèla che di Procne. La brace, la vendetta, cova in silenzio, ma non distoglie nemmeno per un attimo lo sguardo dalla vittima, tanto che mentre coltiva l’odio e la rivalsa, tiene gli occhi spalancati ed immobili, come la freccia che punta sul bersaglio e per la quale tutto il resto è vuoto, buio (eclissi); la vendetta, tuttavia, rode con gusto dolceamaro (il gruppo “cea” forma sillaba unica per sinèresi), avverte come una frattura dentro, dovuta a sentimenti contrastanti (scissi: la dolcezza di ripagare con moneta uguale e l’amarezza del doverlo fare).
[33] L’impotenza in cui versa Filomèla escogita un espediente capace di combattere contro il potere e la frode: la parola a cui Terèo non può pensare, il messaggio attraverso il ricamo, che, inudibile, potrà essere udito (chi non ode potrà udire); Filomèla non può parlare, ma trova il modo di farlo in altra maniera: all’orditura metaforica – v. 143 – la vendetta contrappone un’orditura reale). Non si lascerà deprimere dal fatto di poter disporre solo di un rudimentale telaio (rozza spola), che anzi, per quanto primitivo, imprimerà il codice di comunicazione a caratteri di fuoco nella traccia, nel ricamo (purpureasque notas filis intexuit albis: Ovidio, Metamorfosi, VI, 577), gridando con la stessa forza e con la stessa rabbia che avrebbe la voce (gola) della tessitrice nell’accusa provata (indizio; indicium sceleris, Ovidio, Metamorfosi, VI, 578) che Filomèla esprime in modo velato e chiaro nello stesso tempo (maschera e rinfaccia), in modo che soltanto la sorella Procne possa capire. Tesse la veste rara, preziosa nell’ordito, ma soprattutto insolita per il compito che le è assegnato e poi prega una donna che la recapiti alla regina, e dal momento che non può usare la voce, si fa capire con i gesti che sanno rivelare senza parlare.
[34] Già una mano familiare è in agguato (si annida), una mano insospettabile, imminente e voluta dal Fato, la mano che compirà la scelleratezza di uccidere il piccolo Iti (infanticida). Un oracolo aveva annunciato a Terèo che suo figlio sarebbe morto per mano di un congiunto.
[35] La difesa del potere regale è istintiva e profonda (viscerale) e Terèo, più che decifrare davvero il vaticinio, lo sottomette alle proprie paure, assoggetta e non è dritta, non colpisce con precisione “verticale”, ma con approssimazione obliqua, che investe anche l’estraneità (sconfina, nel colpo trasversale). I versi presentano lo specifico in forma generalizzata, intendono affermare che chi gestisce il potere è più attento a mantenerlo con ogni mezzo che a salvaguardare i criteri del buon governo, vagliando di volta in volta e con attenzione le circostanze, ed intervenendo in modo equilibrato e saggio. Per questo Terèo incontra una doppia sconfitta: quella per la quale uccide inutilmente il fratello Ariante, perché teme che possa essere lui a voler uccidere Iti per impadronirsi poi del trono, e quella che deriva dalla prima, per la quale avvolge paradossalmente il cavo alla deriva anziché alla bitta.
[36] Procne srotola la veste, in preda ad una strana ansia, come se dal dono che le è stato recapitato dovesse derivarle una sventura; ma quando vede il purissimo bianco non ancora sbiadito dalle lavature (vergine di ranno; il ranno è un miscuglio di cenere e di acqua bollente che in passato veniva usato per lavare i panni), sul quale splende il rosso vivo delle scene ricamate a mano (il cinabro, solfuro di mercurio, ha colore rosso vivo), si rassicura e sboccia in un sorriso aperto (quasi debordante)… Per poco, perché le scene rappresentate, a causa dello scopo che rivelano, della meta dove si dirigono (dove vanno), spengono subito quella letizia. E le scene vanno dove un segnale, un indizio che solo la sorella ateniese può conoscere, si mimetizza (si confonde) sulla linea d’acqua nella quale una nave (che allude al viaggio dall’Attica alla Tracia) immerge la carena, nelle increspature delle onde. (Abbiamo voluto immaginare che Filomèla non abbia ricamato le scene della sua disavventura, troppo pericolose qualora fossero state accidentalmente viste da Terèo, ma che abbia usato dei codici che solo Procne avrebbe potuto decriptare); [le scene vanno] dove in una boscaglia spicca l’improbabile accoppiamento della vergine Atena con il Dio Pan, così strana rappresentazione da poter alludere solo allo stupro; meno chiara, ma intuitivamente anch’essa allusiva, la figura di Orfeo, l’eroe del silenzio (Anna Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina, UTET, 2002, p. 644, alla voce silenzio), che siede immobile ai bordi (sulle sponde) della boscaglia medesima. La composizione dei ricami è frutto della nostra immaginazione. Attraverso questi segni Procne comprende che la sorella è viva, che è stata violentata ed è tenuta prigioniera, ed è in qualche modo costretta al silenzio.
[37] Nessun accelerante può modificare così prontamente una natura rendendola opposta (dà l’opposto e cambia la natura: l’ordine è inverso, cambia e dà l’opposto), come l’odio che sostituisce (raggiunge) l’amore, colpendolo, cancellandolo, ed almeno equivalendosi ad esso per intensità; “l’accelerante” è naturalmente quello che il ricamo rivela e che genera l’odio, con tale rapidità da non avvertire nemmeno la transizione (la frattura, la diversità fra i due sentimenti ed il momento del passaggio), a causa della rivelazione del ricamo che accusa (denuncia; “dall’intreccio” indica appunto la provenienza, la ragione della metamorfosi sentimentale) e non dà al sentimento nessuna via di uscita, nessun modo di sperare che non sia vero quello che appare, non dà al cuore la possibilità di allontanare il sospetto.
[38] Continuiamo a seguire la versione ovidiana: tempus erat, quo sacra solent trieterica Bacchi. Era il tempo in cui Bacco, ogni tre anni, sfrena l’orgia (non rinuncia) nei boschi di Sithonìa (E42T<Â, nell’antica Tracia, una delle penisolette della Calcìdica) lungo il fiume Ròdope, ed incorona di tralci le donne pronte al rito, e dai bronzi che tintinnano (nocte sonat Rodhope tinnitibus aeris acutis, Ovidio, Metamorfosi, VI, 589) annuncia l’orgia nel fitto delle piante, dove pullulano le baccanti infervorate. Procne si traveste, indossando l’abbigliamento delle furiose baccanti, le furiali / insegne ed interpretando il ruolo di una mènade, il rito in cui si può dare sfogo agli istinti più bassi (furialiaque accipit arma, Ovidio, Metamorfosi, VI, 591) ed in tal modo, con la complicità dell’ombra, riesce a nascondere (dilegua) la scomoda dignità regale. Che ricordi con precisione le indicazioni ricevute, oppure si lasci guidare dall’istinto, il passo incerto, che ha dubbi sul tragitto, perché il terreno è uniforme, non ha sentieri, coperto com’è interamente da erbe, foglie ed arbusti (maschera il sentiero / il sottobosco) e l’ombra è sempre fitta (non ha tregua), alla fine si rivela quello giusto (il passo vero). Quando finalmente Procne giunge alla porta del cascinale dove Filomèla è tenuta prigioniera, il suo grido è più furioso delle orge che imperversano dentro il buio della notte (per il nero): forza l’ingresso, rapisce Filomèla e ritorna indietro con furente veemenza (imperversa a ritroso).
[39] Adesso l’intreccio non è più nelle mani di Filomèla, non è più la veste che lei ricamò (l’ordito non è più la veste): un altro tessitore, il Fato, si affanna per portare a termine il suo lavoro, premurosamente nella notte, più perfido e più ladro (dei destini, della vita, della felicità), perché opera in contrasto con la ricorrenza dionisiaca che impazza, si accinge a “ricamare” con l’ultimo gesto, l’ultima trama rovinosa (l’ultimo dito è soggetto e personifica il Fato tessitore), esso che già in precedenza aveva tradito i desideri e le richieste di Procne, capovolgendoli addirittura.
[40] Al palazzo Filomèla non ha nemmeno il coraggio di guardare la sorella e si sente tanto più in colpa (meschina) quanto più Procne, infuriata contro Terèo, l’abbraccia e cerca di consolarla, come se avesse lei preso l’iniziativa invece che subirla senza poter reagire, come se fosse la mano che muove e non la pedina mossa. Se almeno avesse voce per chiedere pietà (umanità) per la colpa alla quale si oppose con tutte le sue forze (perché contese) e che la disonora… Invece non può fare altro che chiedere perdono piangendo, e la preghiera le impallidisce il volto (trascolora: la preghiera, personificata, impallidisce).
[41] Se ti è stata strappata la voce non fu certo perché acconsentisti al rapporto adulterino, non fu certo per la colpa, ma piuttosto per le minacce che la tua voce lanciò contro lo stupratore (l’accusa che protese). Qualunque supplizio io scelga per vendicarmi, sarà meno atroce di quello che lui ci ha inflitto, ma sono disposta a tutto, non c’è ostacolo che possa governare la briglia e darmi un freno e non c’è forza che possa contrastare il mio furore che è in grado di nuocere, come la dracèna aggredisce e stritola i gusci delle chiocciole (la dracèna è un rettile dei Tèidi, dalla forte dentatura, che si nutre di chiocciole, delle quali stritola il guscio).
[42] Entra Iti, che cercava la madre, e scosso dai rumori e dalla voce concitata finalmente la trova con Filomèla… è sorpreso che la mamma lo guardi a malapena. Procne è ormai dentro la sua ossessione e non riesce ad uscirne (non discende), oscilla con il corpo come chi si culla in una qualche follia (nel modo in cui una follia fa dondolare). Iti corre verso di lei e l’abbraccia e per un attimo la recupera, la intenerisce (la riprende), ma poi scorge con terrore lo sguardo impazzito della madre. …veluti Gangetica cervae / lactentem fetum per silvas tigris opacas (Ovidio, Metamorfosi, VI, 636-637): come una tigre feroce (l’aggettivo disumana è più riferito a Procne che alla belva, che evidentemente non può essere tale, ed è semmai sanguinaria, parola di cui la donna in questo caso diventa sinonimo) trascina dentro l’ombra profonda del bosco una preda appena nata, che fra i suoi denti già lascia tracce di sangue sul terreno (stria); come lo spavento, il terrore crea nell’anima un vuoto che paralizza e perdura, quasi fosse annebbiata prematuramente dal sopraggiungere della morte (prematura si riferisce a nebbia; la seconda similitudine riguarda Iti), nello stesso modo Procne trascina con forza il piccolo figlio e trascinandolo lo svuota per il panico.
[43] Non c’è più voce, non c’è più richiamo che possa fermare Procne: Iti la chiama… e, se potessero, le pareti striderebbero per l’orrore. La spada di Procne ha trafitto il figlio fino al cuore (la madre ha chiesto sangue fino al cuore; il senso è però doppio, e si riferisce anche all’affetto materno che nella follia ha ferito se stesso “fino al cuore”). Il rancore non è ancora appagato, e bolle in pentole di bronzo ed arrostisce allo spiedo le carni fresche del piccolo Iti (scotta allo schidione; lo schidione è un lungo spiedo), ed apparecchia la tavola per il pasto orrendo di cui Terèo si ciberà (e imbandisce, il livore; il livore è soggetto). Terèo siede a tavola e gusta l’infamia, la scellerata mensa (siede Terèo, che gusta l’abiezione) e quando sazio fa eccessivi complimenti alla moglie per la bontà dei cibi (apprezza e si profonde) ormai il corso degli eventi non riesce più a trattenere l’avversione di Procne nel suo esito finale. Terèo chiede del figlioletto Iti e Procne, in preda alla follia, gli risponde.
[44] Come tu me lo désti dentro, così adesso lo porti dentro. Tuo figlio è ora la fame (il pasto ingerito) che si nasconde nel ventre dell’infamia, ed è appena sufficiente per togliere la fame di vendetta al re di Atene ed alle sue figlie per i torti subiti (l’insistenza per significato o per suono, fame, infame, sfama, rimarca il delitto).
[45] Mentre urla, Procne afferra per i capelli la testa di Iti e scuote i suoi occhi morti davanti al padre esterrefatto (cfr. v. 33; nella voce sbatte c’è anche, per contrasto tragico, il muoversi delle palpebre vive). Nell’apprendere che carne ha gustato, Terèo si ribella ed urla, rovescia la tavola apparecchiata ed è assalito da conati di vomito (sforza il bolo) e rincorre le due sorelle (Filomèla è evidentemente entrata al culmine della tragedia) per ucciderle (e già rincorre il colpo che raggela, che dà il gelo della morte; il colpo è complemento oggetto). Ma la pietà di Zeus interviene, commossa, e trasforma i protagonisti della tragedia in uccelli: Terèo in ùpupa, Procne in rondine, Filomèla in usignolo; sulle piume di tutti e tre, sfumature di rosso ricordano il sangue del misfatto.

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Verba volant, scripta manent…

 ADESSO ANCHE LE PAROLE RESTANO

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E VEDE QUESTE DUE CHE ABBRACCIATI, ABBRACCIATI VOLA
E LUI GLI INTERESSA QUESTE DUE ANIME 
(Roberto Benigni, Inferno, Canto V, RAI)

* * * * * * *

Le parole volano, gli scritti restano. Un motto che va sicuramente aggiornato, perché la moderna tecnologia incide su nastro o in Kb anche immagini e suoni: tanto che possiamo ormai affermare che sicut olim scripta, nunc verba quoque manent (come un tempo gli scritti, adesso anche le parole restano).
Le parole dunque non “volano” più, e chi le dice dovrebbe usare la stessa prudenza, la medesima assennatezza che una volta si suggeriva agli estensori di documenti scritti, prove incontrovertibili del pensiero espresso.
Eppure nessuna accortezza sembrano manifestare le sfacciate ignoranze contemporanee, che non hanno alcun pudore, né forse possono averlo, se questo è frutto di consapevolezza della cosa di cui aver ritegno.

Così Umberto Broccoli può ostentare un Latino dalla grammatica improbabile che esiste solo nella sua mente e spacciare sinestesie per ossimori, o citare a vanvera il Manzoni (http://www.odanteobenigni.it/?p=815); professoroni universitari possono permettersi svarioni da alunnetti (l’Onorevole Professor Francesco Boccia dichiara per radio, di un giornalista: “Spero non cadi nella tentazione”…); giornalisti e personaggi di vario genere parlare in modo sgrammaticato (http://www.odanteobenigni.it/?p=1548); il Nobel 1997 per la Letteratura, Dario Fo, al settimo posto nel 2007 nella lista dei maggiori geni viventi (The Daily Telegraph) può riferire che Dante ha scritto il “De vulgarIS eloquentiAM” e dire, del trattato, inaudite sciocchezze radiofoniche, in un Italiano per giunta precario per un genio insignito a Stoccolma (http://www.odanteobenigni.it/?p=782); e Benigni può sproloquiare nefandezze su Dante, non curandosi che qualche meno abbagliata e più diligente persona possa accorgersi della sua vergognosa incompetenza
(http://www.odanteobenigni.it/?p=1382).

Se le parole non “volano”, si librano però fitte mandrie di asini, non più bizzarre creature della fantasia, ma incarnate metamorfosi collodiane, che ragliano ignoranza sbattendo ali pelose in foschi cieli di decadenza… un tempo azzurri, per le rincorse delle rondini.

Amato Maria Bernabei
19 Agosto 2013

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Mia Madre

.
.
…………………………Ho sempre saputo poco della vita di mia madre, ancor meno della sua giovinezza, meno ancora dell’adolescenza, niente dell’infanzia e della sua nascita. Perciò ho voluto tracciare a grandi linee le tappe della sua esistenza, immaginandola bimba, fanciulla, giovinetta, donna, e quindi guardando con gli occhi dell’anima la sua maturità, la sua vecchiaia, ricordando la morte direttamente ed esclusivamente vissuta. Tutto in un’aura sognante, di delicata mestizia e di profonda commozione.

_____________________

 

BIOGRAFIA

* * * * *

9 Luglio 1906

Forse pioveva, ed era l’aria
immersa in quel sapore
umido di pietre accalorate,
quasi fumanti
aliti di stalle. O forse
in un azzurro senza ombre
il sole profumava gli altipiani,
e dondolava il vento
foglie e canti
inaccessibili.
Nascevi,
tu come tanti fiori,
e già chiedevi petali
al tempo.

Infanzia

Sappiamo che durò
da soffio a soffio
la primavera,
che fuggì con ali
ingorde di rapace,
nel solare spazio
della stagione che tradisce,
e si piegò tradita
perdendo il volo.

Ma fu ridente,
spensierata e dolce
di giuochi e di lusinghe.
Colse negli occhi neri
notte e lampi
dei foschi vortici
montani,
gridò stelle purissime
scheggiate
da ventate taglienti,
si bagnò negli odori
che rincorse
nei vicoli incrociati tra le case
strette
in un affollato
desiderio.

E si stupì delle sere
sepolte nei silenzi di neve,
ed inseguì seduta al focolare
le frementi spirali
della fiamma e le faville
effimere…
Come sulla fuliggine del muro,
in una vampa sterile,
si propagava rapido
il sogno.

O rise l’abbandono spensierato
degli incontri festosi,
l’intesa solidale
che si accende
nei giuochi di bambina
fervidi;
pianse la rabbia del capriccio
e dello scontro ostile,
o tenne il broncio… quel velo
dell’infanzia
sopra l’onda che scintilla.

Nel letto, a sera, si sentì sicura,
se colse da uno sguardo intenerito
una luce
che avrebbe stemperato
l’ombra; o forse paventò
le gigantesche
braccia del buio e si raccolse
come in un guscio,
strinse gli occhi
ai fantasmi della mente.

E si compiacque, in una luce viva
come nessuna, di vezzi e gestri
e di carezze lievi sui capelli
d’inchiostro,
chiese più volte al silenzioso
vetro
se fosse bella.

Crebbe.

Adolescenza e giovinezza

Forse lo seppe dal silenzio
strano di oggetti familiari,
dal perduto suono
dei giuochi,
da contorni più chiari e senza frange,
dalle favole stinte…
o da uno sguardo che le scese
in cuore.

L’acquarello nebbioso
e senza bordi
era svanito.
Ma s’infiammava un orizzonte
chiaro di nuovi sogni…
il canto delle sere su ricordi
tremanti, l’invaghita
luce degli occhi, il volo
di pensieri fruscianti, l’abbandono,
l’improvviso trasalimento,
il vento senza voce
di un dolore
dolce, l’incantato
smarrimento.

Ora lo specchio
complice tramava
tele sottili di studiati sguardi,
di colori appoggiati all’incarnato
fresco del viso, di tessuti
arrendevoli, venati
di merletti,
e di capelli sciolti
ad invitare il vento.

Un suono di campana sul raccolto
paese già chiamava
al rito,
e nell’aria di festa, dal groviglio
di strade, lungo l’erta, convergeva
la gente ad un incontro.

Distolta dallo specchio
s’incamminava al canto, alla preghiera
ed al segreto desiderio.
Così lo sguardo divideva il tempo
tra i fiori dell’altare
e il fuggitivo lampo,
e la mente
tra il pensiero devoto
e l’invadente passo del cuore.

4 Ottobre 1930

Forse pioveva, ed era l’aria
immersa in quel sapore
umido di legna, già pervaso
di varchi di cantina,
o forse il sole
scioglieva da un cristallo
senza ombre le tinte
accese dell’autunno,
e il vento agli altipiani
dondolava foglie e canti
inaccessibili…

…e nello sguardo vago
le scintille d’argento dei vallivi
gàttici. Tremavi,
come se fosse nella mente
accesa un’onda, come il velo
d’arancio che la mano
spandeva ad ogni passo,
come il candore
della tua speranza.
Tremarono
le luci dell’altare
nei fumi dell’incenso,
fuggì la voce debole
nel timbro sontuoso
delle canne.

Maternità

Ora nel sogno respirava
inquieta un’altra fiamma
e si animava un tempo
di dolcezze ineffabili,
di riti
antichi e misteriosi,
di struggenti
intese: sorrideva indefinito
un volto…
e prese forma,
e richiamava
tenerezze impulsive, angosce,
canti, cullati errori
della mente, caldi
presagi inavverabili,
tenaci ardori.
Ma passò da soffio a soffio
la primavera,
e si ritrasse il volo
intimorito.

Maturità

Fu quando si spezzò
l’ordito fragile,
quando un timore
fu certezza, quando
irruppe dal sereno
all’improvviso
un lampo.
Si smarrivano le trame
cadendo come segni
di un autunno precoce,
ritesseva senza scampo
il telaio impazzito.

Ma il cuore ardì
comporre altre speranze,
si rifugiò tenace
nel pensiero, fervido
di promesse,
e fu colpito ancora,
come un cervo
che s’impiglia nei rami
correndo
ed è finito.

Vecchiaia

Così cadde la sera.

E dentro gli occhi
il sole si spegneva
in raggi bassi e lenti,
stormivano carezze
dell’anima smarrite.
Non c’era un’illusione
che fuggisse
dallo scrigno sepolto,
non restava
che un’àncora di grani
tormentati
da una speranza ultima.

26 Novembre 1986

Cadevano le foglie,
ultime foglie in una sfera
azzurra che gridava:
sembrava che ci fosse
luce soltanto.

Venne il momento altissimo
dell’ombra,
venne improvviso il vento
che cancella,
venne il silenzio
che più non si varca.

                       24 Gennaio / 9 Febbraio 1989

Amato Maria Bernabei

UN COMMENTO

Poesia altissima, caro amico, capace di toccare ogni corda dell’anima, per rinverdirne e, insieme, lenirne il dolore… Mi sono ritrovato “fratello” nelle pause, nelle parole e nella musica. Ho ripensato alla mia, di madre, alle cose che non le ho chiesto, al suo universo di fanciulla, alle ferite segrete, alle paure… L’ultima volta che sono andato a farle visita, le ho dormito accanto: mi ha svegliato con una carezza lieve; mi ha detto: eri inquieto, stanotte… Grazie, caro amico.

Professor Pasquale Matrone

 

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A proposito del nominalismo

A proposito del nominalismo

Stat rosa pristina nomine. Nomina nuda tenemus.
Permane la rosa originaria nel nome. Noi abbiamo soltanto nomi nudi.
(Bernardo Morliacense, De contemptu mundi)

Con questa citazione Umberto Eco chiude Il nome della rosa, schiudendo il senso al titolo del romanzo.
L’intelligenza latina distinse il tutto (universus) e ciascuna cosa (omnis), l’insieme (cunctus) e l’interezza (totus), attraversando l’arco che va dal tutto assoluto al particolare, al focus come messa a fuoco della singolarità, attraverso le varie categorie (ad esempio l’insieme dei senatori: senatus cunctus) ed il tutto relativo (l’integro sincero: tota Graecia), ed ogni distinzione è in un modus verbale che non è falso non essendo vero, che non è falso né vero, perché ha limiti nel contenere in parte o nel non distinguere le parti: dire universo, includendo tutto, trascura l’attenzione sulle sue componenti. Eppure non c’è vocabolo che neghi il contenuto che nel segno attesti, quello che effettivamente annuncia.
Quando il talento mentale, l’acuta stoffa della mente, è assediato da un pensiero che provoca angoscia in chi lo nutre (masochista) e in chi ne viene a conoscenza (sadico), che degenera in un opprimente assillo per tutti, rivelandosi in fondo cieco, incapace di pervenire alla verità, non si comprende come una prospettiva impossibile, che dà importanza a ciò che non può conseguire l’esito sperato, che dà cioè rilievo a ciò che non acquista, possa diventare attraente. Ricercare una montagna di carbonio puro cristallizzato (diamante) è una follia, e si rivela nocivo in modo estremo se diventa spina, se diventa un’ossessione.
Se il nome della rosa è solo un nome, o se invece è una rosa (predica una rosa, annuncia, indica una rosa), o ancora è la generalizzazione, il concetto di rosa, che contrasta con i casi particolari, cioè con ogni singola rosa, al punto da essere guasto di significato, perché fisicamente inesistente, o se infine esso (il nome) qualunque vedere infine sposa, indica ogni esperienza vissuta dal singolo essere umano (secondo la di lui mappa del mondo) di fronte a un oggetto considerato, che cosa cambia di quel fiore di cui parliamo e che si lascia vedere e che per ciò stesso deve esistere?
Esiste o non esiste quel fiore? non ne stiamo forse parlando? è cosa plausibile farlo o è cosa discutibile? se neghiamo precisi significati nell’uso delle parole ed ogni possibile vero dei medesimi – ammesso che per vero intendiamo la stessa cosa – di che parliamo? La comunicazione diventa impossibile. E poi siamo sicuri che il solo ad aver ragione sia chi nega ogni possibile verità? E se davvero tutto è negabile nel suo significato, a che pro scrivere, se tu nulla capirai, che tu sia morto o vivo? (Il sarcasmo gioca sui presunti “indefinibili” significati dei due termini).
Se quando scrivo la parola “lettore” tu che leggi intendi un’aquila che allarga nel volo le sue grandi ali, allora evidentemente nessuna parola si collegherà più all’oggetto di cui è il segno, e fiore non vorrà più significare fiore, ma qualunque cosa tu voglia; oppure la tua mente sarà velata, cieca al linguaggio, o avrai il candore schietto di un artista, che travisa favolosamente la realtà; oppure la realtà stessa sarà sconvolta al punto che vedrai spuntare peli da un tuorlo, perché potrà verificarsi qualunque cosa impossibile. Si vede dunque, con certezza, che per comunicare dovremo pure attribuire un senso alle parole che usiamo e che indicano sempre qualcosa di esistente, nell’accezione non solo di cosa realmente tangibile, ma anche di prodotto mentale (il concetto di cavallo, o l’astrazione di una qualità come ad esempio la bellezza) o di natura sentimentale (l’odio “esiste”, pur non avendo certo una sostanza materiale), o ancora di sensazioni (la tonalità emotiva del dolore), di propriocezione (il senso di posizione dei movimenti degli arti e del corpo), di spinte interiori (attrazione, fisica o spirituale) e via dicendo.
La generalizzazione, soprattutto, sembra creare difficoltà. Si dice ad esempio che la bellezza non esiste perché nessuno l’ha mai incontrata, ma è evidente che essa è in tutte le cose che diciamo belle, perché di quella idea incarnano le caratteristiche. Come si è visto in precedenza, non necessariamente una voce della lingua deve riferirsi a qualcosa di concreto: chi ha stabilito che un segno verbale debba alludere ad un corpo e non possa indicare un concetto che include tutti i casi particolari senza trascurarne alcuno? Nessuno ha mai visto il pensiero nella propria mano aperta, eppure tutti sappiamo che cosa vogliamo intendere allorché ne parliamo, sia quando ci riferiamo ad un’espressione unica del pensare che quando alludiamo alla facoltà.
La natura umana dispone di tre versi, tre meccanismi difensivi nei confronti del sovraccarico di stimoli che il mondo circostante invia ai nostri sensi, tre modalità psicologiche tramite le quali disegna la mappa del mondo, che ciascun individuo a modo suo descrive, traccia in modo differenziato: generalizza, deforma, cancella, ovvero e ad esempio organizza il mondo per categorie di persone o di comportamenti, modifica la realtà interpretandola, attua delle rimozioni o delle esclusioni (Giulio Granata, PNL, la programmazione neurolinguistica, Milano, De Vecchi Editore, 2001, pp.27-28). Dal punto di vista che ci interessa crediamo che la generalizzazione sia un universale non metafisico, ma comunque sovrasensibile, dimensione in cui albergano come bagaglio a-posteriori gli effetti dell’esperienza umana che diventano geneticamente a-priori dopo un lasso di tempo non quantificabile. Vale a dire che l’umanità, in un arco temporale x, fa esperienza della realtà secondo le precise modalità della propria natura e ne ricava delle conoscenze a-posteriori che vengono profondamente impresse nel patrimonio genetico e trasmesse in eredità come conoscenze a-priori alle generazioni successive. L’ottava, dunque, si richiama all’universale solo nel senso della generalizzazione di cui si è parlato  nelle strofe precedenti, ovvero dei casi particolari che vengono sintetizzati (sia pur in un senso molto più ampio) in una categoria della quale, nel modo in cui si è detto, non si può sostenere la non esistenza.
Non estraete dal vostro ingegnoso alambicco razionale insulse congetture, illustri dottori occupati in questioni del genere, affinché non debba mutare il mio giudizio e considerare menomati i vostri cervelli, intenti a dilapidare il patrimonio del vostro tempo e delle vostre risorse nel ricercare nocche ricoperte da baffi (sarcasmo che intende condannare futilità e vuotezza degli oggetti di interesse sui quali si arrovellano menti tanto qualificate): avviate dispute su “grattacapi” più seri e lasciate alle parole i loro chiari significati convenzionali, limpidamente emergenti dai contesti d’uso.
Nell’Eden delle parole non ci sono “nomi nudi”, nomi che si aggirino senza abiti, senza la veste semantica (significanti senza significato), né, per giunta, c’è una divinità adirata per una nudità che si riconosca e si dichiari a causa di una colpa commessa. Il paradiso terrestre verbale è il vortice che girando centrifuga le parole che esprimono e decorano i pensieri, separandole secondo le loro caratteristiche; le parole vuote sono soltanto quelle combinazioni accentate di sillabe (quasi una lallazione) che suonano sorde, vuote di senso per l’orecchio (qualunque significante privo di convenzione, ovvero di senso concordato)  e che un soffio d’aria già disperde.

ALLA PROSA ESPLICATIVA SEGUONO I VERSI

Universus et omnis, cunctus, totus,
il tutto ed ogni, l’insieme e l’intero,
l’intelligenza fra l’immenso e il focus
per dove assembla o l’integro è sincero,
ed ogni distinzione è dentro un modus                                        5
che non è falso non essendo vero.
Eppure non c’è lemma che contesti
il contenuto che nel segno attesti.

Quando l’acuta stoffa della mente
ha un sadico pensiero masochista                                            10
che per tutti degenera opprimente,
ma infine ha la mancanza della vista,
non si rivela l’ottica attraente
che dà rilievo a ciò che non acquista.
È folle una montagna adamantina                                              15
ed è funesta se diventa spina.

Se il nome della rosa è nome e basta,
e se quel nome predica una rosa
o della rosa è sintesi e contrasta
col senso singolare della cosa                                                  20
(tanto che quel che dice è roba guasta)
o qualunque vedere infine sposa,
¿che cambia di quel fiore che si vede
e che d’essere visto ci concede?

Esiste o non esiste? ne parliamo?                                             25
parlarne è discutibile o sincero?
¿di che parliamo più quando neghiamo
ogni senso del dire ed ogni vero,
se questo, almeno, è quello che intendiamo?
Chi tutto nega è il solo veritiero?                                                30
¿E se tutto è negabile, che scrivo,
se nulla capirai, da morto o vivo?

Se intenderai, quando dirò lettore,
il rapace che allarga il volo al cielo,
allora il fiore non sarà più fiore,                                                  35
o porterai sugli occhi qualche velo,
o di un artista vero avrai candore,
o spunterà dal tuorlo qualche pelo…
è dunque certo che per dialogare
un senso, il nome, dovrà pur cantare.                                       40

L’universale, soprattutto, affanna
e smentisce ch’esista la bellezza,
se non averla vista il senso appanna
e impedisce riscontro e concretezza:
¿ma chi guardò il pensiero in una spanna,                                45
per quanto la parola abbia contezza?
Chi prescrisse che un segno abbia la pelle
e non l’idea che abbraccia e non espelle?

L’umanità nella natura ascrive
tre versi per la mappa che pennella                                           50
e che ciascuno a modo suo descrive:
generalizza, adultera e cancella;
però, per quanto attiene a quel che scrive,
l’ottava l’universo non appella
se non come sorpassa il singolare                                            55
ed oltre i sensi mira a dilatare.

Non distillate allora frasi sciocche
voi dalle menti dotte ed elevate,
ch’io non muti il giudizio in menti tocche
intente a sperperare le giornate                                                 60
nel ricercare i baffi sulle nocche:
di crucci d’altro rango disputate!
Lasciate alla parola nel contesto
il senso che diventa manifesto.

Non c’è nome nell’Eden che si aggiri                                         65
senza l’abito proprio che lo chiama,
non c’è divinità, poi, che si adiri
per una nudità che si proclama:
il paradiso è il vortice che giri
centrifugando il verbo che ricama,                                             70
e la parola vuota è quell’accento
che suona sordo e che disperde il vento.

Amato Maria Bernabei
da L’infinito piatto, poema polemico-satirico inedito in ottave

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In ricordo del Professor Francesco Nicolosi

IN MEMORIA DI UN ILLUSTRE PROFESSORE

La Rete è un pozzo di paccottiglie dove i rari oggetti di valore affogano. Alcuni di essi risultano proprio ignorati o sprofondati senza possibilità di recupero. È indecente che ci sia un’inondazione di miti di nessun valore – quelli effimeri del mercato -, e che figure di rilevante spessore culturale ed umano siano del tutto ignote.

Professor Francesco Nicolosi

Ad una di queste certamente io devo l’amore per la Letteratura, la raffinatezza del gusto letterario, il rigore nella formulazione del pensiero, la cura dello stile (nei limiti delle doti che la natura mi concesse), e perfino la crescita dell’auto-stima, della fiducia nelle mie capacità di eloquio e di scrittura, grazie all’apprez-zamento sempre dimostratomi. Alludo al Professor Francesco Nicolosi, che ebbi la fortuna di avere come insegnante di Italiano nel triennio 1961-62, 1962-63, 1963-64 al Liceo Classico “Gian Battista Vico” di Chieti.
Riconoscente a quanto da lui ricevuto, intendo con questo articolo “eternare” la sua immagine e la sua perizia.
Contemporaneamente rendo omaggio all’amico d’infanzia ed egregio Professore Filippo Canci, drammaticamente scomparso nel maggio dello scorso anno, pubblicando un suo intervento in memoria del comune docente su “La Cronaca Locale d’Abruzzo” del 29 Dicembre 2005, n. 3.

Amato Maria Bernabei

Un ricordo della vita e delle opere
del professor Francesco Nicolosi
scomparso tre anni fa, ha lasciato un vuoto incolmabile

Di Filippo Canci. Tre anni fa, allo spirare dell’anno solare, veniva improvvisamente a mancare Francesco Nicolosi. Uomo vigoroso e vitale, leggiadro di schietta bellezza etnea, cordiale, gioviale, ironico, passionale quanto basta, amante della buona e non micragnosa tavola, figlio illustre e devoto della sua amata Sicilia, non meno innamorato dell’Abruzzo, sua terra di adozione, ha lasciato un vuoto profondo, soprattutto qui a Chieti, nei suoi amici e nei suoi alunni, non meno che nella sua compagna, Maria Rosaria Consoli, e nelle figlie, le dottoresse Marisa e Stefania. Così negli altri parenti tutti.

Nato nel 1923 a Catania, antica nobile città della Sicilia ellenizzata, vi compì i suoi studi, fino alla laurea in Lettere conseguita con lode addì 3 dicembre 1944. Nell’estate 1943, drammatica per la Sicilia e per l’Italia,  poté assistere ventenne agli aspri combattimenti tra i soldati tedeschi attestati sulle pendici dell’Etna e quelli britannici dell’VIII Armata sbarcati nel corno sudorientale dell’isola. Avrebbe ricordato, soprattutto, il valore con cui combatterono i canadesi della I Divisione di Fanteria, quelli che avrebbero combattuto, alcuni mesi dopo in Molise e in Abruzzo, quelli che dopo un’epica battaglia casa per casa, conquistarono, a prezzo di alte perdite in vite umane e in feriti, la città di Ortona a mare, la Stalingrado d’Italia. In Abruzzo egli arrivò, per insegnare ai giovani di questa Provincia di Chieti, nel 1948: aveva 25 anni. Cominciò con la scuola media di Atessa (“Jeder Anfang ist schwer!” [1] avrebbe ricordato con tono autoironico molti anni dopo). Dal 1950 fu a Chieti, prima nella Scuola media Giovanni Chiarini poi nell’Istituto magistrale Isabella Gonzaga del Vasto, infine nel Liceo ginnasio Gian Battista Vico, docente di Lettere Italiane e Latine fino ai primi anni sessanta, quando passò a dirigere in successione, quale preside in ruolo ordinario, i licei classici di Ortona e di Lanciano ed infine l’Istituto magistrale di Chieti nella nuova e propria sede alla Civitella.

Aveva frattanto accompagnato l’insegnamento con esemplari, nitidi saggi critici dedicati al grande conterraneo Giovanni Verga, con speciale riguardo al Mastro don Gesualdo. L’anno scolastico 1977-78 fu l’ultimo anno di servizio nella scuola media superiore: dal 1978 infatti egli lavorò presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università Gabriele D’Annunzio. Divenuto docente universitario, fu titolare della cattedra di Filologia italiana e incaricato di Letteratura italiana dall’anno accademico 1983-84 a quello 1998-99. In tale periodo la di lui attività scientifica si estese da Capuana e Pirandello a D’annunzio e Pomilio; da Sciascia, Bufalino e Buttitta alla Maraini e a Tobino. Collaborava intanto a vari periodici letterari e veniva chiamato nelle giurie di molti premi letterari, ormai personalità di fama non solo in Abruzzo sibbene anche in Sicilia e in campo nazionale.

Studioso convinto della stretta interdipendenza fra struttura socioeconomica e vita civile e letteraria, Francesco Nicolosi impostò la propria attività di critico letterario sulla storia e sulla filologia, coniugando in tal modo l’eredità storicistica di Francesco De Sanctis e quella idealistica di Benedetto Croce con gli apporti più aggiornati della critica strutturalistica e stilistica. La produzione saggistica di lui, pertanto,  si fa apprezzare per sicurezza di metodo, per puntualità di indagine e di raffronti filologici, per felicità ermeneutica, per chiarezza ed eleganza di stile. Vide infine postuma la luce l’ultima fatica di Nicolosi Pirandello e l’altre. Postfazione di Gianni Oliva, Casa editrice Rocco Carabba, Lanciano 2003, pp. 173, Piccola Biblioteca Carabba 2, euro 13,50. Il volumetto, evidentemente frutto di un lavoro editoriale affrettato, che ci si augurerebbe episodico, presenta purtroppo non pochi refusi, a cominciare da quello incredibile sulla costa della brossura. (Detto per incidens, l’adozione dell’elaboratore elettronico, se facilita e affretta i tempi di stampa, non per questo rispetta l’esattezza e la perfezione, a meno che la macchina non venga sorvegliata dall’attento occhio umano). In questo studio, che assume il valore di ultima testimonianza della sua militanza di critico e, come nota l’Oliva, di “estremo confronto autobiografico con il suo autore”, il Nicolosi esplora il rapporto fra Luigi Pirandello e il mistero trascendente dell’essere e della vita, di quel totalmente Altro, secondo la felice espressione di un famoso teologo [2]: dalla giovanile silloge poetica Mal giocondo agli ultimi drammi. E l’assunto sostenuto è che questo tema è sempre presente nell’arte pirandelliana ed è più importante di quanto la critica non abbia sospettato o non voglia ammettere.

Professore severo e cordiale, oltre che giusto, così lo ricordo da quando (era l’ottobre 1964 e in quell’anno scolastico ricorreva il VII Centenario della nascita di Dante Alighieri) lo ebbi mio insegnante al Liceo Classico di Chieti. Con i miei compagni di allora rammento, oltre all’indiscussa preparazione, la personalità spiccata e compiuta di uomo del Sud, di galantuomo e di gentiluomo, l’umanità profonda e varia di docente e d’intellettuale, la severità sollecita di educazione di tutti gli allievi, le battute ironiche ed allusive lanciate nel suo persistente accento catanese. Ricordo, soprattutto, una frase, che mi confidò agli inizi della mia carriera d’insegnante nel Liceo classico di Ortona e che non ho potuto dimenticare: “Bisogna amare gli alunni”. E perciò, in forza di questo, Francesco Nicolosi fu ed è professore amato e rimpianto.



[1] Ogni inizio è difficile (ndc).
[2] Karl Barth, Lettera ai Romani (ndc).

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