I volti segreti di Giotto


Uno straordinario saggio di Giuliano Pisani

“Una splendida avventura intellettuale nel cuore dell’ispirazione di Giotto e dell’affascinante mondo del Trecento italiano” (Antonia Arslan)

La ricerca muove da un’apparente stranezza e indizio dopo indizio, come in una trama poliziesca, arriva a scoperte sorprendenti all’interno di uno dei più celebri capolavori della storia dell’arte universale, la Cappella degli Scrovegni di Giotto. Le singole tessere trovano la loro esatta collocazione e vanno a comporre un perfetto mosaico. Ne esce la dimostrazione di un rigoroso codice filosofico-teologico ispirato a Giotto non dal Dante tomista, come si è sempre creduto, ma da un frate agostiniano, Alberto da Padova, maestro alla Sorbona, tra i più celebrati teologi del suo tempo. Cadono così inveterati luoghi comuni e addirittura vengono individuate figure mai viste prima in uno dei punti fondamentali del ciclo, la mandorla iridata di Cristo Giudice: al posto dei presunti simboli degli evangelisti compaiono un centauro, un orso, un luccio… Un caso che ha avuto un’eco internazionale. «Queste puntuali rettifiche – ha scritto Lorenzo Mondo – sono il risultato di un accessibile, affascinante percorso nella cultura del tempo. Rappresentano i nodi essenziali di un libro che non trascura tuttavia di intrattenere il lettore sulle più vivide e vulgate sezioni degli affreschi riguardanti le storie della Vergine e di Gesù. Quasi una guida, colta e amabile, a immagini e allegorie che costituiscono un unicum nella storia dell’arte e della simbologia cristologica medievale» (http://it.wikipedia.org/wiki/Giuliano_Pisani#cite_note-5).

 

In anni non lontani si poteva restare in compagnia di Giotto senza limitazioni di tempo, nella piena tranquillità dell’area verde affacciata sull’ovale dell’antica Arena ro­mana di Padova. Si entrava dalla porta principale, con stridore di cardini. Il sole si faceva largo inondando di ta­glio gli affreschi, svelandoli all’improvviso. Poi si indugia­va nella ritrovata penombra, stregati dagli effetti che il movimento della luce creava dialogando con figure e co­lon. Ricordo ancora l’emozione della mia prima volta, alla fine degli anni Sessanta.

Qui, tra il 1303 e il 1305, si produce un miracolo che non ammette confronti possibili con nessun’altra epoca e nessun altro artista. Il linguaggio dell’arte viene radical­mente innovato: Giotto dipinge figure vive, reali, colte nel­la dinamica dei loro gesti e dei loro sentimenti, con un’ac­curata ricerca anatomica che arriva a introdurre la tecnica mai vista prima dello scorcio. A una sensibilità dello spazio completamente nuova s’accompagna la creazione della prospettiva (non quella geometrica, certo, ma quella che scandisce i piani e crea il senso della profondità). Su tutto, un talento inarrivabile che usa il colore come nessuno pri­ma e pochissimi dopo di lui. Un’autentica rivoluzione. Agli inizi del Trecento Padova divenne, grazie a Giotto, la capi­tale della pittura: qui accorsero maestri da ogni parte per vedere, imparare, copiare, imitare (da Paolo Veneziano a Paolo Uccello, da Piero della Francesca a Michelangelo).

Nel giugno del 2001, a conclusione di oltre vent’anni di indagini e studi preliminari, l’Istituto Centrale per il Re­stauro del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Comune di Padova, proprietario della Cappella dal 1880, avviarono il restauro degli affreschi. Un anno prima erano stati completati gli interventi sulle superfici esterne dell’e­dificio e si era inaugurato l’adiacente Corpo Tecnologico Attrezzato. Qui i visitatori, in numero massimo di venti­cinque per volta, sono chiamati a sostare una quindicina di minuti per sottoporsi a un processo di deumidificazione e depurazione dalle polveri. Poi entrano nella Cappella pas­sando attraverso la porta palatina, l’accesso riservato un tempo agli Scrovegni. Nel marzo del 2002, dopo alcuni mesi di febbrile lavoro, con tre diverse squadre che si al­ternavano senza sosta, ventiquattro ore al giorno, sotto la sapiente guida di Giuseppe Basile, la Cappella fu riconse­gnata al mondo in tutto il suo ritrovato splendore. Il pub­blico ebbe anche la possibilità di salire sui ponteggi nei fi­ne settimana e di vivere momenti di grande suggestione «a tu per tu con Giotto». [1]

Il restauro aveva messo in luce particolari inediti e sug­gestivi: le lacrime sul volto delle madri nella straziante sce­na della Strage degli innocenti, i preziosi ricami sulle vesti e sulla tovaglia bianca nelle Nozze di Cana, il recupero del­l’antica tecnica romana dello stucco lucido (o marmorino) con cui Giotto dipinge il sepolcro nel riquadro del Noli me tangere, l’uso plastico del colore per scolpire figure come il san Giovanni nella scena del Compianto sul Cristo morto o realizzare stupefacenti effetti tattili, come nel caso degli alberelli del monocromo dell’Ingiustizia.

Fu un periodo entusiasmante anche per me: il ruolo di assessore alla Cultura di Padova mi dava l’opportunità di trattenermi spesso e a lungo all’interno della Cappella. Un giorno fui attratto da un particolare che non avevo mai os­servato prima: nel registro più basso della parete sud, quel­lo dei monocromi con le allegorie delle sette virtù, la Speranza, con il suo slancio aereo e leggero, seguiva la Carità nella successione delle virtù teologali. Curioso: fede, ca­rità, speranza, e non fede, speranza, carità, come siamo abituati a dire da san Paolo in poi.

Istintivamente lo sguardo corse alle virtù cardinali e mi parve di cogliere anche qui una stranezza: chissà perché non erano disposte nell’ordine per noi abituale – pruden­za, giustizia, temperanza, fortezza – ma in un’altra sequen­za: prudenza, fortezza, temperanza, giustizia.

Di fronte alle sette virtù, lungo la parete nord, ci sono le allegorie di altrettanti vizi: Stultitia, Inconstantia, Ira, Iniusticia, Infidelitas, Invidia, Desperatio. Ogni vizio rappresen­ta l’esatta antitesi della virtù contrapposta, ma mi chiedevo per quale ragione non fossero invece rappresentati i vizi ca­pitali (lussuria, gola, avarizia, accidia, ira, invidia, super­bia), sui quali Dante costruisce l’architettura delle prime due cantiche. Non riuscivo a comprendere che logica fosse stata seguita.

Sulla Cappella degli Scrovegni esiste una vastissima bi­bliografia: per soddisfare le mie curiosità, presi a sfogliare gli studi più autorevoli e recenti. Ma non trovai le risposte che cercavo.

La sequenza delle sette virtù, le quattro cardinali e le tre teologali, è generalmente considerata come un percorso devozionale che porta al Paradiso, mentre quella dei vizi se­gna la strada maestra per l’Inferno. La fonte è spesso indi­viduata nella Psychomachia di Prudenzio, un poeta latino cristiano del IV-V secolo. Viene data per assodata anche una strana teoria: per ragioni di opportunità e piaggeria nei riguardi del committente, di fronte alla virtù teologale della Karitas Giotto avrebbe compiuto una sostituzione grave, dipingendo come vizio contrario l’Invidia anziché l’Avaritia, perché quest’ultima avrebbe richiamato l’attività del padre di Enrico Scrovegni, Rinaldo, che Dante pone nel settimo cerchio tra i dannati per usura (Inferno XVII, 64­-75). La palese infondatezza di una simile ipotesi, unita alle deludenti risposte che venivano dalla letteratura su Giotto, mi spinse a una ricerca, inizialmente tesa soltanto a com­prendere la logica della sequenza vizi-virtù. Lo schema si ri­velò ben presto un sofisticato disegno filosofico-teologico. Non poteva essere stato Giotto a pensarlo. Compresa l’im­postazione, cercai quale potesse essere la fonte dottrinale e riuscii a individuarla. Avevo trovato una chiave di lettura fondamentale. La curiosità era ormai inarrestabile: ampliai l’indagine all’intero ciclo. Ne emergeva un programma di grande profondità e sottigliezza. Era come ricomporre un mosaico riconoscendo a ogni tessera la sua funzione e veri­ficando la perfetta coerenza del tutto. Via via cadevano in­veterati luoghi comuni, interpretazioni fallaci, errori di prospettiva culturale e storica. Veniva alla luce il disegno di una mente raffinata e coltissima, che si muove con preci­sione assoluta anche nei più riposti dettagli. Una persona­lità cui l’artista stesso rende omaggio ritraendola nella con­trofacciata con il modellino della Cappella sulle spalle, a in­dicare simbolicamente che quel religioso, avvolto nella lun­ga cotta bianca, è l’ideatore, l’impaginatore dell’intero ci­clo, la guida, il suo maestro di teologia; un maestro che Giotto asseconda con la magia e l’emozione della sua arte rivoluzionaria e inarrivabile. È stato esaltante entrare in sin­tonia con lui, capirne le scelte, ricostruirne le letture e la vi­sione ideale, cercare di dargli un nome per risarcirlo di tanto ingiusto oblio.

Da una semplice curiosità era nato un viaggio appassio­nante, un’avventura dello spirito dai risvolti imprevedibili e dalle rivelazioni sorprendenti. E che avrebbe riservato anche un autentico colpo di scena. 

Giuliano Pisani

[1] La storia del restauro è descritta nel volume Il restauro della cappella degli Scrovegni. Indagini, progetto, risultati, a cura di G. Basile, Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Istituto Centrale per il Restauro, Skira, Milano, 2003. In particolare, per la descrizione dei vari interventi esterni, si veda da pag. 160. Il Corpo Tecnologico Attrezzato (CTA) è stato ufficialmente inaugurato nella primavera del 2000, nell’ambito delle misure di salvaguardia del ciclo giottesco propedeutiche al restauro del 2001-2002.

 

 

 

 

 

Add Comment Register



Lascia un Commento

*
To prove that you're not a bot, enter this code
Anti-Spam Image