Ci aspetta un futuro di plenaria idiozia,
la cultura di massa sta per produrre l’ignoranza globale

Giovanni Grazzini
(altravoce.blog.espresso.repubblica, 4 dic. 2008)

 

Lo stereotipo per cui la cultura era una volta per un’élite, mentre, per fortuna, oggi è “popolare” (popular culture), è un perfido cliché da commercianti, che produce nebbia nelle coscienze, appiattimento della fantasia, depauperamento del livello culturale e… banconote nelle casseforti dei furbi.
Chi detta il “verbo” mediatico non sopporta di essere contraddetto:

IO SONO IL SIGNORE DIR TUO
NON AVRAI ALTRO DIRE ALL’INFUORI DI ME

È il precetto introduttivo delle nuove “leggi divine”, che mirano all’imporsi definiti-vo dell’ANTICULTURA.

L’“anticultura” è tutto ciò che miri a fare uso dell’uomo e che venga inculcato al solo scopo di ricavarne un vantaggio economico: ammannire banchetti di fandonie spacciandoli per prodotti culturali, sull’offensivo e disonesto presupposto che l’altrui insipienza va sfruttata, non curata; spargere spazzatura mediatica, senza nemmeno predisporre gli appalti che periodicamente liberino lo spazio dall’immondizia; svilire l’essere umano al rango di creatura minorata che tutto beve e tutto consuma, illudendolo di ben nutrirlo.

Anticultura è la spudoratezza che per mero tornaconto vende all’altrui dabbenaggine l’ignoranza.

Anticultura è quella che pubblica le scritture di Vasco Rossi, di Alex Del Piero, o di qualunque personaggio mediatico di turno, spacciandole per libri; che assegna titoli onorifici a cani e porci; che allestisce centinaia di premi letterari abbindolando scrittori che non esistono; che organizza mostre di scarabocchi e concerti di stonature; che premia Il Grande Fratello come programma culturale dell’anno (2001); che moltiplica schermi di miti fasulli e di chiacchiere interminabili e vuote; che espone al pubblico prurito gli amori, le guerre, i delitti, i casi giudiziari, spettacolarizzando tutto e diseducando; che permette il turpiloquio più sboccato di fronte all’infanzia…

Anticultura è contemporaneamente la maniera che condanna ogni valore al silenzio, all’anonimato, per il solo torto di avere troppa qualità per le vetrine del popolo crasso.

Siamo stanchi di questo modo: siamo voci che gridano nel deserto, ma dobbiamo gridare, perché non abbiamo altro mezzo.

La conoscenza umana è, per i limiti stessi dell’uomo, un’imperfetta conoscenza, paradossalmente un itinerario che “non conosce” la meta. È l’ampliamento delle tessere di un irresolubile enigma, attraverso contenuti sempre nuovi che non raramente escludono quelli trascorsi, pur dovendo ad essi la luce della propria aurora. Ogni passo si aggiunge al passo precedente e il cammino non ammette salti.

Lungo il tragitto è sempre più vasto il sapere, ma sempre senza profili l’orizzonte, e quel sapere, dunque, ancora povero… Ma il patrimonio cresce a dismisura, tanto che il singolo uomo è ormai un’ampolla che dovrebbe contenere un lago.

In questa prospettiva che cos’è la cultura?

Non certo il sapere enciclopedico che il Settecento vagheggiava: la mole dei tasselli cresce in maniera esponenziale e i miliardi di neuroni, di sinapsi e di neurotrasmettitori del cervello umano, non potrebbero nemmeno sopportarne l’infarinatura. Non certo, nella frantumazione sempre più capillare del sapere e nel conseguente bisogno della specializzazione, l’addestramento tecnico in un campo specifico, che si risolve in una competenza chiusa alla comparazione, ottusa alla sintesi, asociale. Né sembrano adatte le definizioni coniate dal pensiero lungo i secoli, di volta in volta in relazione ai contesti diversi e in dipendenza del corredo acquisito. Forse è tuttora proponibile il concetto greco di paidéia, o l’erede latino di humanitas, per cui la natura umana esiste come termine del processo di formazione attraverso il quale “l’uomo” si avvera; o più adatta ancora potrebbe apparire la concezione rinascimentale di formazione dell’uomo nel suo mondo, quella cioè che permette all’uomo di vivere nel migliore dei modi nel mondo che è suo, e salvaguarda la dimensione individuale in relazione a quella sociale.

La cultura è per noi un problema di formazione umana totale, per cui ogni sbocco specialistico non è che l’orientarsi e l’approfondirsi di una preferenza che si dirama da un fermento, quello dell’uomo che come tale si conosce e come tale si esprime.

La cultura è un habitus, una fisionomia, una condizione, una qualità, una disposizione….
È il pervenire a maturazione di un fecondato seme di umanità, che nella consapevolezza acquisita, pienamente vive nel suo presente, e tuttavia spiega le vele al futuro sempre salpando dal passato.

Non dimenticando, con Nicola Abbagnano, che “l’uomo ‘colto’ è in primo luogo l’uomo dallo spirito aperto e libero che sa comprendere le idee e le credenze altrui anche quando non può accettarle né riconoscerne la validità”.

Non si può naturalmente trascurare l’accezione dei sociologi e degli antropologi, per cui la cultura indica soprattutto “il complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico, in relazione alle varie fasi di un processo evolutivo o ai diversi periodi storici o alle condizioni ambientali” (Devoto), ma è questo un significato che merita approfondimento in altra sede o in altra pagina, nonostante la consapevolezza che tutto ciò che abbiamo affermato influenza profondamente, trasformandolo, l’intero patrimonio di un popolo o di un gruppo, ed oggi, dell’umanità globalizzata.

Amato Maria Bernabei

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(Marco Pizzino)

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