INTRODUZIONE AL SAGGIO “O DANTE O BENIGNI”

.Roma: Intervista all’autore del saggio

Pensare che il successo di Roberto Benigni sia legato al fatto che l’attore è una “star di regime”, oppure sia frutto dell’improvvisa e sprovveduta sete di cultura degli Italiani, è semplicistico. Benigni è certamente una “star”, una stella dello spettacolo, anche se dobbiamo far notare che nei firmamenti notturni vediamo molte stelle che non esistono! Il piccolo istrione è una stella perché sa apparire; è una stella perché il livello culturale medio dell’uditorio è molto basso e manca spesso di senso critico; è una stella perché ammannisce dal palco (chiedo venia, dal pulpito) un minestrone che mischia ingredienti per i gusti di quasi tutti, un minestrone “sincretico”; al punto che il credente, il miscredente e l’agnostico possono riconoscersi in quello che Benigni “dice non dicendo”, mimetizzando il profano nel sacro e viceversa, con un talento innato che certo non discende dalla dialettica sconnessa, dai farfugliamenti al limite del patologico, dalla lingua da ultimo della classe, dall’approssimativa conoscenza degli argomenti affrontati. Quello di Benigni è l’istinto della “comunicazione”, che si misura dall’efficacia del risultato molto più che dall’oggettiva “bontà” degli strumenti usati. Perché, nel comunicare, buono ed efficace è tutto ciò che permette di conseguire l’obiettivo, non quanto realmente ha valore sul piano della qualità, della moralità, dell’idoneità, del gusto… Aveva già intuito il Machiavelli un concetto del genere, applicandolo alla scienza politica!

Benigni ha successo, dunque, perché nella sua sincretica zuppa ciascuno può cogliere, e tende a cogliere, ciò che più gli aggrada, isola ed apprezza gli elementi che rispondono alle sue preferenze ed alle sue aspettative, non solo in ragione di quanto si è detto, ma anche per le modalità percettive che caratterizzano la psiche umana e che nella Psicopatologia della vita quotidiana Freud ha ampiamente illustrato. “Salvo chi fa salvo” l’intuizione dell’imboscamento e dell’insidia, e da quella intraprenda un’indagine attenta, a tavolino.

È doveroso precisare che questo saggio nasce da un’esigenza di difesa della cultura, in generale, e del patrimonio letterario italiano, in particolare.

Non abbiamo nulla, pertanto, contro Roberto Benigni, che quando non esagera con la sua satira monocromatica, o quando non prende troppo sul serio le sue operazioni “culturali”, ci è del tutto indifferente. Quello che noi non riusciamo più a tollerare è invece il parametro che governa il valore, ormai in ogni settore della nostra vita, e che si lega al profitto. Principio che distorce ogni valutazione, che appiattisce la qualità, che scoraggia la vera creatività, e dunque la vera “arte”, che innalza prodotti vili e ignora prodotti nobili, che attribuisce perfino titoli e riconoscimenti per scopi pubblicitari (come le lauree honoris causā, che presto saranno conferite anche agli analfabeti), che crea in definitiva miti falsi, sui quali lucrare. Noi non riusciamo più a tollerare l’indebita intromissione del primo sprovveduto di turno nel campo delle altrui competenze, sulla base del successo che, a torto o a ragione, egli ha acquisito nel proprio! Alludiamo a calciatori, cantanti, attori, motociclisti, presentatori, intrattenitori, che si improvvisano altro per “diritto divino” (quasi tutti diventano scrittori!), nel culto rigidamente monoteistico di MoneyGod (neologismo anglofono, che vuole richiamare il suono della parola “manigoldo” nell’accezione peggiore del termine, quella del malvagio privo di scrupoli). Come è possibile che a Valentino Rossi venga conferita la Laurea? che altrettanto capiti a Vasco Rossi? che vengano attribuite addirittura nove Lauree a Benigni, in ambiti culturali lontanissimi dalle conoscenze del comico, mentre il “povero” Massimo Cacciari (esempio a caso) deve accontentarsi di un unico titolo onorifico, in Architettura e Umberto Curi viene umiliato nei confini della sua unica Laurea in Filosofia? Sembra ormai che Roberto Benigni sia la massima espressione della cultura italiana: ne abbiamo fatta di strada dai tempi di Leonardo…!

La Divina Commedia…
l’ha scritta Dante o Benigni?
Il dubbio diventa lecito…
Per tutti il genio è Benigni, che la “recita” (Carmelo Bene aveva già affermato: “Io sono meglio di Dante, lo miglioro”; lo riferisce Benigni stesso in un’intervista, chissà come mai…), anche perché il valore dell’opera veniva ormai messo in discussione: qualcuno cominciava a ipotizzare che fosse ormai inopportuno continuare ad avere tra i piedi nelle aule scolastiche quel mattone medievale, quel poema superato : era tempo di altre letture, più moderne! (Cesare Segre, Dante e Petrarca bocciati in Italiano, Corriere della Sera, 5 ottobre 1997).

Magari la fatica letteraria di Del Piero, o l’ultimo romanzo dell’ultima penna scoperta dall’ultima Casa Editrice! Bisogna aggiornarsi, no? D’incanto spunta Benigni…

Tutto cominciò una sera del 2002, nel corso del Festival di Sanremo, allorché “il «compagno» Roberto Benigni per la sua esibizione – fra l’altro, discutibilissima – … per 11.760.000 vecchie lire al minuto, dedicò agli italiani lo spettacolo di una forte presa rugbistica dei testicoli di Pippo Baudo! Bene, vien da dire che se tutto questo è la spettacolarità, onorevole sottosegretario, io mi offro di fare la stessa cosa, con un risparmio che indico sin d’ora del 90 per cento” (Sandro Delmastro Delle Vedove). Per espiare la colpa, il guitto recitò poi, con voce commossa e “commovente”, Vergine Madre, figlia del tuo figlio… Prove tecniche di trasmissione…

Il successo riportato avviò l’impresa:
“TuttoDante” era iniziato!

Magari, come Benigni sostiene, l’idea era già nata qualche tempo addietro, ma quella sera si trasformò in progetto reale: “È nata così casualmente, perché io leggevo la Divina Commedia così, per divertimento. Sapevo alcune terzine a memoria. Poi nei periodi fra un film e l’altro ho voluto imparare alcuni canti interi a memoria, così anche solo per il suono, come uno impara una canzone”.

Il resto l’hanno fatto i mezzi di comunicazione di massa e la crescente schiera di fan, i primi non tanto per abbaglio, quanto per interesse, i secondi acriticamente, per la forza “analogica” della comunicazione del toscano e per il rullo dei tamburi dei primi. Sorprende la tenacia con cui chi ha mitizzato Benigni, o semplicemente lo ritiene “grande”, rimane abbarbicato alla sua convinzione, al punto che, perfino di fronte all’evidenza, ancora tenta giustificazioni.

Roberto Benigni conosceva dunque qualche terzina: decide di memorizzare due o tre canti con i quali tastare il polso dell’uditorio in qualche Ateneo; poi recita alcuni versi in tv, nella famosa serata sanremese del 2002. Il consenso raccolto lo convince che può costruire un “affare” con la DivinaCommedia. Allora impara qualche altro canto dell’Inferno, quelli più conosciuti e adatti (nulla di speciale per un attore che è abituato a “mandare a memoria” interi copioni), si prepara con superficialità, “per l’interrogazione”, su qualche commento dantesco, e comincia il suo spettacolo. L’idea si rivela subito altamente redditizia, anche per la messa a punto di un certo numero di ritornelli di sicuro effetto (‘sto mondo non ce l’abbiamo in eredità dai nostri padri, ma in prestito dai nostri figli; [1] abbiamo indifferenza di fronte all’orrore, invece bisogna avere orrore dell’indifferenza; ci son talmente tante persone che si comportano male che uno ‘n più uno ‘n meno non fa differenza: invece fa differenza, anche uno solo fa una differenza enorme; la poesia non sta in chi la scrive ma in chi l’ascolta; Dante non ha scritto la Commedia perché Dio esiste, ma perché Dio esista, ecc.). Almeno è questo che ci porta a credere il suo livello di conoscenza. Lo spettacolo è stato allestito abbastanza frettolosamente, come dimostrano le lacune di memoria dell’attore, sia per quanto concerne la filastrocca dei versi che per quanto riguarda le note di “esegesi”. In certi casi è evidente che egli ha perfino frainteso, per mancato approfondimento, o per scarsa attitudine, i riferimenti di cui fa uso, il più delle volte non direttamente acquisiti, ma attinti dai commenti consultati. La sua preparazione ci risulta improvvisata; non è mai, comunque, il frutto di un’assidua ed assimilata educazione umanistica. Che importa? “Qualsiasi cosa si dice su Dante va sempre bene”… e alla fine c’è chi sostiene che va bene proprio così, che Dante va recuperato nella sua “semplice immediatezza”, che era ora che qualcuno mettesse a tacere le inutili dispute ermeneutiche degli studiosi…  Tanto che perfino gli apprezzamenti del cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, che sottolineano l’interpretazione di Benigni come quella di un grande teologo, infastidiscono! Perché non premierebbero “lo sforzo di chiarezza operato da Benigni”, ma lo castigherebbero, “proiettandolo dentro la pletora dei critici, dei supercritici, degli analisti, dei filologi, dei filosofi e dei teologi, che hanno avuto, ormai da 750 anni, la pretesa di far dire a Dante ciò che loro avrebbero voluto che dicesse”. Di conseguenza Benigni sarebbe ora l’unico, assoluto, incontrastato, depositario della Poesia dantesca! Se avevamo dei dubbi sulla follia della nostra epoca, ora li vediamo diventare certezze.

A questo punto sarebbe da chiedere a tutti i sostenitori di Benigni che cosa hanno veramente imparato, da lui, di Dante Alighieri. Noi l’abbiamo chiesto a qualcuno: chi risponde, poco o niente riferisce del mondo poetico dantesco, e dice soltanto che si è sentito coinvolto come non gli era mai capitato ai tempi della scuola, che si è commosso, che è rimasto incantato. Molti, troppi, quasi tutti confondono l’emozione che provano guardando e ascoltando Benigni, con la poesia della Divina Commedia, che probabilmente lo stesso attore non ha capito. Molti, troppi, quasi tutti, non si rendono conto che una delle forze che più trascina verso il basso, verso un progressivo scadimento della qualità culturale, dipende oggi dalla manipolazione dei cervelli ad opera di chi conosce le arti del condizionamento e se ne serve per mero scopo di lucro. Se chi ci legge fosse davanti a noi, gli dimostreremmo che è possibile creare sentimenti ed emozioni con il nulla delle parole; che è possibile intenerire, eccitare, destare paura, per mezzo di suoni senza significato, purché sorretti da un adeguato uso della voce e del corpo. (si tratta di tecniche di comunicazione anche banali e di primo palco scenico!) Del resto se qualcuno, urlando, ci rivolge minacce in lingua giapponese, noi avvertiamo il pericolo anche senza capire una parola di Giapponese: ci bastano il tono minaccioso, il viso stravolto dell’aggressore, i gesti, la sua postura, per spaventarci e spingerci ad eludere il pericolo. Parliamo delle più moderne conoscenze relative alla comunicazione, della scoperta dei diversi piani del linguaggio: il digitale, o verbale (parola), gli analogici, ovvero il paraverbale (qualità della voce, come tono, intonazione, volume…) e il non-verbale (gesti, postura, segnali del contesto…). Chi conosce la Programmazione Neurolinguistica di R. Bandler e J. Grinder, sa bene che il piano verbale è il più debole ai fini dell’efficacia della comunicazione, vale appena il 7% dell’intera forza di trasmissione, mentre il livello paraverbale può vantare il 38% e il non-verbale addirittura il 55%. Vuol dire che quello che uno dice conta molto poco: vale invece il “come lo dice”.

Purtroppo!… perché emerge chiaramente che la verità ha una forza modesta quando è gestita da un “cattivo comunicatore”, mentre la falsità può divenire prepotente nelle mani di chi sia capace di suscitare credito. Distinzioni di carattere filosofico a parte, è creduto chi sa farsi credere, qualunque cosa dica.

A che scopo questa lunga digressione?

Per giungere all’evidenza che, nel momento in cui stabiliamo che Benigni sa impadronirsi della scena e diventare credibile, passano in secondo piano la smaccata ostentazione dell’accento e della parlata dialettali, la tachilalia, il farfugliamento conseguente, le alterazioni del flusso delle idee, le sgrammaticature sui piani morfologico, logico e sintattico, la monotonia, la cattiva conoscenza degli argomenti trattati, la ridotta propensione all’esegesi, la tendenza a manipolare le citazioni, la trivialità, la superficialità generale e tutto quello che consegue da queste lacune, e primeggiano le qualità dell’incantatore di serpenti… Con il piccolo particolare che nel regno animale non ci sono soltanto degli ofidi e che qualcuno riesce dunque a sfuggire alla malia!

Noi non siamo rettili, e non siamo rimasti incantati. Tutt’altro! Siamo nauseati… non tanto per il modo in cui Benigni sfrutta la distrazione (o dabbenaggine?) altrui, ma per quello nel quale tutta una scia di approfittatori gonfia il personaggio, fino a farne un mito e a volerlo “consacrato”.

Chi nel catalogo dell’insigne Casa Editrice Einaudi cerchi le opere di Pablo Neruda, o di Wisława Szymborska, poco o niente rintraccia, ma trova certamente due “opere” di Ligabue e ben quattro “opere” di Benigni: è il segno dei tempi? o quegli scrittori valgono davvero nulla, oppure la metà, o 1/4, di queste  nuove “stelle” della Letteratura?

Bisognerebbe educare,
piuttosto che creare miti e mode e farne commercio!

Diventa più chiaro, così, perché questo libro è un dovere.

Sarà lapidato?

Se anche un solo lettore andrà a recuperarlo fra le pietre per coglierne il senso e riconoscerà il valore del nostro lavoro, non avremo speso inutilmente il nostro tempo!

Amato Maria Bernabei

[1] Molti dei grandi aforismi “di Benigni” sono… farina di sacco altrui! Questo è un proverbio Navajo, che il comico ha “trafugato” da una puntata de “Il Fatto” di Enzo Biagi  ***

Pagine sparse dal trattato

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