DON GENNARO E L’ELPIDIA

ovvero

Lotto e ritardi

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Don Gennaro Rutolo

         Con nove lustri ed oltre sulle spalle, Don Gennaro Rutolo è ben aitante, capelli ondulati sale e pepe, baffi corti e assai curati, occhi cerulei sul volto abbronzato, modi garbati, sorriso amabile, scapolo impenitente. “Post prandium lento pede deambulabis” e potete incontrarlo, nel primo pomeriggio di ogni bella giornata, durante la calma passeggiata che da Via Starace, nei pressi del suo elegante appartamento, lo conduce fino al Porto, all’altezza del Molo Pisacane. Nei giorni del gran caldo però è di avviso diverso. “Post prandium stabis” e non rinuncia alla lunga siesta, rinviando la passeggiata al tardo pomeriggio. Tutti i giorni dispari, risale dal Porto lungo la Via del Duomo e si reca al Bar Quadrifoglio, atteso dagli amici, inseparabili fin dagli anni universitari, Don Alfonso e Don Carmine, pronti per la riunione di lavoro. Don Gennaro infatti lavora.

         «Ch’ mestiere facíte, Don Gennà?», chiese una volta un sensale di matrimoni.
«Lo studioso.»
«E ciabbuscate  bbuono?»
«Neanche un centesimo.»
«Scusate, Don Gennà, ma commo cambate?»
«Ho una piccola rendita.»
«Nun p’ sape’ ll’affari vuost’, ma ‘sta rendita ‘e quand’ sarebbe?»
«Se non volete sapere gli affari miei, la cosa non v’interessa.»

         Don Gennaro è davvero uno studioso. Laureato in Lingue e Letterature classiche con una brillante tesi sulla Batracomiomachia, sa legger di Greco e di Latino ed ha molte altre virtù. Suona il violoncello con abilità notevole e, pur non essendo un virtuoso, ama cimentarsi in repertori tutt’altro che facili, spaziando dalle Suites bachiane [1] alle Variazioni rococò. [2] La rendita di cui gode, contrariamente alle sue affermazioni, non è proprio tanto piccola e proviene dalle fatiche di studioso o, almeno, da una quota non trascurabile di queste, congiunta a qualità di sensitivo  indubbiamente eccezionali.
Nel 1986, laureato di fresco, ricevette dal padre una lettera di commiato: “ … perciò t’invierò 10˙000 $ come regalo di Laurea e sarà la mia ultima rimessa … ”. A caccia di lavoro, preoccupazione comune di ogni giovanotto giudizioso, aveva trovato un posto di supplente, come insegnante d’Italiano, nel Liceo classico “Publio Virgilio Marone” di Meta di Sorrento, istituzione trasferita due anni prima di fronte alla stazione della Circumvesuviana, in un nuovo e funzionale edificio. Fu qui che prese l’avvio, quasi inavvertitamente, la sua carriera divinatoria e l’occasione dirompente fu l’incontro con Rachelina.
Al termine delle lezioni, si era incamminato lentamente, sotto il sole che da tre giorni riscaldava sempre più quelle prime giornate di novembre, riportando il pensiero a quattro anni prima quando, giovane matricola, a fine settimana si aggirava spaesato per i corridoi universitari, fermandosi a leggere gli avvisi delle bacheche. Adesso aveva il sabato libero, e il venerdì, prima di tornare a Napoli, si recava al “Ritrovo degli Amici”, un ristorante a due passi dalla scuola, per gustare un ottimo piatto di spaghetti alle canocchie o cannocchie o pannocchie o squille o cicale, o come diavolo si chiamano! – Esisterà mai un altro crostaceo con tanti nomi? – Senza contare lo sformato di tonno coi peperoni e la salsa di finocchietto selvatico, una delizia che il padre, in America, se la poteva sognare! «Ma quella non è Rachelina?», mormorò affrettando il passo.

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[1] J. S. Bach, Sei Suites per violoncello solo, BWV 1007-1012, cavallo di battaglia dei violoncellisti.
[2] P. I. Čajkovskij, Variazioni su un tema rococò, op. 33, per violoncello e orchestra.

 

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