Relativismo
Perché il bello non è ciò che piace

(da L’infinito piatto)

Lizzie Velasquez

SE TI PIACE NON È CERTO PER UNA QUESTIONE DI BELLEZZA

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(Se si preferisce leggere prima la prosa, si faccia clic sulla nota numero [1]
e si leggano di seguito tutte le note).

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- Chi mai ti porse l’arrogante scettro
per cui tu sappia e dètti la sentenza
che soltanto una nota porge al plettro?
che decreti una sola conoscenza
e della libertà segni lo spettro?                                                  05
Per quale mai boriosa onnipotenza
sottrarresti al giudizio l’opinione
pietrificando il senso e l’accezione? – [1]

Interroga così la “nuova” mente,
dall’assoldato saggio che propone                                            10
la dottrina ad onor di committente
che sdegna il vero e serve chi dispone;
da chi sostiene e nega alacremente
la prima tesi e l’altra che si oppone.
Ma già la Torre che aspirava al Cielo                                       15
annunciò come paga il folle zelo. [2]

In ogni bocca indusse voce strana
il Signore, che spense la statura
e disperse la sete altera e vana.
Ugualmente condanna la natura                                                20
della regola senza tramontana
per cui l’uomo di tutto è la misura.
Mille teste per mille posizioni,
per mille verità senza obiezioni! [3]

Se l’occhio poco sano vede nero                                              25
e pensa nero il blu che il sano vede,
sarà di entrambi il metro quello vero
e l’oggetto sarà come si crede,
ovvero nero, ovvero blu sincero,
sicché nessuna vista all’altra cede?                                          30
Ma se l’oggetto ha l’una e l’altra tinta,
qual è la vista sana e quella stinta? [4]

Se per qualunque oggetto si discorra
non c’è concetto che sia perno e luce
più che frustrante vincolo o zavorra,                                         35
la controversia al nulla si riduce
che non sa di che dica e dove corra,
né del vuoto sapere che produce.
Non ha senso negare un’astrazione
trattando quel che questa presuppone. [5]                                   40

L’umano modo di filtrare il mondo
generalizza, elimina, deforma:
non ha mai visto, ma conosce il fondo,
seleziona e cancella ogni altra forma,
plasma le cose quanto più è fecondo,                                       45
e trae vantaggio e danno dalla norma.
Di ciò che l’uomo dice, tanto poggia
su quanto scende dalla prima foggia. [6]

Il succo delle note e dell’essenza
va dal particolare all’universo                                                    50
e della mente esprime la potenza
che sa tornare per cammino inverso.
L’idea nasce perciò dall’esperienza,
non dall’iperuranio controverso,
e si annida nel gene e rifiorisce                                                 55
ogni volta che il seme partorisce. [7]

La parola straripa di concetti,
che qualifichi, nomini o descriva:
non avrebbero corde mai gli archetti
nell’agnostica vista relativa                                                        60
incatenata ai sensi ed agli aspetti,
però del gene e della mente, schiva,
mentre nei cromosomi e nel profondo
s’inibisce il sapere vagabondo. [8]

Chi mai negò – e quale mai cultura -                                          65
l’incanto costellato delle notti
e di qualunque veste la natura
brilli e sorrida? Quali grigi rotti
contesteranno l’orrida sventura
dei tratti di un lebbroso più corrotti?                                           70
Non c’è bello che piaccia perché piace
se non perché la conoscenza tace. [9]

L’aberrazione è norma che devia,
che mentre si discosta, si conferma,
come accade per ogni anomalia:                                                    75
la voglia delle feci non afferma
la relatività della teoria,
ma l’esigenza della terraferma!
Il sapere non è dall’opinione,
ma dal criterio della convenzione. [10]                                          80

Vivono, i sensi, il mondo che compare,
e quindi quel che piace o che dispiace:
ad uno sembra, ad altro non appare,
perché il vedere non è mai capace,
non sa se sia, la cosa, come pare,                                                      85
che tuttavia, comunque sia ferace,
non è quel che non è, pur se nasconde
e al mezzo limitato non risponde. [11]

Come vuole la non contraddizione
non è mai vino l’acqua e il cesto è cesto,                                        90
per quanto sia diversa l’opinione,
mentre non sfugge all’intimo più onesto
l’oltre, che avverte per disposizione,
se, non vedendo, vede pure il resto.
La conoscenza è falsa se si arrende                                                 95
al dato sensoriale che pretende. [12]

Il gusto che si limiti al palato,
del pasto capirà solo il sapore
che alla papilla di sentire è dato,
non però l’alimento ed il valore,                                                   100
che sarà una parvenza senza fiato
o, se lo scorga, stimerà un errore.
Per tal verso difetta il relativo,
che non ha volo se di penne è privo. [13]

Chi volge solo al gusto, e dunque al senso,                               105
fa dell’uomo non più di un animale
che al sesso, al cibo, al sonno dà consenso,
per cui solo l’istinto e niente vale,
che solo alla carezza dà compenso
e contro lo spavento si rivale;                                                     110
gode e non ha concetto del piacere,
guarda e non si allontana dal vedere. [14]

“Se tutto è vero, niente è vero” dice
quando confuta, Socrate, il Sofista
che afferma quel che insieme contraddice,                               115
come travisa un’abbagliata vista,
tramite l’assoluto che interdice
ricadendo nel credo antagonista.
L’acqua che scorre, e che scorrendo muta,
la natura dell’uomo non tramuta. [15]                                     120

Come si pone tutto per l’opposto
e non c’è oscurità senza la luce,
un assoluto che non sia supposto
a nessun relativo riconduce.
Sfugge come, perché, da chi fu imposto,                                  125
ma sempre l’antitetico traluce:
il tutto include il nulla, il niente è tutto,
senza binomio non c’è mai costrutto. [16]

Perché bene è ogni bene da mercato,
pure l’erba che inverte ogni sapore,                                          130
ed il sapore appena rivoltato,
dimentica il cervello ed il pudore
e diventa pensiero decantato
che fa l’affetto identico al rancore,
per cui se il bello è brutto, il brutto è bello,                                 135
e il chiodo picchia duro sul martello. [17]

Il principesco assunto apre la via
ad ogni più malsana sfrenatezza,
ammette ogni demente anomalia
rigenerando pure l’immondezza,                                                140
finché cede lo scettro alla follia,
abbracciando l’abisso e la bassezza,
ed incorona lo spietato boia
che in pubblico defeca e quindi ingoia! [18]

Del resto già di sterco ebbe Marcello                                        145
l’idea geniale che scolpì scolpito,
opera d’altri dunque, il bel modello
mai visto e visto, udito ed inaudito,
quando ognuno afferrò per il fondello
ruotando un pisciatoio già servito                                              150
ed avvertendo ch’era una “Fontana”,
quasi che inverginasse una puttana! [19]

Il “pronto-fatto” e il baffuto Leonardo,
o il sommo fai-da-te dell’assemblaggio
di che il Francese porta lo stendardo                                        155
come esempio di attonito arrembaggio,
sono gli osceni frutti dello sguardo
del credo relativo e dell’oltraggio.
Non soccorre la critica che canta
come avesse Duchamp la mano santa. [20]                                160

Il bello è bello non perché ti piace
o perché qualche idiota te lo dica,
o perché qualche stimolo rapace
faccia quel che la storia maledica:
il bello è bello quando è più capace                                           165
di salire con estro e con fatica
all’assoluto umano, quando detta
la forma e l’armonia che sia perfetta. [21]

Leggi pure:
http://www.odanteobenigni.it/2012/05/28/e-bello-cio-che-piace-non-vale-quel-che-vale/


[1] Chi ti diede il potere arrogante di ritenerti sapiente e d’imporre il tuo sapere che riduce ad una sola nota le possibilità del plettro, che permette cioè un solo criterio di giudizio, restringendo la conoscenza al tuo “assoluto”, alla tua perentoria categoria (che decreti una sola conoscenza), decidendo in tal modo la morte della libertà di opinione (e della libertà segni lo spettro)? Per quale straripante e tronfia potestà tu impediresti il giudizio soggettivo (sottrarresti al giudizio l’opinione) sclerotizzando una volta per tutte un’assunzione di significato (il senso e l’accezione è endiadi, quasi una tautologia rafforzativa: il senso del senso).
[2] Sono le domande sdegnate dei moderni relativisti, discendenti dagli antichi sofisti, sapienti che educavano dispensando una mercenaria dottrina, una filosofia piegata alle esigenze dei committenti (la dottrina ad onor di committente) e dunque non interessata alla ricerca del vero, ma solo asservita al potere ed al lucro (che sdegna il vero e serve chi dispone). “Il ‘sofista’ è colui nel quale la sophìa, rinunciando a essere verità, è divenuta la capacità tecnica di persuadere conformemente a dei fini” (Emanuele Severino, La filosofia antica); moderni relativisti discendenti da quei filosofi che curavano soprattutto la degenere abilità di sostenere e confutare contemporaneamente “la prima tesi e l’altra che si oppone”, ovvero argomenti fra loro antitetici (eristica). Eppure la Torre di Babele (che aspirava al Cielo, a raggiungere dunque la dimora di Dio) aveva già insegnato quale sorte tocca ad uno zelo insensato (folle)!
[3] Il Signore indusse in ogni singolo “costruttore” della torre una lingua diversa (strana) rispetto a quella degli altri (Genesi, 11, 1-9), generando impossibilità di comunicazione e impedendo così la realizzazione del folle progetto (l’immane statura della costruzione che avrebbe dovuto raggiungere il Cielo), disperdendo, per di più, su tutta la terra quegli uomini superbi, assetati di vana aspirazione (e disperse la sete altera e vana). Nello stesso modo il criterio senza bussola, che non dà riferimenti all’uomo (senza tramontana: la tramontana è il vento del Nord e insieme la direzione Nord nella bussola), ma lo innalza sul piano individuale a misura di tutte le cose (Protagora), condanna al caos, all’impossibilità di conoscere, di trattare argomenti, di confrontarsi… Insomma si avranno tante interpretazioni (posizioni) quante sono le teste che pensano, tante verità fra loro contrapposte, per di più rigide, pochi essendo propensi, nonostante il presupposto relativistico, a mettere in discussione il proprio modo di vedere, addirittura confutando con argomenti speciosi l’altrui visione “relativa”. A meno che non si interpreti il principio di Protagora nel senso ben più vicino al nostro modo di vedere, e cioè che “gli individui giudicano la realtà tramite dei parametri comuni tipicamente umani, peculiari della specie a cui appartengono” (Vellani,
http://malpighi.altervista.org/ivellani/downloads/I_sofisti.pdf).
[4] Se una vista daltonica (l’occhio poco sano) vede nero un oggetto che è blu, e dunque crede nero quello che uno sguardo sano vede e pensa blu, potremo dire che entrambe le viste usano un corretto strumento di misura e che l’oggetto è come da loro viene visto e creduto (come si crede; il “si” ha funzione passivante), dunque sinceramente nero, ovvero sinceramente blu, al punto che nessuna delle due esperienze sensibili è disposta a riconoscere il modo di percepire dell’altra (nessuna vista all’altra cede)? Ma se entrambe hanno ragione, l’oggetto dovrebbe essere di due colori, mentre le viste ne colgono uno solo! Allora qual è la vista sana? quale quella malata? Bisognerà concludere che entrambe sono affette da patologia? (Qual è la vista sana e quella stinta? “Stinta” non nel senso di scolorita, ma di incapace di distinguere i colori, dando forza di negazione all’esse sottrattivo del termine: s-tinta).
[5] Se per qualunque argomento di discussione non è possibile avere oggettivi parametri di riferimento (concetto che sia perno e luce), dove per oggettività non s’intende un assoluto metafisico, ma almeno un presupposto maturato dall’esperienza dell’universo umano, un archetipo, magari, dell’inconscio collettivo (Jung), che non sia visto come vincolo o zavorra, un impedimento cioè alla libera espressione del pensiero, il confronto dialettico diviene impossibile (la controversia al nulla si riduce): di che si parla, ed a qual fine, se niente è dato sapere con certezza? (La disputa non sa di che dica e dove corra).Tutto si riduce ad un sapere vuoto, senza contenuti e senza prospettive. È cosa insensata negare un concetto astratto (la poesia, ad esempio) apprezzando o disprezzando poi un prodotto ad esso riferito (La Divina Commedia): chi nega di poter conoscere la sostanza della poesia, non può stimare più o meno poetiche le opere di letteratura (la stima presuppone un termine di raffronto).
[6] Pare che l’uomo si serva di tre fondamentali meccanismi per “mappare” la realtà che esperisce (filtrare il mondo): la generalizzazione, la cancellazione, la deformazione (Richard Bandler e John Grinder, La struttura della magia, Astrolabio 1981, capitolo 4). Pur non potendo riscontrarlo nella realtà, coglie il fondo delle cose (non avendo ad esempio alcuna esperienza del cerchio perfetto, tuttavia lo concepisce e lo rappresenta); seleziona le informazioni che meglio rispondono alle caratteristiche della propria soggettività, scartando le altre; deforma l’esperienza in forza della sua creatività e dei suoi schemi (plasma le cose quanto più è fecondo), in modo talvolta utile, tal altra dannoso (e trae vantaggio e danno dalla norma, da questa naturale inclinazione). Molto del linguaggio verbale degli uomini (e naturalmente dei contenuti da questo espressi) si fonda su quanto deriva dal primo meccanismo (su quanto scende dalla prima foggia), ovvero sulla generalizzazione.
[7] Il concetto, sintesi delle caratteristiche essenziali di una cosa (il succo delle note e dell’essenza, endiadi: caratteristiche dell’essenza), nasce dal processo induttivo che va dal particolare all’universale, ed esprime le grandi capacità della mente umana, capace di invertire poi il percorso (che sa tornare per cammino inverso) e di riconoscere nel particolare la specificità rispetto al generale (processo deduttivo). Le idee “innate” sono dunque il frutto dell’esperienza degli uomini, non provengono dal dibattuto mondo iperuranico: si sedimentano nell’inconscio e diventano eredità genetiche, pronte a sbocciare ad ogni nascita (ogni volta che il seme partorisce, che il seme umano genera una nuova vita).
[8] Sia che qualifichi attraverso aggettivi, o che denomini le cose o ne descriva azioni, modi e stati, il linguaggio verbale straripa di generalizzazioni, sicché sarebbe impossibile dare senso al parlare (non avrebbero corde mai gli archetti, non si potrebbe mai sentire alcun suono da archetti privi di corde da sfiorare) nell’agnostica vista relativa, in un’ottica relativistica nemica degli assoluti (come si diceva, non se ne parla, in questo contesto, in senso metafisico), forse troppo attenta al ruolo dei sensi (dei sensi e degli aspetti, endiadi) e refrattaria (schiva) ad attribuire importanza ai fenomeni psicologici e genetici, laddove è proprio nell’inconscio collettivo e nel patrimonio genetico che si annidano gli “assoluti umani” e che viene tolta la possibilità alle verità soggettive di assumere un ruolo predominante nel campo gnoseologico, negando valore a qualunque forma di realtà oggettiva e assoluta (s’inibisce il sapere vagabondo, viene impedita la vagabondaggine della “verità”, il suo passare da soggetto a soggetto dipendendo arbitrariamente da ciascun detentore).
[9] Quale uomo e quale cultura poterono mai negare l’incanto delle notti sparse di stelle o di qualunque splendido scenario della natura? Quali cervelli, se non incrinati, potranno contestare il rivoltante aspetto e la disgrazia dei più sfigurati lineamenti di un lebbroso? Non esiste il bello che è tale perché piace (che piaccia perché piace, che sia bello perché piace) se non presso chi abbracci una dottrina agnostica, che rifiuta la conoscenza “assoluta”, o per chi sia ignorante, privo cioè dei requisiti minimi di sensibilità e di sapere. Qui si considera il bello come esemplare per la dimostrazione dell’assunto.
[10] La deviazione dalla norma (aberrazione) conferma la regola, cosa che accade per qualunque eccezione (per ogni anomalia): certo la coprofilia non può dare avallo alla teoria del “tutto è relativo” ed affossare quanto andiamo dicendo: se mai dimostra la necessità di valori fermi, di punti di riferimento sicuri (l’esigenza della terraferma). La conoscenza non può fondarsi sull’opinione (pena la Babele dei principi e dei valori), ma sull’accordo, sulla convenzione, sulla convergenza che è in grado di scaturire dalle comuni prerogative della specie umana, non esposte a mutevolezza.
[11] I sensi sperimentano la realtà (vivono il mondo) nel modo in cui essa appare, mostrando gradimento o repulsione per le cose (“vivono” quel che piace o che dispiace): a qualcuno esse appaiono in un modo, a qualcun un altro nel modo opposto (ad uno sembra, ad altro non appare) perché la sfera sensoriale è limitata (perché il vedere non è mai capace, vedere in senso lato si riferisce a tutti i sensi) e non è in grado di entrare in contatto con la sostanza di ciò che sperimenta, di sapere se quello che sembra, cioè, corrisponda fedelmente a quello che è; in qualsiasi rilievo tuttavia le cose siano fertili di possibilità interpretative (comunque sia ferace), esse non possono essere ciò che non sono, benché nascondano la loro vera essenza e non rispondano, in modo fedele, ai limiti degli strumenti umani di percezione (al mezzo limitato non risponde).
[12] Come stabilisce il principio di non contraddizione (“È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo”: Aristotele, Metafisica, Libro Gamma, cap. 3, 1005 b 19-20), l’acqua non può essere vino e una cesta altro non può essere che una cesta, per quanto le opinioni degli uomini possano differire; alla sfera interiore dell’uomo, di natura più raffinata, nobile e attendibile (l’intimo più onesto) non sfugge invece la dimensione extrasensoriale, avvertita per indole naturale (per disposizione) e capace di vedere oltre i sensi (se, non vedendo, non disponendo di organi di senso, vede pure il resto, è in grado di cogliere anche gli elementi sovrasensibili dell’esperienza). La conoscenza è incompleta se fa affidamento ai soli e pretenziosi dati sensoriali, che credono esaurirsi nella loro funzione il processo conoscitivo.
[13] Il dato sensibile che rimanga prigioniero di se stesso (si limiti al palato, dia valore soltanto a quello che l’organo di senso è in grado di rilevare), non coglierà nessun altro elemento importante, del pasto capirà solo il sapore / che alla papilla di sentire è dato, e non, ad esempio, la sua qualità nutrizionale (non però l’alimento ed il valore, il valore dell’alimento: endiadi), di cui non si preoccuperà né si accorgerà, come se ogni altro aspetto che non attenga al dato dei sensi non avesse vita (che sarà una parvenza senza fiato, un fantasma); e se qualche rilevante indizio dovesse intravedere, non lo prenderà in considerazione, ritenendolo un abbaglio. Nella stessa maniera il relativismo trova il proprio limite nell’incapacità di vedere oltre il proprio naso, di spiccare il volo verso gli spazi dell’intuizione e dello “spirito immanente”, inteso come principio della vita intellettuale, estetica, morale (che non ha volo se di penne è privo, se è privo di ali per volare).
[14] Chi interpreta tutto esclusivamente in base al “gusto”, e dunque alla percezione sensoriale soggettiva, considera l’uomo solo nella sua dimensione strettamente animale, incline alla ricerca di soddisfazioni primarie orientato dall’istinto e da nessun altro moto, da nessun valore; animale che risponde favorevolmente solo al buon trattamento (carezza) e reagisce aggressivamente per paura (e contro lo spavento si rivale); si soddisfa (gode) senza avere alcuna idea del piacere, guarda semplicemente vedendo, senza la possibilità di trasferire le informazioni, colte dalla vista, al pensiero, trasformandole in modo critico.
[15] Riferisce Platone (Teeteto, III, 1) che, confutando il pensiero di Gorgia, il quale per sostenere la sua visione relativistica aveva asserito che “tutto è vero”, Socrate affermasse che “se tutto è vero, niente è vero” (se tutto è vero, è vero pure che niente è vero!); del resto Gorgia contraddice contemporaneamente quello che afferma, e vede male, come travisa una vista abbagliata, perché fa uso di un assoluto per negare l’esistenza delle verità inconfutabili (tramite l’assoluto che interdice, che nega), così ricadendo nella posizione antitetica (ricadendo nel credo antagonista). Le verità volubili si riconducono al pensiero eracliteo (l’acqua che scorre, e che scorrendo muta; mutare con valore transitivo e intransitivo) in cui lo scorrere perenne delle cose, quasi una cronolatria, un’adorazione dell’effimero, se non venga inteso nella sua sfumatura esistenziale e poetica, per quanto muti e usuri la materia, non può trasformare la sostanza dell’essere umano, che attraverso le epoche rimane costante nelle sue peculiari caratteristiche (la natura dell’uomo non tramuta).
[16] Come qualunque cosa fonda il suo essere e il suo significato attraverso il suo opposto, sicché non c’è oscurità senza la luce e viceversa, se non si suppone l’assoluto, non si può concepire il relativo. Per quanto non sia chiaro il perché. né per volere di chi la cosa si sia originata, è certo che da qualunque concetto generalizzante trapela il suo contrario: non si può pensare ad un tutto senza presupporre un nulla né ad un nulla che non implichi un tutto: al di fuori del binomio degli opposti, delle coppie di termini, cioè, legati da una reciproca negazione, sembra non esistere possibilità logica (pur nelle differenze còlte dal pensiero aristotelico, kantiano o hegeliano).
[17] Poiché ogni prodotto, quando è vendibile, è prezioso per il mercato, anche la speciale erba (il relativismo) che inverte ogni sapore e, dunque, perfino il sapore appena invertito (il sapore appena rivoltato), perde ogni ragione ed ogni principio morale in funzione del denaro, e diventa pensiero dominante e magnificato che detta un criterio indifferenziato di valutazione, per cui tutto è anche il contrario di tutto, amore è odio (l’affetto identico al rancore), bellezza è bruttezza, il chiodo è martello (il chiodo picchia duro sul martello), e viceversa.
[18] Il geniale assunto (per sarcasmo) schiude la strada ad ogni più dannosa intemperanza, ammette ogni demenziale deviazione, capace di rivalutare perfino la sporcizia (rigenerando pure l’immondezza), fino a cedere lo scettro alla pazzia, toccando inesorabilmente il fondo (abbracciando l’abisso e la bassezza) quando incorona come artista un assassino dell’arte, vero e proprio boia, che defeca in pubblico e poi inghiotte le sue feci! Ne La civiltà dello spettacolo Mario Vargas Llosa riferisce un passo di Carlos Granés Maya (tratto da Revoluciones modernas, culpas postmodernas, in Antropologìa, horizontes estéticos, a cura di C. Lisón Tolosana, Editorial Anthropos, Barcelona 2010, p. 227) che cita “una delle performance più abiette che si ricordino in Colombia”, quella dell’artista Fernando Pertuz che, in una galleria d’arte, defecò di fronte al pubblico e poi, “con grande solennità” passò a ingerire le proprie feci!
[19] D’altra parte aveva già dato esempio di arte degenere la “geniale” idea di sterco (sempre relativa cioè all’area delle latrine) di Marcel Duchamp che scolpì il già scolpito, opera dunque di altri, il “bel modello” tante volte visto eppure mai visto, tante volte udito, eppure mai udito, “incredibile”, quando prese tutti per i fondelli capovolgendo un orinatoio usato, e intitolando la “straordinaria” opera d’arte Fontana: una metamorfosi taumaturgica, quasi che lo scultore avesse reso vergine una prostituta! (Il neologismo “inverginare” vuole accentuare il sarcasmo).
[20] Il “pronto-fatto”, ovvero il ready-made, con uno degli abusati anglismi, e La Gioconda coi baffi, o l’eccelsa trovata del fai-da-te dell’assemblaggio (assemblage), per cui ognuno, mettendo cervelloticamente insieme oggetti di uso comune, crea un’opera artistica, turpi esempi di assalto piratesco all’arte, che lascia attoniti, di cui il francese Duchamp porta lo stendardo, è cioè l’ideatore, sono i frutti indecenti dell’oltraggioso modo di vedere le cose dovuto al “credo” relativistico. Poco ha da elucubrare la critica sul valore dissacratorio di queste imprese artistiche, poco ha da scrivere che esse sono un riferimento imprescindibile per la comprensione dell’arte moderna! Quale arte?…
[21] Il bello è bello non in relazione al gusto, o perché qualche stupido ti convinca che una cosa è bella, o ancora perché qualche condizionamento avido di profitto (qualche stimolo rapace) ti proponga un “bello” che la storia condannerà (faccia quel che la storia maledica). Il bello è tale quando si riveli capace di salire con fantasia creatrice e con la fatica dell’apprendistato prima, e dell’attività di creazione poi, verso l’assoluto umano della bellezza, che dettando il modo, s’incarna nelle singole (e schiette) opere d’arte, dove la forma, come apparenza del contenuto e contenuto dell’apparenza, consegua nell’armonia il suo grado di perfezione, ovvero d’interezza nel suo compimento (per + factus, compiutamente fatto).

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