Inferno, XXXV – I traditori della cultura: Roberto Benigni

Già pubblicato su Dettaglitv.it il 9 Maggio 2011

L’operazione su Dante, condotta da Roberto Benigni, è uno degli imbrogli mediatici più clamorosi, capace di riscuotere il consenso perfino di ambienti colti, ma quanto meno distratti, che dietro la maschera del merito divulgativo non hanno saputo cogliere, o hanno voluto di proposito nascondere, il danno che veniva arrecato a un patrimonio culturale da salvaguardare soprattutto attraverso il rispetto. Il “comico” toscano ha indecorosamente offeso la Letteratura Italiana e l’immagine del sommo Alighieri, stravolgendo e profanando, per uno spettacolo da baraccone e per denaro, i sacri versi della Commedia.

Ho voluto immaginare che Dante, per divinazione della sorte che sarebbe toccata ai suoi versi per bocca di Benigni, abbia voluto aggiungere un Canto, il XXXV appunto, al suo Inferno, punendo severamente il comico per la colpa di “tradimento della cultura”. Pubblico l’intera parafrasi del documento in .pdf, da aprire ed eventualmente salvare, che contiene comunque, oltre i versi, le annotazioni.

Inferno, XXXV – I traditori della cultura [2]

Non scrissi che prima di uscire a riveder le stelle, quando io e Virgilio risalivamo servendoci del fitto e duro pelo di Lucifero che ci faceva da scala, udimmo un grossolano riso a crepapelle, come quando alla sete di qualcuno mai si nega il vino dalla canna, fino a che la mente non ne risulta “ammalata”, fino all’ubriachezza, cioè. Fatto per il quale io dissi a Virgilio: “Maestro, non avevamo esplorato già ogni girone dell’inferno (le segrete cose… già non sapemmo tutte), lungo il tragitto che mira al recupero della serenità interiore (per la quiete), nel momento in cui scorgemmo, attraverso quel rotondo foro, la luce del giorno?

Egli mi rispose: “Dio volle che prima di tornare sulla terra, tu vedessi una pena più dura di quella inflitta a Lucifero (che lo viso a fondo).  Chi lucra servendosi dei tuoi versi mischiati a volgarità di ogni genere, rubando per l’indegna fame di denaro, l’arte (belli arredi) della tua opera, è stato sprofondato al di sotto di Lucifero (colui ch’è fitto, conficcato a testa in giù nell’estremità dell’inferno); chi offende le istituzioni politiche (Presidente del Consiglio, scettro azzurro) e quelle religiose (il Papa, bianca corona), che non reagiscono perché in fondo la propaganda che ne ricavano è vantaggiosa, e non viene esiliato, come invece accade a te. Ma la giustizia divina, ahimè, non perdona. Guarda quell’immenso teatro circolare e le sue innumerevoli gradinate gremite di gente che incita Lucifero a praticare la respirazione bocca a bocca al dannato svenuto dal dolore! Sono tutti coloro che da ogni “contrada” accorsero ai suoi spettacoli, e che ora si sbellicano nel vederlo al centro della scena arso dalle fiamme, arrostito come S. Lorenzo sulla graticola. [1] Per l’eternità il peccatore viene rianimato, perché la bocca di Lucifero gli soffia l’ossigeno che lo tenga desto (respiro ancora per le vene). Da ogni punto dell’arena, le gradinate espellono pagine della Divina Commedia (la carta de la colpa commessa da Benigni), che bruciano, mentre il vento le trascina dal centro alla periferia e viceversa, finché ricadono sulla pelle di tutti gli astanti, ustionandoli. E dal momento che tu vuoi sapere bene come stanno le cose, quando il condannato arrostito recupera la sensibilità, l’Angelo lo bacia, come Lancillotto Ginevra, con quel bacio appassionato “di sei pagine” che lui andava raccontando. Contemporaneamente dalle fiamme si erge l’anima di Gianciotto, che impugna una lunga cesoia e taglia a fette (molte volte) i colpevoli genitali di Benigni (reo pisello, soprattutto con allusione alla fissazione del comico per “i piselli”), che ogni volta che si ridestano sono ben cotti.

E se non senti declamare versi, è perché il Sommo Amore (l’Eccelsa Carità) grazia gli uditori, sottraendo loro, attraverso il bacio di Lucifero (serra le porte, chiude la bocca), una voce che quando non ragliagracida”.

Io non saprei spiegare perché quello che vidi mi provocò una forte emozione, tanto da rimanere per parecchio tempo disorientato e senza parole. Infine, distraendo lo sguardo da quei peccatori e per un po’ rivolgendomi alla mia esperta guida, chiesi: “Padre, perché non comprendo? Tu mi parli dei miei versi e del peccato di chi li vende, insieme con volgarità di tipo sessuale, come se volessi raddoppiare la mia sofferenza, per il lucro e per la profanazione. Fa’ almeno in modo, visto che mi sfuggono i fatti e non ho perciò consapevolezza della cosa (se l’esperienza non è presso), che io possa parlare a chi di tanto in tanto sviene dentro le fiamme, a chi in fondo, da quello che dici, si punì con le sue stesse mani”.

Mi rispose: “Tu non sai che l’immenso teatro (‘l tondo loco) ospita la gente idolatra che nel suo idolo proietta il poco che ha dentro (trasmuta il poco). E l’idolo dalla squallida abilità d’imbonitore è quello che tu vedi baciato nientemeno che da Lucifero (basciato da cotanto amante), e che forse, subito dopo essere rinvenuto (quando muta il vento, quando cambia il suo stato), potrà risponderti”.

Così, appena il dannato, ancora boccheggiante, si ritrova sulla soglia del bacio (desto al bacio) che gli impedisce di recitare i versi e di parlare (soffocante), inflitto dalla stessa bocca che lo rianima, io gli grido: “Dimmi almeno quale sciagurato delitto hai commesso, come ti chiami e qual è il tuo luogo di origine (quale piana), se è proibito sapere di più”.

Rispose con la sua sgraziata voce roca: “Sono originario della Toscana, nato in provincia di Arezzo, in quella frazione che ha nome Misericordia, proprio la misericordia che non potei avere da Dio per vile uso de la mente umana (la mente di tutti quelli che ho imbrogliato). Persi la misericordia perché non studiai in modo approfondito i versi di Dante e li andai recitando per il mondo chiedendo compensi sproporzionati e oltraggiando in tal modo anche la povertà (per gl’incassi ipertrofici e perversi); così, di fronte al grave danno arrecato alla cultura, alla morale, alla religione, la coda di Minosse risultò troppo corta per indicare dove avrei dovuto sprofondare, e l’inferno fu carente di gironi. Di conseguenza,  per la pena eterna che subisco nella morte del corpo e dell’anima, mi toccò la fossa di cui nessuno conosceva l’esistenza, quella che si trova proprio sotto il capo di Lucifero, dove egli mi perseguita ininterrottamente con il suo fiato. Quando ritorni sulla terra, alla dolce condizione dell’esistenza, dove nei teatri le folle inneggiano alle false divinità, racconta quello che hai visto, in modo che più nessuno sia dannato come me”.

Aveva appena finito di parlare, che Lucifero gli penetrò di nuovo nella bocca, con la sua lingua sporca di fango e dal sapore puzzolente di cerume, mentre Gianciotto Malatesta, emergendo dalle fiamme, riprese ad affettargli i genitali.

“O Arezzo, vergogna d’Italia, che hai dato alla luce ed alzato agli onori un pagliaccio dalla mente poco pregiata e ne sfami la mai sazia avidità di ricchezza; alimenti quella lupa che è riuscita a corrompere perfino il Veltro che avrebbe dovuto ricacciarla  ne lo ‘nferno, da dove il demonio l’ha scatenata; il Veltro(ni) che quando a Roma celebra il rito ricorrente delle Notti Bianche (dentr o la notte nera che fa bianca) nutre Benigni-lupa proprio dei cibi che dovrebbe evitare, di terra e di peltro, cioè del potere (dei protagonisti) e di denaro (peltro, dal francese peautre, lega di metalli), e con l’elevato compenso che paga permette abiti di seta, non certo gli umili panni di lana che dovrebbero essere il simbolo dell’intervento auspicato nel I Canto dell’Inferno (i richiami al quale, evitiamo di chiarire in modo troppo circostanziato, dal momento che tutti gli Italiani, adesso, conoscono benissimo la Divina Commedia…).

Non senti la voce ormai stanca di chi chiama l’arte smarrita e la cerca dovunque, in ogni luogo e in ogni sfera, senza più trovare il genio che le manca, l’interprete geniale, pittore, musicista o poeta che sia? Non ti muove a compassione la disgraziata sorte della nostra grande tradizione culturale, che il comico va sciovinisticamente vantando, ma che nei suoi eredi giace mestamente nel proprio letto di morte? Perché non ti accorgi che il cavallo dell’arte è senza guida, se il fantino, in tutto, è proprio l’antitesi del bello (se cavalca chi a l’arte più dispiace)? Ahimè, gente che dovresti essere fedele all’arte e lasciar sedere Dante, quello vero, sulla sella, se ben comprendessi la volontà divina (da’ a Cesare quel ch’è di Cesare…).

Guarda come il cavallo dell’arte è diventato ribelle, perché sente gli sproni inadeguati di un sedicente artista, incapace di orientarlo, e perché tu pretendi la guida, tieni le briglie (la predella; il ponesti mano ha come soggetto gente, il popolo italiano che attraverso Benigni guida il cavallo; naturalmente forzando il senso dantesco).

Chi non è proprio nato per alimentare la fiamma della poesia e non conosce altro linguaggio che quello del sesso, scenda da cavallo e la smetta di fare l’esegeta e di “predicare”. Un infinito numero di volte (in eterno) sarà perseguitata la colpa che adultera i versi insigni della Commedia e che rende il responsabile per sempre indegno del perdono degli uomini e di Dio”.

Così disse il maestro che mi circonda di affetto.

E finalmente l’ultimo tratto del cammino infernale mi restituisce la luce sul viso, là dove il cielo stellato è più gremito di fuochi.

Amato Maria Bernabei

N.B. Su Benigni e la sua indecorosa divulgazione della Commedia è possibile consultare le altre schede presenti su questo stesso sito.


[1] Al centro di un enorme teatro all’aperto, Benigni è incollato per la bocca alla bocca di Lucifero, mentre dal basso fiamme perenni lo arrostiscono, come il martire San Lorenzo. Quando sviene dal dolore, l’Angelo ribelle lo rianima con la respirazione bocca a bocca, ma per evitare che parli o che reciti, lo bacia con la sua saliva puzzolente di cerume e mischiata al fango in cui i due sono immersi. Da ogni ordine di posti, dal centro verso la gradinata estrema e da questa verso il centro, si alzano e ricadono sulla pelle di tutti pagine incandescenti della Divina Commedia, provocando terribili ustioni. Ogni volta che Benigni rinviene, Gianciotto Malatesta, con un paio di lunghe cesoie, gli affetta i genitali cotti. Feroce, ma inevitabile, contrappasso.
[2]  Un “intelligente” lettore che niente di tutto (o anche tutto di niente) aveva capito, così commentava il  (naturalmente mascherato dietro un cosiddetto nick, ovvero nascosto  in un pusillanime pseudonimo…):
Ciaooo ha detto:
Dici che Benigni si permette di stravolgere e profanare la Commedia quando sei tu il primo a osare scrivere un XXXV Canto e ad umiliare Dante con la tue cazzate, almeno Benigni lo fa per soldi, tu lo fai gratis.
l’11/06/2011 alle 23,02 così replicavo:
Questa è la nobiltà: io le cose le faccio gratis, Benigni è solo un mercenario. Quanto a profanare Dante, il saltimbanco toscano lo distorce, ne cambia il pensiero e perfino i versi, io mi diverto soltanto a imitare lo stile dantesco per “punire” Benigni come merita… ma evidentemente la cosa è troppo sottile perché tu possa apprezzarla: credo che tu non abbia capito proprio niente. A proposito: in questo sito cerca di usare modi più urbani, evita il turpiloquio “alla Benigni”, altrimenti i tuoi commenti non saranno più pubblicati.

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