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Torino, Genesi Editrice 2025

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PREFAZIONE

Identificabile come gentilhomme des lettres, arts et musique del XXI secolo italiano, Amato Maria Bernabei vive giusto a cavallo della nascita del terzo millennio, anche se è andato sempre più raccogliendo consensi negli anni della sua piena maturità, non già per una forma di maturazione tardiva, ma decisamente per un tardivo riconoscimento della sua straordinaria valenza culturale e creativa, che affonda le radici stilistiche nelle forme della tradizione di oltre sette secoli della letteratura italiana, cui si aggiungono i geni caratteristici derivati dalle origini greco-latine, ma ha concentrato i contenuti in un avvaloramento delle tematiche più fondanti della modernità contemporanea, le quali sostanzialmente possono essere ricondotte a un’unica terna: in primo luogo, il mito della Poesia come eternatrice dei valori dell’umanità e dei suoi singoli componenti; in secondo luogo, come cantore dell’enigma indecifrabile del tempo, che scientificamente ha un valore relativistico agganciato alla velocità, mentre umanisticamente ha una qualificazione di eternità mutevole, e pertanto appare un’aporia irrisolvibile, perché ciò che è eterno non potrà mai essere mutevole; terzo luogo è il tema dei valori di civiltà su cui investire la propria brevissima presenza di una seppur lunga vicenda umana, che, alla data corrente e nel suo caso, è già in vista di età ottuagenaria e più. Bisogna certamente rifarsi a Ugo Foscolo per ritrovare la valorizzazione della poesia come funzione eternatrice dei valori dell’umanità. Certamente la Poesia ha saputo cantare, nel profluvio dei secoli, una pluralità di tematiche: l’eros, la ricerca della coscienza e della conoscenza, il coraggio e l’eroismo, la mistica e la santità, la bellezza estetica e quella etica, i vizi e le tentazioni, il ludibrio e la casualità, la progettazione e l’impegno ed altri aspetti dei valori e dei disvalori umani. Ma in cosa consiste il canto specifico della Poesia, se tutte le tematiche appena elencate sono di per sé stesse oggetto di discipline specializzate? La specificità sta nella forma della dizione: ci chiarisce distintamente il Nostro. Significa che, al di fuori della forma specifica, la Poesia non esiste, perché la scrittura diviene, se non ha stile poetico, prosa o documentazione o diaristica o che altro, ma non è più Poesia. Come dire che una farfalla se non ha le ali, non la si potrà definire farfalla. Forse, potrà essere una cicala o una formica, ma certamente non sarà una farfalla, colorata e spettacolare, come compete che sia la Poesia. La funzione eternatrice, per un uomo del XXI secolo, come insegna Amato Maria Bernabei, consiste nel mostrare empatia ed affezione verso le persone che più profondamente hanno influito sulla vita e sulla formazione culturale del Poeta: la madre, i fratelli, gli amici, i maestri, gli scrittori più letti e più amati dal Poeta. Non ha alcun senso che il Poeta perda il suo tempo ad interessarsi anche di uomini politici, guerrieri, dittatori o biscazzieri vaniloquenti con i quali non abbia maturato uno specifico rapporto di formazione del suo pensiero poetico, perché vale la regola fondamentale: la Poesia si alimenta di Poesia, perché la Poesia è un valore autonomo della cultura umana, come lo è la fede e come lo sono pochissime altre forme di esperienza umana, come la musica. E quali altre? L’enigma del tempo è centrale nella tematica della poesia contemporanea. Proviamo a chiederci: in che tempo vive un poeta? Montale specifica che per il 5% egli vive nel suo tempo, ma per il rimanente 95% egli vive nell’altrove, che la sua immaginazione è in grado di costruire. Similmente, potremmo dire di Amato Maria Bernabei, il quale dedica pagine e pagine dei suoi versi al fratello Mauro, alla madre, alla sorella Liana, agli amici poeti e musicisti, ma contemporaneamente è anche amico di Catullo e di Plinio e con l’immaginazione rivive pienamente i tempi dell’antichità greco-latina. Come insegna Jorge Luis Borges la dote poetica più affascinante di uno scrittore sta nella sua immaginazione. Se la Poesia, per Leopardi, poeta tra i massimi dell’Ottocento, consiste principalmente in “pensiero poetante”, per i poeti del XX e, ci si augura, del XXI secolo, la Poesia è prima di tutto “immaginazione poetante” e, di conseguenza, anche “pensiero poetante”, in senso leopardiano e filosofico. Dunque, la fantasia è il motore centrale del canto poetico in Bernabei, il cui uso delle figure retoriche è continuo e straripante, in primo luogo allegoria, metafora, sineddoche, similitudine, paradosso, ossimoro, metonimia, e poi a seguire. L’uso frequente della figura retorica è già il primo battito d’ali della farfalla che smette di essere cicala o formica, ma diviene, semmai, allegoria dell’una e dell’altra. I valori umani prescelti da Amato Maria Bernabei sono rappresentati in primo luogo dal sentimento di empatia che egli rivolge alle altre persone e con cui costruisce dei legami e delle corrispondenze. Non contano, per lui, le variabili esteriori del successo, come dire la fama, l’arricchimento economico, il potere politico, ma conta, invece, la carica di umanità e il dialogo degli umani sentimenti: è questa la variabile che fa scattare nel Poeta la sua massima capacità di immaginazione, grazie alla quale il canto si manifesta: la farfalla vola, le parole diventano luce, si vestono di significati e sfiorano il mistero. Gli apparati letterari a disposizione del Poeta, in Più bello e più terribile, e da lui impiegati con elegante maestria sono complessi: la confidenza con la metrica, l’uso dell’endecasillabo, sovente spezzato in due emistichi, la riproposizione del sonetto con diverse forme di rima, il sonetto elisabettiano adottato anche da Shakespeare, le rime al mezzo, le assonanze e molti altri accorgimenti capaci di rendere il suono della declamazione una continua modulazione di richiami ecolalici, di appoggi, per suoni e per significati, con varianti morfologiche e con passaggi grammaticali dal transitivo all’intransitivo, in una padronanza esemplare della regola e delle sue eccezioni. L’obbiettivo è quello di raggiungere una pienezza di pensiero e di immaginazione, talvolta anche con l’ideazione di una formula breve, non tanto lapidaria o aforistica, ma, invece, come un cammeo, un gioiello di parole cesellato con arte sopraffina di corrispondenza fra contenuto ed espressione. Tutto ciò fa di Amato Maria Bernabei un poeta di altissimo prestigio letterario.

Sandro Gros-Pietro 

Analisi estetica della silloge
Più bello e più terribile di Amato Maria Bernabei
Tessitura metrica, visione lirica e profondità filosofica

La silloge poetica di Amato Maria Bernabei, Più bello e più terribile, non si lascia leggere, spinge piuttosto ad abitare. Perché è una dimora fondata sulla forma, rialzata dal pensiero, attraversata da immagini che si schiudono come soglie. In questo libro il verso non è flusso libero né gesto spontaneo: è gesto inciso, levigato con rigore, fino a diventare architettura spirituale. Analizzarne l’aspetto estetico significa dunque restituire voce alla musica che lo sorregge, luce alle immagini che lo alimentano, respiro alla visione filosofica che lo anima.
La musicalità, in quest’opera, è tutto fuorché decorativa: è l’ossatura stessa della parola poetica. Non a caso, molti componimenti sono costruiti in forma di sonetto, forma regale della poesia italiana, a cui Bernabei affida non solo la struttura, ma la disciplina etica del pensiero. L’endecasillabo, spesso spezzato in due emistichi, si fa respiro alternato, modulazione di battiti, pausa meditativa. In un verso come “Domani sarà ieri / e ancora ieri domani” (Da notte a notte, non oltre…) la simmetria fonica e semantica non produce solo un gioco di parole, ma restituisce con geometria rigorosa l’angoscia e l’ambiguità del tempo: la vita come ciclo, ma anche come deriva, dove il futuro è già passato. Qui il paradosso temporale si fa suono, il ritmo si piega su se stesso, creando una vertigine percettiva che rimanda al continuo tentativo del poeta di afferrare l’inafferrabile.
Alla musicalità interna corrisponde una tessitura figurativa altrettanto densa. Bernabei non adopera le immagini per ornare: le plasma perché svelino. Ogni figura, nella sua poesia, ha il sapore dell’allegoria: l’infanzia, i fiori, la stagione, non sono mai solo ciò che nominano, ma ciò che rivelano. In questi versi: Tutte le cose, / siano passi d’infanzia o siano rose, / hanno transiti e lampi, / ansiti / di un giorno e già di niente, / vivente, / morente” (L’ultimo tempo), la musicalità sincopata e la sequenza lessicale lavorano insieme per trasfigurare l’immagine in filosofia: tutto ciò che appare vivo contiene già in sé il segno della sua fine. Eppure, la visione non è disperata: è tragicamente lucida.
Vi sono poi versi che assumono la forma della sentenza poetica. Sono aforismi cesellati nella carne del testo, in cui si condensa la visione di una vita che sente la fragilità del tempo, ma non rinuncia a misurarlo. Così accade in “Passa la vita, e il tempo è quanto dura, / né mostro che divora né levriero, / ma soltanto quel fragile sentiero / dell’angusta e fuggevole misura (Passa la vita…). Qui il tempo, anziché essere nemico, diventa compagno precario. Non fiera, non predatore, ma sentiero fragile. È una poesia che non inventa metafore: le ritrova in ciò che da sempre ci attraversa.
Più bello e più terribile è però anche, e forse soprattutto, un’opera sull’assenza. Su ciò che è stato e ora non è. Ed è proprio in questi componimenti dedicati a madre, fratelli, amici perduti, che si affaccia la parte più commossa – e alta – della poetica di Bernabei. Il suo sguardo non è mai elegiaco, e neppure liricamente nostalgico: è costruttivo. Ricorda non per lamentare, ma per edificare. Come in “Io ti darò memoria, di una vita / fioca, incolore, opaca, in solitudine” (Io ti darò memoria), dove la memoria non è una rievocazione, ma una restituzione di dignità. O in “Non posso più chiamarti, né a qualcuno / potrai più dire del fratello assente” (Non posso più chiamarti…), dove l’impossibilità del dire si trasforma in necessità del versare. La parola si fa quasi rito, resistenza contro l’oblio.
Non sorprende allora che la poesia si spinga spesso oltre il visibile. La sua è una voce che attraversa la soglia, e si confronta con il grande mistero dell’essere. Molti componimenti sono vere e proprie meditazioni metafisiche, e qui la forma non si incrina, ma si sublima. In Parmenide ed Eraclito, il verso si interroga sul tempo come fluire e permanenza, esprimendo tensioni antiche in un’inedita quiete musicale: Che tutto scorre come una corrente / dice che non il tempo, l’acqua fugge, / che nel moto ogni cosa poi si strugge, / e di quel che sembrò non ha più niente. In altri testi, come ne Il terrore di Saturno, la metafisica si fa visione pittorica, e il mito (Goya, Saturno, Kronos) si mescola alla cronaca esistenziale: Il tempo che divora, / il Saturno di Goya che distrugge, / che crea e che cancella mentre fugge.
Tuttavia, Bernabei non è soltanto elegiaco o metafisico. Sa essere ironico, mordace, satirico, sempre con misura e con impeccabile proprietà formale. In testi come Il “quanto” che vale… o Disdoro, il poeta attacca con forza e lucidità le logiche editoriali e culturali che premiano la quantità a scapito della qualità, la mediocrità travestita da innovazione, la complicità fra marketing e critica. Scrive: Lasciate i falsi libri alle vetrine / di bestia-selle, e le scritture immonde / della critica serva alle latrine. Qui l’invettiva è netta, ma la lingua resta composta, tagliente come un bisturi e mai rozza come una clava. Anche in “Non alle streghe il rogo, ma allo Strega…” si avverte la volontà di colpire senza perdere la misura, di usare il sonetto – e la cultura – come strumenti di verità.
Infine c’è la parte della poesia che non rinuncia al lume nel buio, anche se quel lume non è certezza, né redenzione. In componimenti come Il dono o Augurio, l’io lirico parla dal bordo dell’abisso, ma ancora tende una mano. Scrive: Sarai per sempre, nel fuggente umano / che si risolve dove manca il sole, / eppure avrai sentito il vento vano / di un’emozione, ma che mai disvuole: e ancora: Che solchi un’acqua placida e sognante / la purezza del remo che non vede / oltre il vago scrutare quel che crede / lontano dall’umano delirante. Qui la poesia si fa preghiera laica, accompagnamento silenzioso, visione che si china, ma che non giudica. La luce che resta non è bagliore accecante, ma chiarore interiore, mite, resistente.
Nel complesso, Più bello e più terribile è un’opera che riconduce la poesia alla sua funzione antica e necessaria: dire ciò che sta oltre, e farlo con forma rigorosa, pensiero alto, immaginazione profonda. È un libro in cui l’estetica è inseparabile dall’etica, e la bellezza nasce dall’intelligenza di chi sa che il verso è un atto. E, come ogni vero atto, chiede dedizione, umiltà, e coraggio. Questo libro lo dimostra, verso dopo verso, fino alla fine. E anche oltre.

Ardensi Bonera


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