Che cos’è la poesia?

Che cos’è la poesia?
“Musica, prima d’ogni cosa…”
(Paul Verlaine)

Chi è il poeta?
Colui che distilla
un senso sorprendente da ordinari
significati, essenze così immense…
(Emily Dickinson)

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CONTRIBUTI ALLA COMPRENSIONE

 

PREFAZIONE AL VOLUME “COLPO D’ALA”
antologia del 1° Premio di poesia e narrativa “VIGONZA” (2000)
Venilia Editrice Libri

La poesia è: poi ognuno la sente.
Perciò io posso preferire Shakespeare e tu Dante, io Leopardi e tu Baudelaire.
E qualcuno può essere sordo. La poesia resta.
Eppure che cosa essa sia nella sostanza nessuno, forse, l’ha detto! Né potrò farlo io, che la vedo trasparente, come la sostanza dell’anima, e perciò non la vedo.

Ogni dottrina sulla poesia «è ingegnosa, probabile», spesso provata, «ma non fino al punto che la spiegazione opposta non resti anch’essa probabile e non meno provata. E infatti: Apollinaire e Novalis fanno derivare, in poesia, il linguaggio da un’ispirazione. Ma Poe o Valéry l’ispirazione da un linguaggio. Mentre questi ultimi vedono l’origine di ogni possibile spirito poetico in una combinazione materiale, i primi vedono la ragione stessa della lettera e del ritmo in un esercizio spirituale. La rivelazione, dice uno, secerne le sue parole e la sua forma. Ma l’altro: la forma e le parole provocano la rivelazione. “Poesia” dice il Boccaccio “è Teologia”. “Soltanto logogrifo” risponde Malherbe. Il poeta è Papa” dice Victor Hugo. “Al massimo, giocatore di scacchi”, replica Banville. “è profeta. – è orafo. – Canta. – Calcola”» (1). «Quando critici e dottrinari hanno esaurito tutte le loro ragioni, la poesia s’innalza e s’invola» (2).

O resta piuttosto nella sua genuina collocazione, a sanare ogni dissidio, a metà fra la parola e l’idea, fra lo spirito e la materia, di essi ugualmente partecipe, risultato del concorso e della fusione dei due ambiti, più che di un movimento che induca dal primo al secondo o viceversa: l’uomo è uno! E tutti i frutti della sua creatività sono insieme legge e mistero, fare con regole e sregolato ricevere.

Può sembrare eccessivo un tale preambolo per una silloge di autori “dilettanti” (absit iniuria verbo! Chi si diletta non è necessariamente uno sprovveduto o un incapace); ma non ho potuto fare a meno di uno spunto che alludesse alla natura di ciò che esiste e comunica e non si rivela, all’indefinibile fisionomia dell’arte e della tecnica del comporre in versi ed in prosa, volendo sostanzialmente avvertire che, anche nelle costruzioni di uno sconosciuto cultore, può nascondersi il tratto dell’arte; e magari dare senso ad un nuovo concorso letterario, fra gli innumerevoli in tutta Italia, attraverso la prospettiva e la speranza di una scoperta.

Del resto giustifica il premio, alla sua prima timida edizione, il non disprezzabile coinvolgimento di un centinaio di aspiranti, anche se viva ed amara è la consapevolezza del non dovere alimentare l’illusione troppo diffusa nel nostro Paese gentile, più di scrittori che di lettori, che appoggiare una penna sul foglio e tracciare dei segni, o digitare parole di seguito su una tastiera, sia già arte.

Del valore di chi ha partecipato al concorso si accorgerà il lettore di questa rassegna: noi non vogliamo far torto a nessuno, non diamo segnalazioni, avendo già espresso con la premiazione il nostro giudizio. Per il quale siamo certi di aver operato con imparziale criterio di scelta, in rapporto a quei canoni nascosti eppure evidenti che avvertono della presenza del bello.

L’Assessore alla Cultura Amato Maria Bernabei

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(1) Jean Paulhan, Chiave della poesia, Rumma Ed., Salerno 1969, pp. 50-5 1.
(2) Ivi, p. 58.

Vigonza, 2000. L'Assessore alla Cultura Amato Maria Bernabei in compagnia della Signora Maria Vittoria Scaramuzza organizzatrice ed anima del Premio di Poesia e narrativa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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PREFAZIONE AL VOLUME “VOCE PLURALE
antologia del 2° Premio di poesia e narrativa “VIGONZA” (2001)
Venilia Editrice Libri

C’è un’esagerazione barocca, nel gusto moderno: la tendenza a fare della poesia un intrico di trovate stupefacenti che, se dosate, potrebbero arricchire una vena lirica genuina, ma che affastellate senza misura generano confusione e annacquano la purezza del canto e la sostanza.

E c’è, a fianco, un’eccessiva ed ottimistica confidenza con lo scritto, una superficialità di approccio alla versificazione, spesso in presenza di una povertà di strumenti e di risorse, scaturente dal fraintendimento per il quale affidare comunque un’emozione alla carta sia di per sé poesia, dall’equivoco per cui si scambia l’esternazione del sentimento per arte, a prescindere dall’affiato e dalla tecnica, come se si potesse dirsi pittori solo per il fatto di impugnare un pennello e di tra­sferire goffamente sulla tela l’emozione di uno straordinario tramonto!

Se per tutti è legittimo rifugiarsi nell’espressione di quello che si avverte, dovrebbe almeno maturare in molti il senso dei propri limiti, la capacità di attribuire alle proprie “creazioni” i corretti confini dello sfogo o dell’esercizio, senza debordare velleitariamente ad ambire il Parnaso.

Se accogliamo la definizione del Devoto, per cui la poesia è «espressione metaforica di contenuti umani in corrispondenza di peculiari schemi ritmici e stilistici, tradizionalmente contrapposta a prosa», riconquistiamo il senso pieno di un genere nei confronti dell’altro, e gran parte della scrittura poetica moderna dovrà ricondursi al dominio della prosa.

Se della poesia come idea, come valore universale, traboccano le pagine più alte della narrativa mondiale, è anche vero che di prosa straripano innumerevoli poesie degli autori moderni! I “peculiari schemi ritmici e stilistici” che devono connotare il componimento in versi non possono diventare arbitrari e nevrotici scatti dell’andamento musicale! Non si tratta di sottomettersi ad un metronomo, come era nei timori di Ezra Pound, ma almeno di ricordare che la radice SREU della parola ritmo, allude a quel fluire che il verbo greco rèo poi manifestamente esprime e che nel genere della poesia non può essere uno scorrere senza passo, disordinato e innaturale. Né sotto la maschera dell’indipendenza dai canoni si possono giustificare imperizia stilistica ed approssimazione retorica, talora scadenti in forme di vero e proprio dilettantismo!

Ci siamo dilungati in considerazioni siffatte innanzitutto per sgombrare l’orizzonte dall’equivoco; in secondo luogo per dichiarare senza riserve ed incertezze il compromesso accolto dalla giuria nella stima degli scritti che hanno partecipato alla seconda edizione del Premio di Poesia e Narrativa «Vigonza». La rigida adesione ai principi sostenuti avrebbe comportato l’impossibilità di valutare gran parte del materiale pervenuto, sicché si è voluto tener conto della crisi in cui versa, a parer nostro, la poesia di questo tempo, premiando le più meritevoli “prose poetiche” da un lato e dall’altro i più lodevoli tentativi di recupero della tradizione lirica nostrana, quasi avvisaglie di una rinascita. Perché la storia della letteratura europea incontestabilmente attesta fertili stagioni di ritorno al classico in corrispondenza di momenti di stasi, se non di progressivi esaurimenti e degenerazioni del gusto.

L’ampia premessa “critica” non ci impedisce naturalmente di apprezzare il concorrere di tanti all’occasione sollecitata dal Premio vigontino, opportunità per confrontare mondi poetici diversi e multiformi soluzioni formali, ma anche per saggiare la fondatezza delle proprie aspirazioni artistiche di fronte al parere il più possibile imparziale di un competente collegio; non ci esime dal ringraziare quanti ci hanno dato credito, tutti quelli, specialmente, che con la loro non disprezzabile qualità di scrittura hanno arricchito ed illustrato la nostra rassegna; non ci sottrae al dovere di stimolare chi sente di avere ali, ad addestrarle al volo, e di esortarlo, insieme, a non tentare distanze superiori alla forza delle remiganti; non ci esenta, infine, dall’obbligo di riconoscere le indubitabili buone qualità di alcuni partecipanti, che noi decisamente esortiamo a proseguire lungo l’impervio tragitto dell’arte poetica.

A tutti, l’incitamento ad affidare alla carta ogni propria emozione, in modo indipendente dalle doti e dagli intenti artistici, convinti che non esiste confidente più fedele, più efficace valvola di sbocco, più prezioso forziere di un fragile foglio, che restituisce intatti nel tempo i nostri moti più riposti.

L’Assessore alla Cultura Amato Maria Bernabei

Vigonza, 2001. L’Assessore alla Cultura Amato Maria Bernabei nel corso della cerimonia di premiazione dei partecipanti al Premio di Poesia e narrativa 2001

TAVOLA ROTONDA
1)  Il significato simbolico della poesia

Introduzione

Per disputare di un oggetto bisogna conoscerlo e riconoscerlo.

Noi oggi parliamo di poesia. Ebbene: io non ho mai trovato opinioni più disparate e discordanti di quelle che circolano sulla poesia. Forse perché essa è indefinibile, o perché deve diventare ciò che chi scrive vuole che essa sia! Intendo dire che molto spesso nella storia della Letteratura si sono create improprie, se non arbitrarie, definizioni della poesia per qualificare come poetiche opere che tali non erano. Oggi quest’uso è addirittura invalso, sicché tutto ciò che si scrive andando a capo prima del margine fisiologico del foglio di carta, diviene per incanto poesia.

La sostanza della poesia è in realtà sfuggente, come si sottrae a qualunque controllo l’attività del poeta. Un cardine si può tuttavia immediatamente porre: la poesia è un genere letterario. Sembra un truismo, con termine più nostrano una banalità: in realtà affermarlo permette già di delineare con chiarezza il campo di pertinenza della poesia, individuandone le peculiarità che la denotano. Noi, forse contro corrente, siamo convinti che la poesia non può prescindere dai suoi distintivi “schemi ritmici e stilistici” [1] che l’hanno tradizionalmente contrapposta alla prosa. Non ci si può sottrarre all’uso della misura con mille pretestuosità: il genere della poesia ha delle esigenze di passo, se non rigide, almeno precise!

Dolce e chiara è la notte e senza vento (Leopardi)
è poesia, grande poesia, sublime slancio lirico;
la notte è dolce e chiara e senza vento
è poesia meno grande, anche se tecnicamente s’è conservato l’endecasillabo e non s’è aggiunta una sola parola!
è dolce la notte, chiara, e non spira il vento
è prosa.

Che cosa è cambiato nelle tre versioni? La musica. E questa è il risultato della raffinata combinazione di tecnica e gusto dei suoni e dei silenzi (o delle pause, qualora si preferisca), e di invenzione melodica e ritmica (e nel rapporto fra i suoni, perfino armonica!). Non a caso la poesia è, in origine, tradizione orale connessa con il canto, prima di farsi scrittura, con regole però ancora vincolate alla cantabilità (penso alla metrica quantitativa).

                “Furono moduli musicali, nettamente definiti e continuamente ripetuti, che probabilmente generarono i versi. L’insistere continuo su una base melodica nota, adattata a parole sempre diverse, portò mano a mano allo svuotamento della linea melica, a favore delle parole, organate secondo il ritmo che da quella melodia nasceva”. [2]

                Con questo non vogliamo ridurre la poesia ad un oggetto per musicologi: siamo ben consapevoli dell’importanza del piano semantico del linguaggio e della non confrontabilità fra le risorse dell’arte che si serve di estensioni di molte ottave e di figure che nella durata vantano un rapporto di 1 a 64, e quelle della poesia, ormai solo detta oppure letta, in cui la scala delle altezze è decisamente più modesta e il rapporto di durata fra le sillabe lunghe e quelle brevi è soltanto di 1 a 7, come fu dimostrato quasi un secolo fa dal Lote. [3]

Tuttavia confutiamo la “sollecitudine dell’oscurità vitale riluttante alla cifra” di Mario Luzi. Codesta ritrosia per il canone appare sospetta. La paura che la parola venga chiusa – sempre secondo Luzi – “in una rocca elevata contro il mondo” in contrasto con l’esigenza  che sia lasciata “aperta verso l’avvenimento e il mutamento che sono le leggi interne della vita”, [4] è infondata se riferita all’indiscriminato rifiuto della cadenza metrica, che sola, anche se non da sola (e penso, ad esempio, all’ecart di Jean Cohen [5]) può distinguere la poesia dalla prosa. E per quanto le leggi interne della vita siano aperte all’avvenire ed al mutare, restano nella vita stessa dei codici imprescindibili, delle caratteristiche inalienabili, oltre i quali essa diviene morte.

Non intendiamo dunque proporre un’ideologia della tecnica e la priorità della valenza fonica su quella semantica, trascurando gli imperativi del senso ed arrivando magari agli eccessi del lettrismo, [6] ma combattere la deformazione di un genere letterario, che tende ad essere snaturato; difendere la poesia, che non può fare a meno dei suoi connotati sanciti dalla tradizione per rimanere poesia.

La quale sia pure libera, ma non nell’arbitrio: nel caos c’è la prigionia, almeno dell’intelletto e dei suoi prodotti. Dite al musicista di rinunciare alla battuta! Eppure quale condizionamento è più stretto di un siffatto contenitore? O suggerite ancora ad un compositore di violare sistematicamente i vincoli imposti dal conferimento di un contesto armonico ad una melodia; o ad un architetto di trascurare ogni legame con le leggi della statica, ad un pittore di ignorare la prospettiva o qualunque altro criterio basilare dell’arte pittorica!

Se l’attività del poeta non è dunque esclusivamente fondata sulla tecnica, di essa certo non può fare a meno.

E passiamo senza altri preamboli ad un aspetto particolare dell’oggetto di cui ci occupiamo: il suo significato simbolico.

Il symbolum è in Latino un contrassegno, per la derivazione dal greco FL:$88T, che significa mettere insieme. Per noi il simbolo è perciò un accostare, un far corrispondere, un indicare, un rappresentare, un sintetizzare, un evocare.

Il termine simbolismo allude contemporaneamente all’“impiego più o meno sistematico di simboli nell’ambito di un’esigenza espressiva” [7], o ad un movimento artistico e letterario di origine francese, rivolto a interpretare per simboli il mondo reale.

Nell’accezione più lata si può dire che qualunque connessione tra un significante ed un significato è un simbolo: così, ad esempio, essendo il grafema significante del fonema, la lettera A diviene un simbolo, e perciò anche una sillaba, una parola, una frase, un periodo (i cosiddetti plurisegni discorsivi) possono essere considerati simboli, sempre nel nesso tra lo strumento per significare e il significato che questo esprime, rapporto che i linguisti chiamano “segnico”.

La ricchissima iconografia religiosa straripa di trasposizioni simboliche: l’impossibilità di rendere il soprannaturale costringe ad una sua rappresentazione metaforica (uso il termine in senso lato) il cui carattere può essere accostato a quello letterario: le ali di Ermes che “eternizzano l’originaria tensione creativa dal cielo alla terra e dalla terra al cielo” [8], non distano molto dall’esprit baudelairiano che si muove con destrezza al di sopra dei monti e delle nuvole, dalla sua ala vigorosa che si slancia verso i campi luminosi e sereni, per volare sulla vita e comprendere agevolmente il linguaggio dei fiori e delle cose mute! [9] In certi casi l’esigenza di arrivare alla coincidenza fra l’oggetto e ciò che esso rappresenta, produce complesse teorie e radicate convinzioni. Si pensi alla transustanziazione nel Cristianesimo.

O Signore, di tre peccati Ti chiedo perdono:
Contemplandoti, ho rivestito di forme Te che non hai forma;
Lodandoti, ho descritto Te che sei ineffabile;
E visitando i templi ho ignorato la Tua onnipresenza. [10]

Così invoca un saggio indiano nell’VIII sec. dopo Cristo.
E sembra quasi affrancare il fenomeno dalla sua veste di segno, riconoscendo l’errore dell’uomo che ostinatamente pretende di decodificare l’infinito attraverso il finito, di dare spiegazione del soprannaturale attraverso il naturale. Soltanto dopo circa un millennio, tuttavia, la nuova scienza avrebbe indagato finalmente il fenomeno invece di interpretarlo.

È probabile che alla radice del simbolo, in assenza di un preciso sapere, ci sia l’esigenza di decifrare una realtà intesa come manifestazione per indizi di forze nascoste che dirigono la vita e i destini degli uomini.

Il politeismo classico, nelle sue divinità e nei suoi oggetti ed espressioni di culto, nelle sue credenze, esprime fondamentalmente questa necessità. La quale nitidamente si riflette nelle forme letterarie, nella poesia, principalmente, che nascendo in saldo legame con la musica, dalla quale desume il ritmo ed a cui conferisce intransigenti caratteristiche melodiche [11], appare il genere più immediato.

I poemi omerici, la tradizione lirica e tragica della Grecia, la poesia Latina, abbondano principalmente di trasposizioni mitologiche, ancora estranei al preponderare delle figure retoriche del linguaggio dei poeti moderni.

Nello stesso modo il Medioevo, ancora per imprecisione e ristrettezza delle conoscenze, legge la realtà come espressione della Provvidenza divina, e continua a spiegare gli eventi in rapporto ad una mentalità che mescola aspetti naturali e valori morali e religiosi, costruendo perfino gesti, oggetti, comportamenti, parole con valore non letterale, ma simbolico, nel modo in cui traspare dai decaloghi rituali gerarchici, religiosi, cortesi.

La donna dei trovatori non è soltanto l’ispiratrice di una lirica d’amore, ma incarna aspirazioni psicologiche e sociali, come la gioia, la sicurezza, la nobilitazione, il perfezionamento interiore.

Esemplificando: il dilettoso monte dantesco, ch’è principio e cagion di tutta gioia, discende dall’abitudine alla commistione fra gli elementi della natura e le istanze dello spirito: l’altezza del colle simboleggia un’elevata aspirazione dell’anima, come il pianeta / che mena dritto altrui per ogni calle,  rappresenta la Grazia divina.

Quanto detto non nega tuttavia la possibilità della trasposizione su un piano allusivo diverso, in cui gli elementi della realtà si collegano all’esperienza interiore dell’uomo anziché rapportarsi alla sfera del divino.

Il lucreziano tibi rident aequora ponti, il mare che sorride a Venere, non è più un’interpretazione del reale in chiave ultraterrena, ma la personificazione di un elemento ed insieme il simbolo dello slancio gioioso e vitale dell’amore.

Passa la nave mia colma d’oblio. (Petrarca)

Nel verso petrarchesco la nave non è un traslato che implichi nessi soprannaturali, quanto piuttosto la metafora della vita stessa.

A mano a mano che si scorre lungo la traiettoria dei secoli, pare indebolirsi il simbolismo che si collega al sacro ed accentuarsi quello che più si riconduce all’immanenza.

Il Barocco, ma siamo nel secolo che annuncia il razionalismo, trabocca di trovate mirabolanti, segna un culto perfino bislacco del tropo, e tuttavia, pure nel cattivo gusto trionfante, addita strade mai battute e precorre atteggiamenti moderni.

Sarà però il Simbolismo dei poeti maledetti, culmine di una traiettoria già avviata dal Romanticismo, a decretare l’affermazione del “simbolo intrinseco al linguaggio creativo” contrapposto al simbolo “descritto dalle retoriche tradizionali” [12].

Nella psicanalisi il simbolo ha funzione così diversa da imporre una considerazione a parte, essendo un “modo del pensiero proprio dei livelli arcaici di evoluzione psichica”: l’inconscio presenta alla coscienza il simbolo anziché l’oggetto simboleggiato, esercitando opera di schermo e di protezione. In ogni caso anche in quest’ambito si verifica una trasposizione.

È il momento di dare spazio al contributo dei relatori intervenuti, che ci condurranno attraverso le specifiche competenze e le diverse ottiche, all’approfondimento del rapporto che intercorre tra la poesia e il simbolo e alla definizione del significato che il simbolo assume nella produzione poetica.


[1] Devoto, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier.
[2] Carlo Del Grande, Storia della Letteratura Greca, L. Loffredo Editore, Napoli , p. 17.
[3] G. Lote, L’Alexandrine d’aprés la phonetìque expérimentale, Paris, La Phalange, 1913.
[4] Mario Luzi, in Parlare e scrivere oggi, La comunicazione, Fabbri Editori, vol. 3, pp. 69-70.
[5] L’écart è una violazione del codice del linguaggio usuale, la figura dell’antica retorica (vedi Mario Pazzaglia nell’introduzione al volume di Jean Cohen, Struttura del linguaggio poetico, Il Mulino, Bologna, p. 10).
[6] “II lettrismo è inte­ressante per il suo stesso insuccesso. Esso ha avuto il merito di sviluppare fino in fondo la logica del sostanzialismo. Se in effetti i suoni articolati del poema hanno un valore este­tico proprio, perché non giocare su di essi liberamente, senza preoccuparsi degli imperativi del senso? E perché attenersi solo alle combinazioni di fonemi autorizzati dalla lingua? Il lettrismo ha dunque inventato prima di tutto i suoi propri vocaboli e, andando ancora più lontano, ha inventato i suoi fonemi o più esattamente, i suoi elementi sonori. Facendo in tal modo ha creato una sorta di musica concreta, forse esteticamente valida, ma che non può, in nessun caso, es­sere inserita nella categoria delle arti del linguaggio. Il lin­guaggio, in realtà, è significazione, e con questo termine non bisogna intendere – metaforicamente – tutto ciò che è capace di suggestione o di « espressione », ma piuttosto quel processo di « rimando a », che implica la trascendenza del significato, vale a dire la dualità, percepita come tale, dei due termini del linguaggio semiologico”. Il lettrismo ha voluto essere poema: in questo modo si è condannato da sé. Un poema che non significa nulla non è più un poema, perché non è più linguaggio”. Jean Coehn, Struttura del linguaggio poetico, Il Mulino, Bologna, 1974, pp. 56-57.
[7] Devoto, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier.
[8] Angela Cerinotti, Grande libro dei Miti, Demetra, p. 84.
[9] Charles Baudelaire, Spleen e idéal, Élévation.
[10] A.C. Bouquet, Breve storia delle religioni, Mondadori, p. 16.
[11] Si ricorda che la durata di una nota era adattata al valore della sillaba della parola da cantare e che l’accento tonico non acquistava risalto espiratorio, ma veniva evidenziato dall’acutezza del suono che obbligatoriamente doveva superare quella delle note attribuite alle sillabe atone.
[12] Mario Luzi, L’idea simbolista, Garzanti, pp. 9-10.

2)  Il significato emotivo della poesia

Introduzione

Io non so quando sia avvenuto e quale sia stato il primo incontro dell’uomo con la bellezza, il suo primo contatto consapevole con il bello. Né so che cosa sia la bellezza, pur potendo distinguere ciò che per me è bello da ciò che non lo è. Più difficile ancora mi risulterebbe codificare la bellezza come universale attributo.

Credo invece di sapere che il bello emoziona e che probabilmente l’esigenza dell’arte, del bello come artificio, è quella di una riproduzione del bello reale, senza voler tornare al concetto platonico dell’imitazione. In questi termini la richiesta del bello è anche, o soprattutto, bisogno di emozione, in termini di conservazione o di recupero attraverso l’espressione, e di appagamento.

Anche la poesia, sotto questo profilo, è solidamente stretta alla sfera delle emozioni: da queste si sprigiona e queste sollecita, sia essa di intenti didascalici, edonistici o sociali.

Scrive Mario Luzi: “… il tecnicismo della poesia moderna – dove c’è tecnicismo e c’è nello stesso tem­po poesia – non è di tipo alessandrino ma demiurgico e dunque profondamente  emotivo. Rara­mente  l’emozione,  lo abbiamo detto, ci appare allo stato di con­fessione  soggettiva. L’emotività della poesia moderna è immedesi­mata con l’attività linguistica. Ma non c’è ingegneria linguistica e tecnica che offra al poeta una rea­le invenzione se non traduce e non irradia una emozione. L’atto stesso di trovare una frase è emoti­vo ed è legato a una catena di emozioni le quali si riassumono nell’emozione fondamentale del percepire la vita dove pulsa in pro­fondità. Dove non c’è questo man­cano le premesse per considerare la poesia come una realtà del mondo. Ma dove c’è questo non c’è luogo ad opporre tecnica ed emozione se non per comodo arbitrio della fat­tualità letteraria”. [1]

Che cosa sia un’emozione, come nasca e che funzione abbia sono quesiti ai quali non è agevole rispondere.

Le scuole di pensiero sono diverse, disparate dunque le teorie dell’emozione, dalla periferalistica di James-Lange (oggetto-stimolo 4 alterazioni periferiche 4 effetto di ritorno sulla coscienza), alla centralista di Cannon e Bard (il sistema nervoso centrale ha ruolo fondamentale nel meccanismo delle emozioni) al sincretismo di Arnold e Lindlsey, che le due dottrine fondono in un risultato che mi sembra ormai il più accreditato (stimolo
4 eccitazione corticale 4 a. atteggiamento emotivo, b. espressione periferica 4 percezione come lo stimolo iniziale ecc.). Senza trascurare le teorie del profondo che fanno capo a Sigmund Freud (1910). L’approccio psicoanalitico all’emozione e all’estetica pone l’accento sul messaggio simbolico più che su quello semantico ed è stato applicato con profitto allo studio dell’arte e della letteratura. Per i freudiani il simbolismo sessuale o aggressivo è della massima importanza, poiché fornisce la chiave ai desideri inconsci di chi crea e di chi osserva l’opera d’arte. Quest’ultima assolve le stesse funzioni del sogno, permettendo che emozioni potenti ma represse acquistino espressione, sebbene trasformate in forme socialmente accettabili. Può avvenire che chi osserva proietti inconsciamente i propri desideri sul messaggio simbolico, ottenendo così una grati­ficazione temporanea senza timore del castigo o senso di colpa (Kreitler e Kreitler 1972)”. [2]

Per quanto riguarda il nostro ambito, del resto, il rapporto tra emozioni ed estetica è stato oggetto di analisi da parte degli psicologi sin dalla seconda metà del XIX secolo. L’attenzione si è concentrata sullo “studio delle opere crea­tive in quanto concretizzazione dell’espressio­ne di emozioni, nonché delle reazioni emotive e delle preferenze di chi è posto di fronte ad esse”.

 Ma lasciamo allo psicologo la definizione e l’interpretazione delle emozioni.

A noi preme considerare il ruolo che l’emozione ha nella creazione artistica e nella fruizione dell’arte, della poesia, nella fattispecie. E crediamo che essa ne sia la scintilla e il binario. Io spesso mi soffermo a valutare l’anello retroattivo che si innesca al momento dell’ispirazione: l’emozione spinge all’espressione; questa, nella sua forma, sorprende spesso il poeta, presentandosi in tempi superiori a qualsiasi discorsività logica, a qualunque controllo, e rende più intensa l’emozione generante o ne origina addirittura una nuova, che a sua volta si muta in forma espressiva.

Non c’è tuttavia solo l’aspetto che si riferisce a chi l’arte la crea. Anche chi dell’arte usufruisce trova in essa emozione, non necessariamente riflesso di quella dell’artista, ma certamente aperta almeno ad una bivalenza: alla possibilità di scatenare altre e diverse reazioni, o a quella di sedare l’animo.

Senza l’emozione dell’arte nessuno farebbe arte, nessuno la cercherebbe.

Ora si tratta di accertare, anche in questo caso attraverso quanto i relatori ci offriranno, quale sia, come sia la natura emotiva della poesia, quale significato essa abbia, quale possa essere il suo fine.

E poiché al termine di questa seconda tavola rotonda sarà premiato il vincitore del Concorso nazionale di poesia riservato ai minori ospitati negli Istituti di reclusione d’Italia e promosso dall’AICS, dal titolo “Volando oltre le mura”, magari ci si potrà soffermare anche sul ruolo di conforto, sostegno e redenzione della poesia.

Allora, se il dr. Pavan è d’accordo con me, io anticiperei il suo contributo, per chiarire subito e meglio il rapporto fra il mondo delle emozioni e quello dell’arte.

Amato Maria Bernabei, Assessore alla Cultura del Comune di Vigonza (PD)
Vigonza, 9 Giugno 2001


[1] Mario Luzi, in Parlare e scrivere oggi, La comunicazione, Fabbri Editori, vol. 3, p.72.
[2] Gerald C. Cupchick in Harré-Lamb-Mecacci, Psicologia, dzionario enciclopedico, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 291-293.

IL GENERE DELLA POESIA

Il contributo seguente è tratto dall’antologia dell’Editore Vincenzo Grasso, di Padova, Conoscere la metrica attraverso i poeti classici contemporanei (collegata al Terzo Premio-Concorso Nazionale Dante Alighieri di poesia classica italiana Cento poesie e una Lyra), di cui abbiamo curato la prefazione e le note.

«L’Antologia… raccoglie alcuni dei componimenti con i quali, da ogni parte d’Italia, molti appassionati hanno aderito alla Terza Edizione del Premio Concorso Nazionale di Poesia Classica, ideato e organizzato dalla Casa Editrice Vincenzo Grasso, di Padova.

A differenza di altri “certami” dedicati alla composizione poetica, l’iniziativa ha voluto ospitare anche apprendisti ed amanti del verso, indipendentemente dall’età e dalla perizia, per creare uno strumento didattico che stimoli, incoraggiando, attraverso l’esempio di quanti, sia pure con mezzi elementari, si adoperano e tentano il difficile sentiero delle Muse.

L’intuizione dell’Editore Vincenzo Grasso è quella di insegnare “dall’alto e dal basso”, come agiscono il sole e la terra sul seme: dunque non soltanto attraverso i modelli consolidati, ma anche sfruttando gli sforzi della passione, perfino sprovveduta, che tenda ad una conquista, o avverta il bisogno di una riconquista» (Dalla quarta di copertina).

PREFAZIONE

Tu che suonando canti, canti al suono
o suoni sulle corde alla parola?
porti il pensiero dove cambia il tono
o la musica al senso dove vola? [1]

La parola e la scrittura, volte alla trattazione, dovrebbero sempre dare sgomento: perché tale risulta l’ampiezza delle indagini e delle soluzioni del pensiero umano, che ad ogni formulazione si rischia di entrare in conflitto con oggetti già scandagliati e risolti, in un modo e nel loro opposto; si rischia di apparire superati,  ripetitivi, non aggiornati, o peggio, retrogradi o non edotti, magari terribilmente lontani da certezze conclamate… Allora bisognerebbe riavvolgere la lingua o il foglio ed astenersi. Ciononostante continuiamo a credere che sempre il contributo del singolo è prezioso, e concorriamo.

Un’intuizione è un guizzo, la luce di un baleno.
Nessuno imprigiona un lampo, ma l’intuizione, che non sia catturata e fissata, non è mai feconda.

Elaborare è faticoso, richiede tentativi, qualche sconfitta “didattica”, quella che sia capace di spingere, nel rimedio, verso l’approdo, come un vento che torni a gonfiare le vele. S’impara sbagliando, ci dicevano: attraverso l’errore si perviene infatti alla conoscenza e, nel perseguimento degli obiettivi, al successo.

L’intuizione dell’Editore Vincenzo Grasso è quella di insegnare “dall’alto e dal basso”, come agiscono il sole e la terra sul seme: dunque non soltanto attraverso i modelli consolidati, ma anche sfruttando gli sforzi della passione, perfino sprovveduta, che tenda ad una conquista, o avverta il bisogno di una riconquista.

Intendiamo dire che, se nel campo della poesia Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare possono essere addotti come insuperabili esempi verso cui tendere, non si può negare che, mentre essi attraggono, possono tuttavia dissuadere chiunque aspiri alla fonte Castalia, all’acqua del Parnaso che i Greci ritenevano ispiratrice di poesia. Meno proibitiva sembrerà l’impresa se ai grandi modelli si affiancheranno gli sforzi di chi si è innamorato per indole o per educazione della pratica del verso, di chi non avendo avuto la possibilità di affinare, attraverso la palestra, le proprie doti, o non disponendo di tutte le peculiarità necessarie per diventare e dirsi poeta, pure si ingegna di esprimere le proprie emozioni e la propria inclinazione al bello attraverso la parola cadenzata. Diventare, abbiamo scritto, perché certo si nasce artisti, ma le potenzialità vanno espresse, e in assenza di una precisa volontà, senza un’applicazione dura e costante, nessun esito importante è mai possibile.

L’intuizione di Grasso, per di più, si fonda sulla convinzione dell’inesorabile tramonto del “genere poesia”, dell’arte dell’espressione verbale nelle modalità che la tradizione ci ha consegnate e che la “traduzione” moderna ingiustificatamente tradisce, accantona. Non parliamo della poesia con accezione lata, della Poesia cioè che possiamo cogliere in un dipinto di Van Gogh, in una scultura di Michelangelo, nei passi di un grande romanzo, o della poesia come motivo di ispirazione o di commozione che un suggestivo scenario naturale o un incontro romantico possono indurre… Né vogliamo sostenere che l’uomo ha perso la capacità di essere poeta! Parliamo della poesia come genere distinto dalla prosa, parliamo dell’allontanamento graduale della cosiddetta “poesia moderna” dal modus classico, che non porta, come sostengono taluni, ad un’evoluzione, quanto ad una diversificazione; parliamo di un distacco che nemmeno avviene attraverso una semplice divergenza, ma quasi per taglio, per interruzione, verso una fisionomia che rinnega i tratti distintivi  originari, generando altro. Infatti trionfa la prosa poetica, che tutti in apparenza possono praticare, ma che solo a pochi è concesso di elevare al grado di grande arte, di Poesia, come del resto a pochi è riservato di poter essere grandi prosatori, Poeti attraverso la prosa. Quanti romanzi poveri affollano le librerie, quanti testi “poetici” frettolosi, scialbi, o colmi di tronfia verbosità vengono pubblicati, quanti libri sono tali soltanto per la veste! Senza voler considerare le carenze formali, lessicali, grammaticali, sintattiche, di cui tante pagine brulicano.

La libertà non è dissoluzione delle regole, ma la possibilità di agire autonomamente all’interno di un ambito disciplinato: la norma è il presupposto stesso della conoscenza, la base della ricerca e delle conquiste della scienza. Niente, c’è, che si sottragga alle leggi per cui una cosa è quello che è. Possiamo scegliere quando mangiare (ed entro certi limiti), ma non possiamo smettere di farlo se decidiamo di non morire! Vivere è quello che è. Nell’arte il fraintendimento della libertà genera confusione e scadimento, anche per l’ingresso di troppi in un ambito riservato a non molti, secondo il criterio della natura, che non distribuisce a tutti le medesime capacità e che ancóra più raramente concede i cromosomi della genialità. Come non sono Valentino Rossi tutti quelli che guidano una moto o non sono grandi chef  tutti quelli che cucinano, così non sono scultori tutti quelli che manipolano il pongo, né possono essere scrittori tutti coloro che usano una penna.

Il genere della poesia è stato codificato: chi ne ripudia le regole, ne è fuori, e rientra magari in quello della prosa poetica, un genere nuovo, che tuttavia ha i suoi codici, non può essere “libertino”: chi crede che lo sia, si sente scrittore senza esserlo.

Facciamo brevemente notare che nei migliori interpreti non raramente il “verso libero” [2] è tradizione che prepotentemente si ripropone, sia pure in un travestimento. Prendiamo in considerazione Soldati, di Ungaretti:

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie

Quattro versi? Due, per noi, camuffati in un quaternario piano, un ternario piano, un ternario sdrucciolo, un ternario piano. Metricamente due settenari:

Si sta come d’autunno
sugli alberi le foglie.

Che poi l’andare a capo “indichi” le cesure che il poeta desidera, e che magari coincidono con i moti dell’anima, è altro discorso.

Anche per la lirica Ed è subito sera di Quasimodo, che più di Ungaretti sembra accostarsi alla tradizione, possiamo svolgere un’analisi non diversa:

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

Strofa polimetrica… in apparenza. Pur formato da un senario doppio, un novenario e un settenario, l’intero aggruppamento ha un ossessivo ritmo ternario, risultante dal ripetersi per nove volte dell’anfìbraco [3], un piede di quattro morae [4] così strutturato: ∪ – ∪ (la sillaba lunga centrale, accentata, vale due morae):

o-gnu-no / sta-so-lo / sul-cuor-del / la-ter-ra / tra-fit-to / daun-rag-gio / di-so-leed / è-su-bi / to-se-ra.

Non cambierebbe molto anche se si volesse considerare in levare la prima sillaba per anacrùsi, [5] perché ne risulterebbero poi otto dattili e un trocheo finale:

∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪∪ / – ∪

o / gnu-no-sta / so-lo-sul / cuor-del-la / ter-ra-tra / fit-to-daun / rag-gio-di / so-leed-è / su-bi-to / se-ra. [6]

Questi esempi vogliono dimostrare che la musica  rivendica i suoi diritti, il suo passo “misurato” (almeno in chi possieda sensibilità musicale, dote indispensabile per la scrittura in versi) anche quando la si voglia ignorare.

Le regole dell’arte restano regole dell’arte, talune inderogabili.
Fra queste, nel genere-poesia, la maestria nell’uso del metro prescelto e il suo rispetto – mai a scapito, però, dell’indipendenza del pensiero, che attribuisce nuovo senso al vocabolo piuttosto che essere da questo condizionato -, la capacità di “far suonare le parole”, la congruenza fra le parole e il concetto che vogliono esprimere.

Naturalmente il contemporaneo avverarsi, al sommo grado, di tutte queste peculiarità, distingue le opere eccelse da tutte le altre. E i grandi modelli restano grandi modelli, superabili o insuperabili che siano.

In forza di tale assunto non può essere tuttavia disprezzata l’arte minore.

Intanto per la sua capacità di avvicinare un pubblico più ampio, avviandone poi una parte a gradi più elevati; in secondo luogo perché, in quanto arte, essa pure contribuisce all’educazione del singolo e della collettività, arricchendone i rispettivi patrimoni.

Se non ci fosse rimasta nel cuore e nell’orecchio l’eco dei ritmi di certi versi di Novaro, di Aleardi o di Palazzeschi, o addirittura di certe ninne nanne e filastrocche, chissà se mai saremmo riusciti ad innamorarci del verso, ad apprezzare, fino a “cercare”, le inimitabili terzine dantesche. [7]

Nelle prime età dell’apprendimento l’idoneità didattica di un componimento in versi non sembra proporzionale al quantum di Poesia in esso racchiuso. Una ragione di più per raccogliere in un’antologia anche i versi che un genuino desiderio di aderenza alla tradizione del genere poetico, certamente dettato da fine sensibilità e da buoni sentimenti, per quanto non sorretto magari da un alto talento, ha ispirato ai partecipanti al concorso.

Da parte loro i promotori in nessun caso hanno mai presunto di pubblicare delle opere d’arte (sebbene qualche autore ospitato possa disporre di vero talento), ma, come si è detto, piuttosto degli esempi “a portata di mano”, atti ad incoraggiare, anche i meno capaci, alla pratica di una modalità espressiva comunque piena di risorse educative.

Riteniamo che i componimenti di tutti coloro che hanno partecipato al premio siano in gran parte facilmente accessibili soprattutto alle fasce di lettori legate alla scuola, ma che non possano essere privi di un qualche benefico insegnamento per tutti quelli che si avvicinano alla poesia o che ad essa guardano con particolare attenzione. Saranno la guida diligente dell’insegnante o il personale senso critico a rilevare gli elementi da assumere come esempio e quelli da evitare, a saper fare uso sapiente degli “esperimenti” presentati, a indirizzare verso il miglior profitto, in relazione alle abilità individuali, i modelli “dal basso” che vengono proposti.

Una precisazione, a questo punto, ci sembra doverosa.

La fedeltà alla tradizione come noi la intendiamo, non può e non deve incorrere nell’errore della “riesumazione”. Una cosa è auspicare la sopravvivenza del genere, in riferimento alle peculiarità prosodiche e metriche, altra sarebbe sostenere la necessità di resuscitare una lingua morta. Chi pensa di praticare il genere facendo uso di vocaboli e modi non più proponibili, cade in un clamoroso equivoco: niente più poscia e nomar, per quanto siano danteschi, bando ai fe’, ai veggo, ai debbasi e a tutte le enclitiche antiquate del genere. Non si può resuscitare un’epoca, mentre è possibile conservarne le indicazioni di ritmo e di equilibrio. Consideriamo, per esemplificare, un settenario presente nell’antologia:

tolsemi pur pietade
che per la forma sembra essere stato prodotto settecento anni fa! O l’endecasillabo
mirar ‘u breve ’l vestigio si cede
che ha le stesse caratteristiche di “antiquatezza” (ci si perdoni il neologismo). È evidente che le forme linguistiche usate in questi versi non sono oggi più accettabili.

Costruiamo un esempio ad hoc per chiarire in modo definitivo il concetto: potremmo scrivere l’endecasillabo

guardo che ‘l cor mi fere adesso veggio (adesso vedo uno sguardo che mi ferisce il cuore),

ma suonerebbe quasi ridicolo! Visto che siamo versificatori del 2000, perché non fare uso della lingua corrente e modificare il verso in questo modo?

Vedo uno sguardo e mi ferisce il cuore

Non sarà ugualmente un bel verso, ma almeno nessuno potrà dirci di averlo scovato in un vecchio archivio.

Ora possiamo chiarire che le note spesso “correttive” di cui si è fatto uso nel libro non vogliono essere in alcun caso legate a giudizi di valore: hanno semplicemente lo scopo di richiamare l’attenzione sulla modernità da prediligere, sulla regola da rispettare, al fine di promuovere una crescita in chi ha collaborato con i suoi componimenti alla realizzazione dell’antologia, e la curiosità degli “inclini”, che, sia pure soltanto per emulazione, vogliano poi intraprendere l’impegnativo percorso della poiesis, della produzione, della creazione artistica nello spazio dove la realtà e il sogno si incontrano per diventare “canto”.

Ci auguriamo, allora, che l’esigenza di recupero di un “modo” in estinzione, che anima i promotori di questa iniziativa lodevole, trovi nelle pagine che seguono la sua giustificazione e funga da stimolo per chiunque voglia condividere con loro il movimento di riscossa della disciplina e della musica nella sfera di quel genere letterario chiamato “poesia”, che sembra già appartenere ad un’epoca superata. A torto, e con grave perdita per la Letteratura.

Amato Maria Bernabei
18 Giugno 2008

Come si diventa poeti


[1] Tu che canti accompagnandoti con le corde, dai voce al suono oppure suono alle parole? Sono le parole a seguire le altezze dei suoni, oppure è il suono che segue gli slanci del pensiero che si esprime con le parole? (Amato Maria Bernabei, Mythos, poema epico drammatico, Il mito di Orfeo, vv. 1-4, Marsilio Editori, Venezia, 2006).
[2] Parliamo sempre di “versi”, fra i quali non potremo mai annoverare certi arbìtri, certe righe stese a caso, che non sono poesia e sono perfino cattiva prosa! Qui non facciamo esempi, convinti che i lettori sapranno riconoscerli ogni volta che avranno modo di trovarseli sotto gli occhi. Ci sentiamo comunque in dovere di richiamare l’attenzione sulla differenza fra il verso libero e il verso sciolto.
[3] Dal gr. amphíbrakhys ‘avente un elemento breve dalle due parti’ (Devoto).
[4] Vedi il Glossario alla voce piede.
[5] Nella metrica classica, sillaba o gruppo di sillabe che all’inizio del verso precedono il tempo forte (cioè il primo ictus; Devoto).
[6] O-gnù-no-sta potrebbe essere considerato anche un peone secondo (∪ – ∪∪), ma questo non modificherebbe la sostanza del discorso che andiamo facendo.
[7] La poesia che segue, ad esempio, è un’ode saffica (strofe di  tre endecasillabi, chiuse da un quinario), rispettosa quindi dei canoni metrici, musicale, non vistosamente condizionata dalle rime, fanciullescamente candida, sognante, adattissima (forse proprio perché in veste di arte minore) a conquistare la sensibilità infantile, che certo non potrebbe essere altrettanto catturata da un Canto del Paradiso!

Il ruscello

C’era una volta un giovane ruscello
color di perla, che alla vecchia valle
tra molli giunchi e pratelline gialle
correva snello;
e c’era un bimbo, e gli tendea le mani
dicendo:- A che tutto cotesto foco?
Posa un po’ qui! Si gioca un caro gioco,
se tu rimani.
Se tu rimani, o movi adagio i passi,
un lago nasce, e nell’argento fresco
della bell’acqua io con le mani pesco
gemme di sassi:
fermati adunque, non fuggir così!
L’uccello che cinguetta ora sul ramo
ancor cinguetterà, se noi giochiamo
taciti qui.-
Rise il ruscello, e tremolò commosso
al cenno delle amiche mani tese:
e con un tono di voce cortese
disse:-Non posso!
Vorrei: non posso! Il cuor mi vola: ho fretta!
A mezzo il piano, a leghe di cammino,
la sollecita ruota del mulino
c’è che mi aspetta;
e c’è la vispa e provvida massaia
che risciacquar la nuova tela deve
e sciorinarla, sì che al sole neve
candida paia;
e il gregge c’è, che a sera, porge il muso
avido a bere di quest’onda chiara
e gode s’io lo sazio, e poi ripara
contento al chiuso…
Lasciami adunque -terminò il ruscello-
correre dove il mio dover mi vuole;-
e giù nel piano, luccicando al sole,
disparve snello.
                                          A. Silvio Novaro


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L’INCONTRO IN RETE…
con voci consonanti

Epistola a Vera (http://www.akkuaria.com/benedetto_macaronio/1.htm)
Ma che cos’è la poesia? (Antonio Peloso: http://www.cc-thesis.it/thesis-old/articoliscelti/poesia.pdf)
Poesia non poesia  https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/05/07/poesia-non-poesia-di-alfonso-berardinelli/
(Alfonso Berardinelli, http://it.wikipedia.org/wiki/Alfonso_Berardinelli)
La morte della poesia… (Valerio Magrelli: http://www.absolutepoetry.org/LA-MORTE-DELLA-POESIA-o-piuttosto)
Riflessioni sulla poesia per lettori un po’ annoiati (Giuseppe Panella) http://retroguardia2.wordpress.com/2008/09/01/riflessioni-sulla-poesia-per-lettori-un-po%E2%80%99-annoiati-a-ragione-di-giuseppe-panella/
Poeticità o discorsività? (un contributo di Fabrizio Corselli) http://www.writersmagazine.it/forum/viewtopic.php?t=1785&sid=9c73e2db0ea8d3e47e6d6c1eb98fcc02

con altre voci

Intervista a Franco Fortini http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=299
Che cos’è la poesia (Enrico Meloni) http://enricomeloni.altervista.org/coseuna.htm
Poesia (Wikipedia) http://it.wikipedia.org/wiki/Poesia
Poesia e Pedagogia (Dario Cillo) http://www.edscuola.it/archivio/antologia/poesia.html

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