Dove va la cultura?

Le strategie di mercato, anziché incoraggiare un piano che dia redditività alle iniziative culturali genuine, dalla sfera dell’istruzione a quella dello svago, speculano su una distorta fisionomia della cultura, rendendo cólto ciò che non lo è, puntando su prodotti di scarsa o nessuna qualità, capaci però, proprio per queste caratteristiche, di incontrare il gusto della massa incólta e di fruttare, anche rapidamente, ingenti profitti.

Avviene così che l’area della “fiera” si riempia, in tutti i “padiglioni”, di veicoli d’ignoranza, che producono il contrario dell’innalzamento verso cui dovrebbe orientarsi ogni proposta formativa. Merce di sicuro e rapido consumo, “fast food” della musica, della letteratura, del cinema – e chi voglia più ne metta  -, per palati poco evoluti, facilmente ingan-nati dai sapori pungenti delle salse e delle spezie. Si sa che lo stile Mcdonald’s non si ispira alla più sana soluzione alimentare, ma chissà perché ha dato vita nel mondo alla maggiore catena di ristorazione.

Ogni salùbre politica culturale dovrebbe avere come traguardo la cultura stessa, e puntare a raccogliere risorse economiche dalla gestione imprenditoriale della buona qualità, non tendere al profitto mediante la commerciabilità dell’offerta. In sintesi è il mercato che dovrebbe essere a servizio della cultura, non la cultura a servizio del mercato. Quando l’obiettivo di un nobile disegno, o che tale dovrebbe essere, inverte i termini, la nobiltà diventa plebea, l’altezza sprofonda.

Nel momento, infatti, in cui l’orientamento dell’investitore opta per il commercio, la proposta “culturale” deve soggiacere  alle regole della vendita, indirizzarsi verso una mer-canzia alla portata dei più, assecondare il livello, per quanto basso, esistente, trascurando del tutto di educarlo, contrabbandare per rarità i fondi di magazzino attraverso la strepitante “anima del commercio”.

Ben diverso sarebbe avere come scopo l’educazione e l’affinamento del “compratore”, attraverso articoli di graduale, crescente qualità, frutto di un’impresa dell’istruzione e della formazione che, pur producendo sostanziosi vantaggi economici per gli operatori, fosse in grado di reinvestire ed arricchire il capitale per un progressivo sviluppo dell’uomo e della società.

Quanto sarebbe meglio se in forza di questa nuova visione le università italiane poggiassero il loro prestigio sulla preparazione dei docenti e sull’adeguatezza delle strutture, piuttosto che sulle lauree honoris causa conferite al personaggio di turno, magari tronfio delle sue ignoranze! Quanto sarebbe meglio se invece di propinare musica senza musica, farne-ticazioni di rapper, martellanti e ossessivi rumori ritmici, logori temi melodici ripetuti fino all’assillo – repetita veneunt (le proposte ribadite sono più facilmente vendute) – reclamizzandoli come geniali opere di grandi artisti, si provvedesse a educare il gusto musicale, a sollecitare la pratica degli strumenti musicali, a guidare verso  ben altre partiture, leggère (accessibili, ma non dozzinali) o classiche! Quanto sarebbe meglio se si evitasse di riempire le vetrine e i banchi delle librerie di scritti “non scritti”, di pagine vuote di pensiero e piene di insulsi panegirici di miti vacui, di capitoli farciti di questioni pettegole o di enfatizzazioni di modelli sociali e culturali senza spessore, quando non malsani; di poesia senza poesia, di prosa senza letteratura… e al contrario si promuovesse la conoscenza della scrittura di pregio, si ammaestrasse al bello, si premiasse il valore dell’osservazione, della riflessione, del giudizio, della profondità delle idee, tramite un’azione educativa che magari prendesse avvio proprio dal rinnovamento delle esposizioni, dove finalmente prevalessero non i “volumi” di Vasco Rossi, della Clerici, di Cassano, di Benigni e simili, ma libri veri, di scrittori veri.

Quanto sarebbe meglio…

E l’analisi può estendersi in modo analogo a tutti i campi possibili e immaginabili, non variando la sostanza del messaggio.

A questo punto vale la pena, per non cadere in equivoci vischiosi, distinguere in maniera netta l’erudizione, ovvero il bagaglio di informazioni e di cognizioni posseduto da un individuo, sua semplice veste, dalla cultura, che è il grado di maturazione intellettuale, morale e sociale dell’uomo. In quest’ottica, paradossalmente, un soggetto molto erudito può non essere altrettanto cólto, e viceversa. Anche se, naturalmente, il contributo determinante che le conoscenze possono fornire alla formazione culturale non può essere messo in discussione.

Bisogna infine tener presente che, nell’accezione circolante, con il termine “cultura” si allude anche all’insieme delle iniziative messe in atto dagli organi preposti, dalle associazioni, dai privati, aventi come oggetto la presentazione e la divulgazione di prodotti culturali, nonché al patrimonio storico ed artistico della nazione. In questo senso è facile cadere nell’errore di credere che solo in questo possa esaurirsi la “coltura della cultura”, ovvero il complesso degli strumenti e degli interventi necessari a ottenere dalle “umane zolle” i frutti che esse possono dare.

Amato Maria Bernabei

vedi anche: www.dettaglitv.com

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