Tutto Dante: la svalutazione dello studio e degli studiosi

 

Uno dei danni maggiori delle “piazzate” culturali di Benigni è la svalutazione dello studio e dell’impegno, degli studiosi e dell’indagine critica, a favore di un facile spettacolo, troppo spesso ignorante e sempre triviale, che giova soltanto alle tasche del protagonista e del suo apparato imprenditoriale. Fra i tanti possibili esempi, atti a comprovare questo danno, si propone il commento di una quindicenne alla lettura della scheda riguardante il saggio “O Dante o Benigni”.
Non sono, del resto, solo i ragazzi a incorrere in certe critiche e in certi abbagli… 

Giada scrive:
Sentite a parte gli scherzi, ho 15 anni e non mi riesce scrivere da professori come voi, ma dopo aver letto tutti i commenti mi viene in mente solo una cosa che adesso vi racconterò. Ho iniziato quest’anno a studiare Dante a scuola, il mio prof è abbastanza in gamba e generalmente vado bene in italiano. E’ agosto quindi non mi ricordo un fico secco di quello che ho studiato quest’inverno (non mi ricordo nemmeno che ho mangiato a pranzo figuriamoci) ma l’unica cosa che mi ricordo è che la Divina Commedia era un vero libro per tutti, insomma si mettevano in piazza e lo leggevano al popolo, ai veri ignorantoni, altro che Benigni, era scritto in toscano perchè tutti lo potessero capire altrimenti sarebbe stato un altro noioso saggio in latino di cui detto in maniera molto scurrile \” Dante ne aveva le palle piene \”. Insomma secondo me non serve l’ingegnere della letteratura per spiegarlo, si capisce benissimo così com’è e se non fosse scritto in italiano medievale anche i bambini potrebbero capirlo. Dante Alighieri ha scritto un libro per il popolo, nella lingua del popolo, che veniva letto al popolo non a tutti gli intellettuali della sua epoca sennò non sarebbe passato alla storia. Quindi in conclusione chi cavolo se ne frega delle fonti, dei riferimenti religiosi, delle figure retoriche, della provenienza greco latina della parola e sopratutto almeno Benigni ha fatto qualcosa, c’ha provato a divulgare la cultura anche se male. Voi intellettuali di oggi invece state a lamentarvi e a scrivere i vostri libricini su come la società è corrotta ed è malata nei vostri loft super arredati e pronti a criticare i minimi errori di tutti.

Cara Studentessa,
grazie intanto per avere espresso la tua opinione.
Purtroppo devo smentire quello che dici sulla Commedia, specialmente quando affermi che Dante “l’ha scritta in toscano perché tutti potessero capirla” e che “si capisce benissimo così com’è”.
1) Se quello che dici è vero, perché Benigni la “spiega”, storpiandola, fra l’altro? Gli basterebbe leggerla, tanto tutti la capirebbero “benissimo”, visto che la lingua che Dante usa (quella che tu chiami “italiano medievale”) è vicinissima a quella che parliamo oggi (neologismi esclusi). Non è capitato infatti all’Italiano, in 750 anni, quello che è accaduto alla lingua di Shakespeare, modificatasi quasi radicalmente nel giro di mezzo millennio.
2) Non so dove tu abbia appreso la nozione che vuole la lingua di Dante “accessibile a tutti”! Hai studiato il De Vulgari Eloquentia? Se sì, ti avranno spiegato che l’opera, scritta in Latino fra il 1304 e il 1308, è un trattato rivolto ai letterati di professione, di estrazione borghese (non proprio adatta, dunque, alla tradizione popolare) e vuole definire un idioma volgare che possa conseguire un’alta dignità letteraria, elevandosi al di sopra delle varie parlate regionali e sottraendosi all’egemonia del Latino. L’Alighieri ha dunque teorizzato (e successivamente usato) un “volgare” letterario, aristocratico, non alla portata del popolo e degli ignoranti. Scrive l’illustre critico Natalino Sapegno: “L’errore di Dante nel De vulgari eloquentia è di aver sentito la coscienza dell’arte in modo così forte da sopravvalutarla, trascurando o deprimendo l’uso comune, parlato e non letterario, della lingua”. Scrive ancora il Sapegno: “Il De vulgari eloquentia è l’affermazione teorica della nuova poesia italiana, poesia dotta ed aristocratica alla quale non possono salire se non quelli in cui sia ad un tempo incendio e scienza”.
Come è nata allora la “barzelletta” che ti hanno raccontata e che tu riporti? “Dante Alighieri ha scritto un libro per il popolo, nella lingua del popolo, che veniva letto al popolo non a tutti gli intellettuali della sua epoca sennò non sarebbe passato alla storia”. Dimentica corbellerie del genere e non ripeterle a nessuno che sappia qualcosa di letteratura: faresti una figuraccia!
3) Uno dei danni peggiori prodotti da Benigni è la svalutazione dell’impegno, il solo che possa permettere di guadagnare conoscenza; di aver screditato quello che tu chiami “fonti, riferimenti religiosi, figure retoriche, provenienza greco latina della parola”… Di aver svuotato il senso della ricerca e dello studio, di aver gettato comunque cattiva luce sugli studiosi a favore degli showmen, tirando parecchia acqua al proprio mulino: in tal modo lui, con la sua incompetenza, passa per qualificato dantista e incassa milioni di Euro, e gli studenti cadono nella trappola e pensano che tutto sia facile, accessibile, divertente, e che poco importi “lavorare”. Tu infatti concludi affermando “Voi intellettuali di oggi invece state a lamentarvi e a scrivere i vostri libricini su come la società è corrotta ed è malata nei vostri loft super arredati e pronti a criticare i minimi errori di tutti”.
Dunque noi valiamo niente: scriviamo “libricini” e ci lamentiamo, mentre i ciarlatani godono di successo e di ricchezza (altro che i “loft” di cui tu parli e che certo noi non possiamo permetterci) nonostante inquinino la cultura e la mente di tanti.
Forse un giorno ti accorgerai di questa tua dannosa ingenuità…

* * * * * * * * * *

“Appartengo ad una generazione distratta che considera
vuote ed inutili parole come esegesi, filologia, interpretazione,
volgare ARISTOCRATICO, ossimoro che si tiene insieme solo grazie alla sua fantasia”

risponde un “adulto” a un sostenitore che ha pubblicato un’intervista da me rilasciata
http://www.youtube.com/watch?v=7qaA8MgP6QQ&feature=youtu.be

Purtroppo, come si diceva, non sono soltanto i ragazzi a rimanere vittime di questa tendenza a togliere valore alla serietà dell’approccio alla ricerca e all’apprendimento.
Si legge in una pagina della Rete un attacco senza sconti agli illustri contributi esegetici e filologici che riguardano la Divina Commedia, da parte di una persona “dotta” (?), da cui mai ci si aspetterebbe un  pensiero  penalizzante  nei confronti delle qualificate e serie indagini critiche su Dante che la tradizione ci ha consegnate.

Il gigante ed il bambino, ovvero Dante e Benigni [*]
Benigni si spoglia della marsina del comico per leggere Dante e fornirne una interpretazione lontanissima dalle ricerche semantiche, teologiche, filosofiche, allegoriche, analogiche o anagogiche
          [sembra di sentire Giada; n.d.c.]
per proporre un approccio capace di entrare dentro l’architettura della “Commedia”, per smontarla, pezzo dopo pezzo, dalle sovrastrutture e restituirla alla chiarezza della semplicità, come se fosse stata scritta per essere “raccontata” a tutti e non analizzata, studiata e interpretata da pochi.

Si è scomodato anche il Vaticano, per bocca del cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, per sottolineare l’interpretazione di Benigni come quella di un grande teologo.

Con queste parole Bertone non ha premiato lo sforzo di chiarezza operato da Benigni, ma lo ha castigato proiettandolo dentro la pletora dei critici, dei supercritici, degli analisti, dei filologi, dei filosofi e dei teologi, che hanno avuto, ormai da 750 anni, la pretesa di far dire a Dante ciò che loro avrebbero voluto che dicesse.
Alle parole dette dal Segretario dello Stato vaticano si sono associati i nuovi critici e i nuovi interpreti, pronti, come sempre, a “soccorrere” il vincitore. Perché Benigni è stato ed è un vincitore, capace di affascinare la platea porgendo il cuore e mostrando l’anima, istruendo senza dottrina, con la sensibilità dei semplici
[istruire senza dottrina è esattamente la grave presunzione di Benigni! nda]. Non viene tenuta in nessun conto la frase con la quale ha esordito prima di dedicarsi a quel 33° canto del Paradiso, ove viene composta la più bella e sentita invocazione alla Vergine dopo l’Ave Maria dell’Arcangelo Gabriele, la sola preghiera che accomuna cristiani e musulmani, che assimila Vangelo e Corano.

Con la semplicità di chi si appresta a narrare un affascinante racconto, Benigni ha esordito affermando: “Da grande non ci ho capito granché, ma da bambino avevo capito tutto”. [1]

È tutto qui il mistero di un successo che travalica i limiti della critica, per entrare nell’alveo della cultura popolare, ingenua, semplice, comprensibile e accettata.

È vero, Benigni entra nel mondo dantesco servendosi di una “porta di servizio”  [2] ma solo perché l’ingresso principale è ancora intasato dalla fanfara dei “dotti e degli intelligenti”; infatti, come dice Cristo: “Ti ringrazio Dio Padre Onnipotente di avere nascosto ciò ai dotti e agli intelligenti e averlo rivelato ai semplici”.
Le dotte parole di Dante, l’architettura dei versi e l’articolazione del contenuto trovano la loro migliore identificazione in una trasposizione dalla dotta versione medievale del sommo poeta, (quando il letterato doveva essere competente in tutte le discipline conosciute), ad una esemplificazione apprezzabile e apprezzata perché liberata dalle sovrastrutture di una erudizione senza anima.

Il metodo di Benigni può essere sovrapposto alla letteratura dei Vangeli, alle esemplificazioni delle parabole, alle loro interpretazioni; le parole di Cristo che ci sono state tramandate perdono la loro efficacia diretta solo quando vengono manipolate in disquisizioni dogmatiche, altrimenti la loro presa è diretta, senza equivoci, penetrante.
“Lasciate che i fanciulli vengano a me”, come invito ai cuori semplici di avvicinarsi alla fonte viva della verità.
“Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, come sfida alla coscienza, attribuendo, solo ad essa, la capacità di giudicare. [3]

È la forza grandissima della semplicità, della comunicazione diretta, capace di invadere e penetrare nelle coscienze, anche quando sono intorpidite nel sonno della ragione. [4]

Ne sono certo: Benigni da bambino aveva capito tutto, adesso ci ripropone la sua esperienza e cerca di contagiare gli ascoltatori inoculando il gene del fanciullino, proponendo la sola chiave di lettura che illumina e non confonde, quella della purezza che alberga nell’animo incontaminato dei bambini.

Rosario Amico Roxas (9 dicembre 2007)

Intanto Roxas non fa notare che Benigni non “usa” che pochi canti, quelli più adatti alla commercializzazione, perché per gli altri l’operazione sarebbe improbabile! Così nasconde – e si nasconde – lo scopo principale che il comico persegue.

In secondo luogo non si rende conto che chi sente il bisogno di stravolgere Dante per “semplificarlo”, non ha passione per lo studio né per la conoscenza. Perché non facciamo anche la rilettura della Passione di Cristo con lo stesso stile? Per liberarla “dalle sovrastrutture e restituirla alla chiarezza della semplicità”? E per renderla più divertente… Il fatto è che ogni contesto ha il suo registro: la risata non si adatta alla funzione religiosa.

A sostegno del comico, questo sperticato lodatore cita il Vangelo: “Ti ringrazio Dio Padre Onnipotente di avere nascosto ciò ai dotti e agli intelligenti e averlo rivelato ai semplici” (Matteo, 11,25). Intanto Cristo parla di “semplici” (qualcuno traduce anche “piccoli”) e non di semplicioni. In secondo luogo proprio Benigni, in certi casi, sceglie (ammesso e non concesso che scelga), le spiegazioni più complesse (ma anche più confuse nella sua versione), a danno di quelle più immediate, contraddicendo purtroppo il suo estimatore. Citiamo ad esempio il passo del XXXIII del Paradiso:

    Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:
    sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.

La spiegazione più rapida e “semplice” è la seguente: nella profondità dell’essenza divina vidi che tutto ciò che nell’universo è sparso e diviso (si squaderna), si trova raccolto (s’interna), legato da un vincolo d’amore, in una sola unità (in un volume). Vidi le cose nella loro sostanza, nelle loro caratteristiche accessorie, variabili (accidenti: l’altezza in un uomo), e nelle modalità in cui sostanze e qualità accessorie sono in relazione (costume), tutto armoniosamente e strettamente fuso insieme (conflati), in un modo tale che le mie parole possono dare soltanto una pallida immagine (semplice lume). Pochi secondi, per dire tutto… con chiarezza.

Seguiamo adesso l’interminabile, caotica spiegazione di Benigni, quella “sottratta ai dotti e rivelata ai semplici”.

“Adesso è la prima delle descrizioni di Dio: lui lo descrive tre volte. Sentite che cos’è Dio… E guarda Dio. Lui dice ficcò lo viso ne la luce etterna, quindi l’ha visto bena… l’ha visto molto bene, ecco e dice: nel suo profondo vidi che s’interna… attent’a ‘sta terzina che è… uno scandalo, fa paura da quant’è… Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna… aspetta…  sustanze e accidenti e lor costume / quasi conflati insieme, per tal modo / che ciò ch’i’ dico è un semplice lume. Allora lui guardò nel suo [5] profondo e vide che c’era le sustanze e le accidenti, son termini medievali per dire ciò che produce, ciò ch’è prodotto, ciò ch’è stato e ciò che sarà, sustanze e accidenti e lor costume, e la maniera di loro, [6] conflati insieme, per tal modo che io ora vi dico è una sciocchezza, [7] ciò che per l’universo si squaderna: c’è un punto nell’universo che si chiama l’Alef, da dove si può guardare tutto, sempre, e quel punto è Dio. Allora Dante, essendo dentro a Dio, lui ha visto dentro ciò che per l’universo si squaderna / sustanze e accidenti e lor costume, [8] ha visto tutto quello che il mondo è stato, l’inizio del tempo, la fine del tempo, è stato lui il tempo: è stato ognuno di noi questa sera, è ognuno di noi, la maglia, i calzoni di ognuno di noi. È questo palco, ha visto il legno, ha visto quando hanno tagliato ‘sto legno…”.

Come si nota, anche troppo bene, Benigni ha scantonato: ma tutti capiranno… che cosa? Davvero le due terzine dantesche? Egli ripeterà per l’ennesima volta che Dante ha visto… fiori che crescono dove nessuno li ha mai visti, il coraggio che non è andato a compimento, gli amori che sono finiti male; dirà che ha sentito il tonfo di una castagna in un luogo deserto; e ancora, che ha visto Cesare a cavallo, che era il cavallo di Cesare, [9] che ha visto lo zoccolo del cavallo di Cesare, la terra dove lo zoccolo del cavallo di Cesare batteva, l’erba calpestata, meglio, che lui era l’erba sotto lo zoccolo del cavallo di Cesare, una volpe che prende un coniglio, i denti della volpe, il sangue del coniglio, i globuli rossi del sangue del coniglio, lo sperma di qualcuno che sta per essere generato… [10] Chi dovesse avere la registrazione delle sue performance potrà con facilità rendersi conto del copione fisso. Non contento della girandola assurda, che riduce ad un elenco di fenomeni, anche scialbi, una visione che è invece fondamentalmente di amore, di armonia e di unità, Benigni “semplifica” ulteriormente, tornando sui versi:

“Sentite la bellezza di questi versi che non finisce solo nel significato, ma nel senso poetico,[11] sentite… dice, ve li ripeto: Nel suo profondo vidi che s’interna, vuol dire tre, internare, interno, eh? Tre, che è il numero della Trinità, legato con amore in un volume, ch’è anche un libro, ch’è il libro sacro, il libro della vita, ciò che per l’universo si squaderna, quattro… Lo ha me, ci sono dentro tutti i segni della teologia cristiana, il tre e il quattro, che sono i segni, no? della, delle virtù e della teologia, no? Sono il, el ee eee il divino e l’umano, che si uniscono, tre è il numero del divino e quattro è il numero dell’umano, [12] e… c’è il libro, ciò, ne, vidi che s’interna, quindi ha due sensi, dentro è tre; questo si squaderna, a parte la bellezza di squadernarsi che c’è un’altra volta, il quaderno, proprio, il senso della scrittura, è propo e la e illlll’onomatopea, ciò che per l’universo si squaderna, il quattro, che siamo noi, dentro, io ve l’ho detto per questo perché è più visibile, ma pressoché in ogni verso c’è un significato o due significati, ma il più bel significato non c’è nulla di più profondo della superficie. Quello che lui ci dice è profond, quello che prendiamo subito”.

Chiaro? [13]
È ancora convinto, Rosario Amico Roxas, delle doti del suo “evangelico” pupillo?

Benigni ha impiegato quattro minuti “per non spiegare” due terzine che potevano essere chiarite in pochi secondi, andando a pescare interpretazioni impegnative (“tutti i segni della teologia cristiana” e perfino riferimenti archeosofici, come l’Alef) poco o per nulla frequentate perfino da quei critici che il nostro Rosario tanto censura, e riferite per di più in un modo prolisso e caotico, dal quale si comprende che Benigni poco o niente ha compreso!  [documento sonoro]. Rosario al quale, per concludere, diciamo che: se nella storia della “critica” dantesca c’è uno che fa dire all’Alighieri ciò che lui vuole che l’Alighieri dica, quello è Benigni. (Tutto il passo è tratto dal saggio “O Dante o Benigni”, pp. 254-260)

N.B. Si consulti pure il post “Tutto Dante: esegesi di un’esegesi…”
http://www.odanteobenigni.it/?p=1986

* * * * *

Il fatto è che l’avallo di uomini di cultura, soprattutto quando si tratta di nomi importanti, condiziona in maniera pesante la massa degli sprovveduti. La prefazione di Umberto Eco a “Il mio Dante” di Benigni, ad esempio, pur dicendo nulla delle “esegesi” del comico, ma facendo vaghe allusioni al suo bagaglio culturale ed apprezzando la sua recitazione degli enjambements danteschi (peraltro discutibile), autorizza i fan… atici a citare l’autorità del grande semiologo per provare l’inattaccabilità dello sprovveduto dantista di Castiglion Fiorentino.

Si riporta a conferma un altro commento, questa volta al post “Tutto Dante: nota di merito…”, pubblicato anche sul sito http://dettaglitv.com/ :

Scrive Luca:
Bè che dire… si parla, si parla, si parla, si parla, si parla e ancora si parla… si critica, usando parole alte o meno per “commentare” quello che fa Roberto Benigni riguardo la Divina Commedia… leggo, “colti” attacchi tra i commenti su youtube, nei vari forum dove incredibilmente tutti sono esperti di letteratura; chi sono? Mi chiedo. Per fortuna leggo anche che Umberto Eco, in una premessa di un libro, dice ai lettori, che Benigni è prima di tutto un grandissimo intellettuale, che nelle loro chiacchierate se ne esce fuori anche con citazioni in lingua di poeti minori greci, lasciandolo a bocca aperta e leggo anche che Roberto Hollander, uno dei maggiori conoscitori e studiosi della Divina Commedia riconosciuto a livello mondiale, lo stima enormemente riconoscendo tutto il suo grande talento! Sinceramente a me basta questo, come evidentemente a te basta “O Dante o Benigni”.

Non si poteva che rispondere in questo modo:
Umberto Eco riferisce, Roberto Hollander stima (il talento…): io dimostro! Mi pare ci sia una bella differenza. Tu, poi, critichi il libro senza averne letta una pagina. Hai imparato da Benigni, che parla della Divina Commedia senza conoscerla.
A dirla tutta Umberto Eco è amico di Benigni e, pur dicendo pochissimo del comico toscano, dice “purtroppo troppo” perché gli allocchi non abbocchino e si rende corresponsabile di tutte le fandonie che l’attore toscano va raccontando su tutte le piazze. Questo mi dispiace, perché stimo davvero molto la preparazione di Eco (lui sì davvero grande nel suo campo).
Su Benigni stendiamo un velo, anche se non ho dubbi sul suo talento…  Ma quale? Certo come piazzista il comico è straordinario, perfino nel promuovere il libro di Roberto Hollander… http://www.youtube.com/watch?v=luRt25rdbto
Tu, Luca, prima di prendere posizione, documentati e studia. Poi ne riparleremo.
Pensa che non ti sei nemmeno accorto che il post non è firmato dall’autore di “O Dante o Benigni”!

Amato Maria Bernabei


[1] Certo: dunque è il momento di far leggere Dante in seconda elementare. Anch’io da bambino avevo capito tutto della… befana. Da adulto non la capisco più: addirittura mi sembra che non esista…
[2] Non vorremmo che fosse… un certo tipo di servizio… che so io, una toilette.
[3] E alla penna di Roxas che deplora i lacci dell’erudizione, un passo come

      Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante;
      ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’io, a me si travagliava.

appare semplice come lasciate che i fanciulli vengano a me? Ma quandomai Dante potrà essere “popolare, ingenuo, semplice”?
[4] Vero proprio il contrario: è la forza grandissima della comunicazione, capace di invadere e penetrare nelle coscienze, e di intorpidire la luce della ragione! La forza, cioè, dell’imbonitore. Ma caro il mio Roxas, ti ricordi la spiegazione che Benigni fornisce della terzina  Omai sarà più corta mia favella, / pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella? Ti rendi conto che Dante vuole semplicemente dire che la mente umana non è in grado di comprendere il mistero di Dio e che le sue parole sono meno adatte di quelle di un bambino ancora allattato? Dante vuole significare che non c’è conoscenza umana idonea a tale comprensione, non certo che Dio è il lattante, come sembra dire Benigni, o che il bambino che il comico imita producendo suoni da handicap, capisce Dio meglio di lui! Eppure le… “coscienze” applaudono! [documento sonoro]
[5] Suo di chi? Di Dio, ma non è così che si parla.
[6] A parte la confusione che il Professore ha ed induce, perché cominciare dalla terzina più difficile, i cui concetti sono espressi in termini filosofici? Termini con i quali si sente che il “semplicione” ha poca confidenza e che non riesce quindi a spiegare: sostanza è tutto ciò che esiste di per sé, in modo autonomo (essenza, ousìa: “substantiae nomen… significat essentiam cui compětit sic esse, id est per se esse”; San Tommaso, Summa Theologica, 1, 3, 5 ad 1); accidente è tutto ciò che accompagna la sostanza e la qualifica (qualità, quantità, luogo, tempo…; San Tommaso, Summa Theologica, 3, 77, 1 ad 2); costume (habitus) è il rapporto, la relazione fra la sostanza e l’accidente (San Tommaso, Summa Theologica,1-2, 50,1).
[7] Davvero disarmante: che ciò ch’i’ dico è un semplice lume diventa che io ora vi dico è una sciocchezza! “Che ciò che dico può dare solo una vaga idea”, questa è la spiegazione.
[8] Adesso si mette in moto l’imbonitore che deve mascherare la scarsa competenza.
[9] Dov’è finita l’armonia dei distinti? Una cosa è “fusione”, altra è “confusione”.
[10] Formidabile! Dante vede eiaculare qualcuno che è ancora nell’utero materno, un feto (lo sperma di qualcuno che stava per essere jenerato [ds]).
[11] Cioè?
[12] Che cosa volete che capisca, uno che non sa, di questa “esegesi” ispirata “alla semplicità”…? Di questi riferimenti alle virtù teologali, le virtù che riguardano Dio (fede, speranza e carità), e alle virtù cardinali, le virtù umane principali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza), riferimenti che creano una doppia spiegazione (la seconda dotta, dubbia, e perciò anche superflua, oltre che sconclusionata nella versione del comico) aumentando la confusione già prodotta dal precedente sproloquio?
[13] Sfido qualunque ragazzo (e non solo) a ripetere qualcosa di sensato dopo una lezione del genere.

 

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