Il significato simbolico della poesia

                  Per disputare di un oggetto bisogna conoscerlo e riconoscerlo.
Noi parliamo di poesia. Ebbene: io non ho mai trovato opinioni più disparate e discordanti di quelle che circolano sulla poesia. Forse perché essa è indefinibile, o perché deve diventare ciò che chi scrive vuole che essa sia! Intendo dire che molto spesso nella storia della Letteratura si sono create improprie, se non arbitrarie, definizioni della poesia per qualificare come poetiche opere che tali non erano. Oggi quest’uso è addirittura invalso, sicché tutto ciò che si scrive andando a capo prima del margine fisiologico del foglio di carta, diviene per incanto poesia.

La sostanza della poesia è in realtà sfuggente, come si sottrae a qualunque controllo l’attività del poeta.
Un cardine si può tuttavia immediatamente porre: la poesia è un genere letterario. Sembra un truismo, con termine più nostrano una banalità: in realtà affermarlo permette già di delineare con chiarezza il campo di pertinenza della poesia, individuandone le peculiarità che la denotano. Noi, forse contro corrente,
siamo convinti che la poesia non può prescindere dai suoi distintivi “schemi ritmici e stilistici” [1]
che l’hanno tradizionalmente contrapposta alla prosa. Non ci si può sottrarre all’uso della misura con mille pretestuosità: il genere della poesia ha delle esigenze di passo, se non rigide, almeno precise!

            Dolce e chiara è la notte e senza vento (Leopardi)
è poesia, grande poesia, sublime slancio lirico;

            la notte è dolce e chiara e senza vento
            è poesia meno grande, anche se tecnicamente s’è conservato l’endecasillabo e non s’è aggiunta una sola parola!

            è dolce la notte, chiara, e non spira il vento
            è prosa.

            Che cosa è cambiato nelle tre versioni? La musica. E questa è il risultato della raffinata combinazione di tecnica e gusto dei suoni e dei silenzi (o delle pause, qualora si preferisca), e di invenzione melodica e ritmica (e nel rapporto fra i suoni, perfino armonica!). Non a caso la poesia è, in origine, tradizione orale connessa con il canto, prima di farsi scrittura, con regole però ancora vincolate alla cantabilità (penso alla metrica quantitativa).

            “Furono moduli musicali, nettamente definiti e continuamente ripetuti, che probabilmente generarono i versi. L’insistere continuo su una base melodica nota, adattata a parole sempre diverse, portò mano a mano allo svuotamento della linea melica, a favore delle parole, organate secondo il ritmo che da quella melodia nasceva”. [2]
Con questo non vogliamo ridurre la poesia ad un oggetto per musicologi: siamo ben consapevoli dell’importanza del piano semantico del linguaggio e della non confrontabilità fra le risorse dell’arte che si serve di estensioni di molte ottave e di figure che nella durata vantano un rapporto di 1 a 64, e quelle della poesia, ormai solo detta oppure letta, in cui la scala delle altezze è decisamente più modesta e il rapporto di durata fra le sillabe lunghe e quelle brevi è soltanto di 1 a 7, come fu dimostrato quasi un secolo fa dal Lote. [3]
Tuttavia confutiamo la “sollecitudine dell’oscurità vitale riluttante alla cifra” di Mario Luzi. Codesta ritrosia per il canone appare sospetta. La paura che la parola venga chiusa – sempre secondo Luzi – “in una rocca elevata contro il mondo” in contrasto con l’esigenza  che sia lasciata “aperta verso l’avvenimento e il mutamento che sono le leggi interne della vita”, [4] è infondata se riferita all’indiscriminato rifiuto della cadenza metrica, che sola, anche se non da sola (e penso, ad esempio, all’ecart di Jean Cohen [5]) può distinguere la poesia dalla prosa. E per quanto le leggi interne della vita siano aperte all’avvenire ed al mutare, restano nella vita stessa dei codici imprescindibili, delle caratteristiche inalienabili, oltre i quali essa diviene morte.
Non intendiamo dunque proporre un’ideologia della tecnica e la priorità della valenza fonica su quella semantica, trascurando gli imperativi del senso ed arrivando magari agli eccessi del lettrismo, [6] ma combattere la deformazione di un genere letterario, che tende ad essere snaturato; difendere la poesia, che non può fare a meno dei suoi connotati sanciti dalla tradizione per rimanere poesia.
La quale sia pure libera, ma non nell’arbitrio: nel caos c’è la prigionia, almeno dell’intelletto e dei suoi prodotti. Dite al musicista di rinunciare alla battuta! Eppure quale condizionamento è più stretto di un siffatto contenitore? O suggerite ancora ad un compositore di violare sistematicamente i vincoli imposti dal conferimento di un contesto armonico ad una melodia; o ad un architetto di trascurare ogni legame con le leggi della statica, ad un pittore di ignorare la prospettiva o qualunque altro criterio basilare dell’arte pittorica!

            Se l’attività del poeta non è dunque esclusivamente fondata sulla tecnica, di essa certo non può fare a meno.
E passiamo senza altri preamboli ad un aspetto particolare dell’oggetto di cui ci occupiamo: il suo significato simbolico.
Il symbolum è in Latino un contrassegno, per la derivazione dal greco symbàllo, che significa mettere insieme. Per noi il simbolo è perciò un accostare, un far corrispondere, un indicare, un rappresentare, un sintetizzare, un evocare.
Il termine simbolismo allude contemporaneamente all’“impiego più o meno sistematico di simboli nell’ambito di un’esigenza espressiva” [7], o ad un movimento artistico e letterario di origine francese, rivolto a interpretare per simboli il mondo reale.
Nell’accezione più lata si può dire che qualunque connessione tra un significante ed un significato è un simbolo: così, ad esempio, essendo il grafema significante del fonema, la lettera A diviene un simbolo, e perciò anche una sillaba, una parola, una frase, un periodo (i cosiddetti plurisegni discorsivi) possono essere considerati simboli, sempre nel nesso tra lo strumento per significare e il significato che questo esprime, rapporto che i linguisti chiamano “segnico”.
La ricchissima iconografia religiosa straripa di trasposizioni simboliche: l’impossibilità di rendere il soprannaturale costringe ad una sua rappresentazione metaforica (uso il termine in senso lato) il cui carattere può essere accostato a quello letterario: le ali di Ermes che “eternizzano l’originaria tensione creativa dal cielo alla terra e dalla terra al cielo” [8], non distano molto dall’esprit baudelairiano che si muove con destrezza al di sopra dei monti e delle nuvole, dalla sua ala vigorosa che si slancia verso i campi luminosi e sereni, per volare sulla vita e comprendere agevolmente il linguaggio dei fiori e delle cose mute! [9] In certi casi l’esigenza di arrivare alla coincidenza fra l’oggetto e ciò che esso rappresenta, produce complesse teorie e radicate convinzioni. Si pensi alla transustanziazione nel Cristianesimo.

            O Signore, di tre peccati Ti chiedo perdono:
            Contemplandoti, ho rivestito di forme Te che non hai forma;
            Lodandoti, ho descritto Te che sei ineffabile;
            E visitando i templi ho ignorato la Tua onnipresenza. [10]

            Così invoca un saggio indiano nell’VIII sec. dopo Cristo.
E sembra quasi affrancare il fenomeno dalla sua veste di segno, riconoscendo l’errore dell’uomo che ostinatamente pretende di decodificare l’infinito attraverso il finito, di dare spiegazione del soprannaturale attraverso il naturale. Soltanto dopo circa un millennio, tuttavia, la nuova scienza avrebbe indagato finalmente il fenomeno invece di interpretarlo.
È probabile che alla radice del simbolo, in assenza di un preciso sapere, ci sia l’esigenza di decifrare una realtà intesa come manifestazione per indizi di forze nascoste che dirigono la vita e i destini degli uomini.
Il politeismo classico, nelle sue divinità e nei suoi oggetti ed espressioni di culto, nelle sue credenze, esprime fondamentalmente questa necessità. La quale nitidamente si riflette nelle forme letterarie, nella poesia, principalmente, che nascendo in saldo legame con la musica, dalla quale desume il ritmo ed a cui conferisce intransigenti caratteristiche melodiche [11], appare il genere più immediato.
I poemi omerici, la tradizione lirica e tragica della Grecia, la poesia Latina, abbondano principalmente di trasposizioni mitologiche, ancora estranei al preponderare delle figure retoriche del linguaggio dei poeti moderni.
Nello stesso modo il Medioevo, ancora per imprecisione e ristrettezza delle conoscenze, legge la realtà come espressione della Provvidenza divina, e continua a spiegare gli eventi in rapporto ad una mentalità che mescola aspetti naturali e valori morali e religiosi, costruendo perfino gesti, oggetti, comportamenti, parole con valore non letterale, ma simbolico, nel modo in cui traspare dai decaloghi rituali gerarchici, religiosi, cortesi.
La donna dei trovatori non è soltanto l’ispiratrice di una lirica d’amore, ma incarna aspirazioni psicologiche e sociali, come la gioia, la sicurezza, la nobilitazione, il perfezionamento interiore.
Esemplificando: il dilettoso monte dantesco, ch’è principio e cagion di tutta gioia, discende dall’abitudine alla commistione fra gli elementi della natura e le istanze dello spirito: l’altezza del colle simboleggia un’elevata aspirazione dell’anima, come il pianeta / che mena dritto altrui per ogni calle,  rappresenta la Grazia divina.
Quanto detto non nega tuttavia la possibilità della trasposizione su un piano allusivo diverso, in cui gli elementi della realtà si collegano all’esperienza interiore dell’uomo anziché rapportarsi alla sfera del divino.
Il lucreziano tibi rident aequora ponti, il mare che sorride a Venere, non è più un’interpretazione del reale in chiave ultraterrena, ma la personificazione di un elemento ed insieme il simbolo dello slancio gioioso e vitale dell’amore.
            Passa la nave mia colma d’oblio. (Petrarca)
Nel verso petrarchesco la nave non è un traslato che implichi nessi soprannaturali, quanto piuttosto la metafora della vita stessa.
A mano a mano che si scorre lungo la traiettoria dei secoli, pare indebolirsi il simbolismo che si collega al sacro ed accentuarsi quello che più si riconduce all’immanenza.
Il Barocco, ma siamo nel secolo che annuncia il razionalismo, trabocca di trovate mirabolanti, segna un culto perfino bislacco del tropo, e tuttavia, pure nel cattivo gusto trionfante, addita strade mai battute e precorre atteggiamenti moderni.
Sarà però il Simbolismo dei poeti maledetti, culmine di una traiettoria già avviata dal Romanticismo, a decretare l’affermazione del “simbolo intrinseco al linguaggio creativo” contrapposto al simbolo “descritto dalle retoriche tradizionali” [12].

            Nella psicanalisi il simbolo ha funzione così diversa da imporre una considerazione a parte, essendo un “modo del pensiero proprio dei livelli arcaici di evoluzione psichica”: l’inconscio presenta alla coscienza il simbolo anziché l’oggetto simboleggiato, esercitando opera di schermo e di protezione. In ogni caso anche in quest’ambito si verifica una trasposizione.

Amato Maria Bernabei
9 giugno 2001 (per una tavola rotonda)


[1] Devoto, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier.
[2] Carlo Del Grande, Storia della Letteratura Greca, L. Loffredo Editore, Napoli , p. 17.
[3] G. Lote, L’Alexandrine d’aprés la phonetìque expérimentale, Paris, La Phalange, 1913.[4] Mario Luzi, in Parlare e scrivere oggi, La comunicazione, Fabbri Editori, vol. 3, pp. 69-70.
[5] L’écart è una violazione del codice del linguaggio usuale, la figura dell’antica retorica (vedi Mario Pazzaglia nell’introduzione al volume di Jean Cohen, Struttura del linguaggio poetico, Il Mulino, Bologna, p. 10).
[6] “II lettrismo è inte­ressante per il suo stesso insuccesso. Esso ha avuto il merito di sviluppare fino in fondo la logica del sostanzialismo. Se in effetti i suoni articolati del poema hanno un valore este­tico proprio, perché non giocare su di essi liberamente, senza preoccuparsi degli imperativi del senso? E perché attenersi solo alle combinazioni di fonemi autorizzati dalla lingua? Il lettrismo ha dunque inventato prima di tutto i suoi propri vocaboli e, andando ancora più lontano, ha inventato i suoi fonemi o più esattamente, i suoi elementi sonori. Facendo in tal modo ha creato una sorta di musica concreta, forse esteticamente valida, ma che non può, in nessun caso, es­sere inserita nella categoria delle arti del linguaggio. Il lin­guaggio, in realtà, è significazione, e con questo termine non bisogna intendere – metaforicamente – tutto ciò che è capace di suggestione o di « espressione », ma piuttosto quel processo di « rimando a », che implica la trascendenza del significato, vale a dire la dualità, percepita come tale, dei due termini del linguaggio semiologico”. Il lettrismo ha voluto essere poema: in questo modo si è condannato da sé. Un poema che non significa nulla non è più un poema, perché non è più linguaggio”. Jean Coehn, Struttura del linguaggio poetico, Il Mulino, Bologna, 1974, pp. 56-57.
[7] Devoto, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier.
[8] Angela Cerinotti, Grande libro dei Miti, Demetra, p. 84.
[9] Charles Baudelaire, Spleen e idéal, Élévation.
[10] A.C. Bouquet, Breve storia delle religioni, Mondadori, p. 16.
[11] Si ricorda che la durata di una nota era adattata al valore della sillaba della parola da cantare e che l’accento tonico non acquistava risalto espiratorio, ma veniva evidenziato dall’acutezza del suono che obbligatoriamente doveva superare quella delle note attribuite alle sillabe atone.
[12] Mario Luzi, L’idea simbolista, Garzanti, pp. 9-10.

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