Non puoi non conoscere Mistral

 

Mirèio, poema epico-lirico di Frédéric Mistral, è per me una delle più incantevoli opere della Storia della Letteratura mondiale. Il valore di questa creazione “non consiste tanto nel soggetto e neppure nell’immaginazione che vi è dispiegata, per avvincente che sia la figura di Mirèio: è nell’arte di concatenare vari episodi nel corso della vicenda e di svolgere davanti ai nostri occhi tutto lo scenario della Provenza con la sua natura, i suoi ricordi, i suoi antichi costumi e la vita quotidiana dei suoi abitanti…” (dal Discorso ufficiale di C. D. Wirsen per il conferimento del premio Nobel a Frédéric Mistral nel 1904).

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Io canto una fanciulla di Provenza.
Nella sua primavera e nell’amore,
in mezzo al grano e dove presso è il mare,
la seguirò, discepolo ritroso
del grande Omero, ché poco si è detto,
oltre la Crau, di una figlia dei campi.

Per quanto sulla fronte giovinezza
soltanto le splendesse, né corona
d’oro fino o mantello di damasco
portasse, voglio come una regina
che in gloria sia innalzata e, della lingua
nostra in disdegno, vesta le carezze.
Per voi, pastori e gente agreste, canto.

Tu, Dio della mia patria, che nascesti
un giorno fra i pastori, alle parole
da’ fuoco e dammi lena. Tu lo sai
che dentro la verdura, quando il fico
s’empie e matura al sole e alla rugiada
pura, vien l’uomo e preda a poco a poco
ogni frutto dell’albero. Ma sempre
Tu, Signore, sull’albero spogliato
alzi una fronda cui non possa l’uomo
famelico protendere la mano,
ramo che muove il vento e che profuma,
a cui, dal frutto turgido e maturo,
viene l’uccello, a Santa Maddalena,
a volo per sfamarsi…

Sono i versi iniziali, che ho cercato di rendere in endecasillabi, del bellissimo poema Mirèio, di Frédéric Mistral.
Il grande poeta – e l’aggettivo non è in questo caso enfasi da commercio – compose la sua straordinaria opera prima dei trent’anni!
Certamente la sua poesia, alla quale mi accostai poco più che ventenne, ha lasciato, nella formazione del mio gusto personale un’impronta indelebile, come del resto sarebbe accaduto, qualche anno più tardi, con le pagine di John Steinbeck, soprattutto dell’indimenticabile romanzo del 1933, To a God Unknown.

Mio padre, lettore occasionale, però mai avaro nell’acquisto di libri di bella veste, forse per una non appagata, se non frustrata, aspirazione all’arricchimento culturale, che si accontentava intanto del vistoso possesso materiale come presupposto per dare seguito, quando che fosse, all’intenzione, aveva esposto in bella vista la collezione dei Premi Nobel di Letteratura, edita in sessantuno bei cofanetti rigidi dai Fratelli Fabbri nel 1964. Risorsa allettante per letture di qualità elevata, specialmente nei mesi di vacanza. Non persi infatti l’occasione, e trascorsi ore lunghe e preziose con il profumo delle rilegature fra le mani, immerso nelle righe, nei pensieri, nei modi di scrittori dagli universi più disparati e quasi sempre di raro talento.
Così lessi Mirèio, nella traduzione di Diego Valeri, e ne rimasi incantato.

La “mirabile” freschezza delle strofe mi dipingeva e suonava, dipinge e suona, giovinezza e aspettative, idillio agreste e semplicità di stupori, acque e cieli, campi e dimore, giorni, notti, crepuscoli [1], e voci e voci, umane e naturali, di labbra discrete, o silenziose di occhi e di anime, del Rodano “rabbioso che si mangia le ghiaie”, dei venti, delle foglie, dei convegni e dei distacchi dei voli presso gli stagni… in un fluire di poesia che si fa letteratura altissima mentre quasi fugge la letteratura [2], davvero di un Omero senza fragore di battaglie, per quanto non restio agl’improvvisi tumulti viscerali, all’urto fisico, talvolta primordiale [3],  e tuttavia epico, cantore di un frammento recondito di mondo che ospita un’irripetibile epopea, in cui ogni altro mondo dell’uomo può specchiarsi; un Omero, per di più, lirico, non per occasione, ma per costanza, e per sostanza, candida eco di sentimenti candidi, di credenze ingenue e radicate, e di superstizioni, orditore di affetti innocenti, di fugaci avveramenti del sogno, di esiti drammatici, tessitore della vita più schietta, più delicatamente appassionata e fatale… “La morte, questa parola che t’inganna, che cos’è mai?” sussurra a Vincenzo Mirella, lume che manca… [4] “Una nebbia che svanisce ai rintocchi della campana, un sogno che ci desta al finir della notte” [5].

Frédéric…
che sa intrecciare nelle sue “armonie, i pianti dei poveretti e il riso delle fanciulle e i fiori della primavera” [6].
Frédéric…
svelatore di orizzonti, intagliatore di squarci mirabili, annunciatore alato d’infiniti tragitti dell’anima.
Non so come, né quando, né dove, ma so che nel mio mondo di poesia deve scorrere più di qualche goccia della sua linfa esistenziale ed artistica.
Lascio perciò gratitudine, che spero feconda, alla grande mano che scrisse, aperse, additò.

Riporto quindi, per divulgazione e per invito, il seguito del segmento introduttivo di Mirèio, nella versione di Valeri, per poi riassumere la parte restante del I canto.

            Lungo il Rodano, tra i pioppi e i salici della riva, in un povero abi­turo rosicchiato dall’acqua, dimorava un panieraio, che di là moveva col suo ragazzo, andando da masseria a masseria, per accomodare canestri rotti e panieri bucati.

            Un giorno che cosi andavano attorno coi loro lunghi fastelli di vimi­ni «Padre,» disse Vincenzo «guardate il sole! Vedete, laggiù su Maga­lona [7], le colonne di nuvole che sembrano sorreggerlo! Se quella sbarra si chiude, padre, prima d’essere alla masseria ci bagneremo certo.»

            «Oh! vento di mare scuote le foglie. No, non sarà pioggia» rispose il vecchio «…Se fosse vento di Rodano, sarebbe altra cosa!…» «Quanti aratri fanno, alla Masseria degli Olmi, padre?» «Sei» rispose il panieraio «Ah, quest’è una tenuta delle più forti della Crau!

            Te’, non vedi il suo oliveto? In mezzo c’è qualche nastro di vigne e di mandorli … Ma» s’interruppe «quest’è il Bello (non ve n’ha due in tutta la costiera): che vi son tanti filari quanti ha giorni l’annata intera; e quanti filari tante piante in ciascuno!»

            «Ma» fece Vincenzo «caspitella! Deve ben occorrerne di bacchia­trici per spogliar tanti olivi!» «O, tutto finisce a esser fatto. Venga l’Ognissanti, e le ragazze dei Baus [8] d’olive rosse e more ti empiranno sacchi e teli! Cantando sempre, ne ammucchierebbero ben di più!»

            E Mastro Ambrogio sempre parlava… E intanto il sole, tracollando, tingeva dei colori più belli le nuvole; e i bovari, su le bestie aggiogate, venivano pian piano alla zuppa, tenendo i pungoli levati… E la notte s’in­foschiva, laggiù, su le paludi.

            «Ecco, già s’intravede nell’aia la vetta del pagliaio» disse ancora Vin­cenzino «siamo giunti all’asilo!» «Qui gli vengon bene le pecore! Per l’estate hanno il pineto, e per l’inverno la landa» ricominciò il vecchio. «Oh! qui c’e di tutto!

            E quella grande alberata che fa ombra sui tetti! E quella bella fonte che si riversa in un vivaio! E tutti quei bugni d’api che ogni autunno si spogliano e, tosto che maggio si scuote, sospendono cento sciami ai grandi olmi!»

            «E poi, in tutta la contrada, padre, quello che più mi piace» disse Vincenzo «è la bimba della masseria. E, se vi sovviene, padre mio, l’esta­te scorsa ci fece fare due canestrelle da olive, e mettere i manichi al suo piccolo paniere.»

            Discorrendo in tal modo, giunsero alla porta. La fanciulla aveva al­lora allora pasciuto i suoi bachi; e su la soglia, alla guazza, cominciava a torcere una matassa. «Buona sera a tutta la compagnia!» fece il panie­raio, buttando giù le sue verghe.                   

            «Dio la conceda a voi, Mastro Ambrogio!» disse la fanciulla. «Ve­dete: vesto la cocca del mio fuso. Ma voialtri siete attardati. Donde veni­te? da Valabrega [9]?» «Giusto! e, trovandosi la Masseria degli Olmi sul nostro cammino. Si fa tardi, abbiam detto, dormiremo là, su la pa­glia.»

            E il panieraio col suo figliolo s’andò a sedere su un appianatoio. Sen­z’altri discorsi, tutt’e due si diedero a intrecciare una canestra incominciata, e del loro fascio disciolto incrociavano e torcevano i docili vinchi.

            Vincenzo non aveva ancora sedici anni; ma tanto nel corpo che nel volto, certo, era un bel ragazzo e dei meglio stampati; con le guance scu­rette, se vogliamo… Ma terra negra adduce sempre buon grano, ed esce dai grappoli neri un vino che fa saltare.

            In qual modo bisogna preparare e maneggiare il vetrice egli lo sapeva a fondo. Non che di solito lavorasse di fino, ma di banastre da basto, e di tutto ciò the a necessario nelle masserie: rosse cavagne da terra, ceste andanti,

            e panieri di canne fendute, che son tutti arnesi presto smerciati, e scope di saggina… Tutto ciò, e molt’altro ancora, ei lo faceva con destrez­za, bene, pulitamente, e con mano maestra… Ma già dal maggese e dalla landa gli uomini eran tornati dal lavoro.

            Già Mirella, la gentile massaia, avea messo, fuori al fresco, su la ta­vola di pietra l’insalata bollita, e dal gran piatto vacillante ciascuno dei garzoni tirava già le fave col cucchiaione di legno… E il vecchio e il suo figliolo continuavano a intrecciare. «Ebbene, che si fa?

            Non venite a mangiare, Mastro Ambrogio?» disse con la sua aria un po’ burbera Padron Raimondo, il capo della masseria. «Via, lasciate dun­que la canestra! Non vedete nascere le stelle? Mirella, porta qua una scodella. Su, a tavola, che dovete essere stracchi.»

            «Andiamo!» fece il panieraio. E s’appressarono a un cantuccio della tavola di pietra e tagliaron del pane. Mirella, svelta e brava, con l’olio dell’oliveto condì per loro un piatto di fave; e venne poi di corsa a portarlo con le sue mani. 

Nei suoi quindici anni era Mirella.
Costiera azzurra di Fontevecchia [10]
e voi, colline dei Baus, e voi, piani della Crau,
non ne avete più vista una cosi bella!
Il gaio sole l’aveva fatta sbocciare;
il suo viso novello e fresco aveva,
a fior delle gote, due fossette piccine;
Mireia en sos quinze anys estava…
De la Font-vella costa blava,
i valtres, plaes de Crau… valtres, de Baus turons,
mai n’heu vist cap tant bella i pia!
Als raigs del sol va esclata un dia,
i en son senzill rostre tenia
a flor de galtes uns clotets nius de il·lusions; [11]

             il suo sguardo era una rugiada che sanava ogni magagna… Il raggio delle stelle è meno dolce, e meno puro. Nereggiavano le sue trecce, scen­dendo ad anelli; e il suo seno rotondetto era una doppia pesca non ancor ben matura.

            E pazzerella, e tutta viva era, e selvatichetta un poco! Ah, vedendo quel suo estro, in un bicchier d’acqua voi l’avreste bevuta d’un fiato. Quando poi ciascuno, come al solito, ebbe parlato dell’opera fatta nel dì (come alla nostra masseria, come al tempo di mio padre, ahimè!),

            «Ebbene, Mastro Ambrogio, questa sera, non ce ne canterete una? dissero «qui ci si addormenta mangiando.» «Zitto, miei buoni amici… Chi si beffa del prossimo» rispose il vecchio «Dio gli dà un soffio e lo fa girar come trottola… Cantate voialtri, giovanotti, che siete giovani e forti!»

            «No, Mastr’Ambrogio» dissero i garzoni «non si dice già per burla… Ma badate! il vin della Crau trabocca dal vostro bicchiere. Qua, tocchia­mo, padre!» «Ai miei tempi sì ch’ero una cicala» fece allora il panieraio «ma adesso, che volete? le ali son crepate.»

            « Si, Mastro Ambrogio,» disse Mirella «cantate un poco, che fa tanto piacere.» «Bella bimba,» replicò Ambrogio «la mia voce è una spiga che ha soltanto le reste; ma per piacerti, ecco essa è pronta già…» E tosto cominciò questa canzone, dopo avere scolato il suo gotto pieno:

               [...] 

            …Mirella era restata, tutta soletta, tutta ridente, con Vincenzo, il figlio di Ambrogio: e tutt’e due parlavano insieme, 

e piegavano tanto le due teste,
e l’una all’altra, come cardi in fiore
che un vento appena, dolcemente,                                                   inclina [12].
i llurs dos caps tant se vinclaven
un vers de l’altre, que semblaven
dos cabruneg en flor breçades pel vent dolç.

             «Oh, Vincenzo!» Diceva Mirella «quando hai su la schiena la tua fascina, e vai attorno, aggiustando i panieri, ne devi ben vedere, nei tuoi viaggi, dei castellacci, dei luoghi selvaggi, e dei bei posti, e dei voti e perdoni!… Ma noi non riusciamo mai a questa piccionaia!»

            «Ben detto, signorina! Con l’aspretto del ribes potete levarvi la sete come bevendo al boccale; e se talvolta per trovar lavoro, dovete sorbirvi il maltempo, c’è tuttavia il suo buono anche a viaggiare, e l’ombra della strada vi fa scordare il caldo. 

Così tra poco, quando primavera
sarà passata e i rami degli ulivi
di bianchi fiori e teneri, vestiti
saranno, nei frutteti biancheggianti
e sui frassini andremo, con il fiuto
a cercar la cantaride che splende
e che verdeggia quando il caldo                                                   infuoca [13].
Així, quan ja la primavera
ha passat i té l’olivera
vestits del tot sos rams de tendra i blanca flor,
en els pomars blancs de floretes,
o en els freixers amagadetes,
amb l’olor, les cantaridetes,
cacem quan ja verdegen i lluen al calor.

      Poi ce le comprano nelle botteghe (le cantaridi)… altra volta raccogliamo le cocciniglie rosse negli sterpeti, o peschiamo sanguisughe nei laghi. Oh, il bel pescare! Nessun bisogno di rete da pesca; basta battere l’acqua, e la mignatta vien subito ad attaccarvisi alle gambe.

            Ma alle Sante [14] ci siete mai stata? Qui, poverina, si sente cantare; qui da tutte le parti si portano gli infermi! Ci siam passati ch’era il voto. Certo, la chiesa è piccolina, ma quante grida e quante offerte! “Oh Sante, o grandi sante, pietà, pietà di noi!”

            [...]

Vincenzo racconta a Mirella di un gran miracolo delle Sante, cui aveva assistito, quando un bambino cieco aveva riacquistato la vista, e raccomanda alla fanciulla, in eventuale circostanza sventurata, di correre alle Sante: “Certo n’avrete conforto”.
“Così passava via la veglia…”.
E ” poiché stanotte la luna posa sugli alberi e sugli stagni”, il giovanetto incuriosisce Mirella, narrando di quando “per poco, alla corsa, non m’ebbi il premio”… Spiega che non aveva corso “che dietro alle pernici, su le colline, avendo spettatrici solo le querce”, allorché si trovò a gareggiare “su la Spianata” contro il Marsigliese Lagalante “che aveva sfiatato i più duri di Provenza e d’Italia”, e contro il Grido, uno smilzo, ma intrepido, ragazzo di Nimes, e stramazzò dalla fatica, “la faccia a terra”, proprio quando era in testa, a non molta distanza dal traguardo.
Vincenzino “faceva sfoggio delle cose che sapeva” e “la parola veniva giù come acquazzone sui prati falciati di maggio” [15]. 

I grilli, cantando nelle zolle, più d’una volta fecero ascolto; spesso i rossignoli e l’uccello di notte, fecero silenzio nel bosco, e, toccata in fondo all’anima, ella, seduta sulle frasche, non avrebbe chiuso palpebra fino alla primalba.

            «Mi pare» diceva a sua madre «che, per figlio d’un panieraio, egli parli ben bene!… Oh madre, è un piacere dormire l’inverno; ma adesso, per dormire, la notte è troppo chiara; ascoltiamolo, ascoltiamolo ancora… a udirlo, io passerei la mia veglia e la mia vita.»

Si chiude così il primo canto del poema, un incipit, un annuncio di messi di parole incantate, che rapiscono, e che chiunque abbia sensibilità vera per la poesia vera, credo non possa non desiderare di leggere tutte.
Se avrà modo, ne ricaverà ricchezza e delizia.

Amato Maria Bernabei

 


[1] La Crau era tranquilla e muta. La sua distesa si perdeva lontano, nel mare, e il mare nell’aria turchina; i cigni, le folaghe lustreggianti, i fiammanti dall’ali di fuoco, venivano lungo gli stagni, a salutare gli ultimi bagliori della luce morente (Mirèio, Canto V, 46).
[2] Perché “letteratura” non è solo quella che l’estetica crociana ha inteso come “formazione tecnica ed erudita in assenza di un’intima commozione poetica” (Devoto), né lo scritto viziato da astrattezza o privo di spontaneità (la quale, se non sorvegliata, potrebbe risolversi in semplice e fiacco esercizio accademico e retorico di versificazione o di prosa), concetto per il quale la Storia della “Letteratura” diverrebbe storia di testi di siffatte caratteristiche; letteratura è invece soprattutto, come vuole il Devoto, l’insieme delle “opere variamente fondate sui valori della parola e affidate alla scrittura, pertinenti a una cultura o civiltà, a un’epoca o a un genere”.
[3] Penso al feroce duello tra Vincenzo e Urriàs (Canto V) e alla lotta ancestrale di Urriàs con i tori (Canto IV).
[4] Addio, Mirella!… L’ora vola; noi vediamo la vita tremolar nel tuo corpo come un lume che manca (Canto XI, 75).
[5] Canto XII, 52).
[6] Mirèio, Canto VI, 8.
[7] Antica città costiera, del dipartimento dell’Herault, di cui non restano oggi che poche rovine.
[8] Li Baus (Les Baux), nome di un borgo non lontano da Arles, su una cima delle Alpilles, fu in altro tempo piccola città, sede dei principi di Baus: ora non ne restano che rovine.
[9] Villaggio su la riva sinistra del Rodano, tra Avignone e Tarascona.
[10] Font-Vieio (Font-Vieille), villaggio delle Alpilles, presso Arles.
[11] I versi riportati a fianco del testo italiano sono tratti da Mireia, versione pubblicata da Francesc Pelagi Briz sulla rivista Lo gay saber nell’anno 1882, e ripubblicata trenta anni più tardi, in occasione della morte del grande Mistral, dopo che erano state apportate “en el text algunes correccions que, sense detriment de la rima, el milloren notablement”, non fino al punto, però, da poter considerare il lavoro definitivo “una traducció nova”.
[12] Il passo non è di Valeri, ma da me reso in endecasillabi.
[13] Cfr. nota 6.
[14] Li Santo (Saintes-Maries-de-la-Mer), piccolo villaggio posto sul lido della Camargue, ch’è la grande isola formata dal delta del Rodano. Una leggenda, da cui Mistral trarrà la materia del suo XI canto, vuole che, dopo la morte di Cristo, alcuni dei suoi discepoli più fervidi siano stati costretti dagli ebrei a salire su una barca mezzo sfasciata, e ad abbandonarsi in balia delle onde. C’erano, tra gli altri, Maria Maddalena, Maria-Jacobè, madre di San Giacomo minore, e Maria-Salomè, madre di San Giacomo maggiore e di San Giovanni Evangelista, accompagnate dalla loro osserva Sara. La barca, guidata dalla provvidenza, venne ad approdare al lido della Camargue, donde i Cristiani si sparsero per la Provenza a predicare la nuova fede. Maria Maddalena si ritirò a far penitenza nella santa grotta; le altre due Marie, dopo aver convertito alcune popolazioni dei dintorni, tornarono al lido della Camargue, con la loro Sara, e vi morirono, e vi furono sepolte. Molti secoli più tardi, sorse nel luogo una chiesa, costruita in forma di cittadella per essere sicura dalle incursioni dei pirati. Nel 1448, re Renato, fatti far degli scavi, trovò le ossa sante, e le fece chiudere in grandi casse, a cui il popolo di Provenza attribuì poi potenza miracolosa.
[15] Le similitudini di Mistral sono geniali, immediate e meravigliose.

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