L’Editoria delle “pagine sporche”

 

Domande retoriche: 1) Quali sono le logiche alla base dei verdetti delle giurie dei premi letterari più rinomati? 2) Perché inevitabilmente sono sempre le solite Case Editrici a pubblicare i “capolavori” che vincono questi premi? 3) Il vuoto di scrittori di vero talento è causa oppure effetto delle scelte di mercato? Possibile che il pubblico dei lettori non si renda conto delle “pagine imbrattate” che acquista?…
Ognuno aggiunga i quesiti che preferisce…

Alessandro Piperno, Inseparabili, Mondadori 2012, Premio Strega 2012

Non so se si possa criticare un libro avendone “subìto” solo poche pagine. Se questo è lecito, proverò a dimostrare come non solo il mondo dello spettacolo, ma qualunque ambito della proposta moderna di intrattenimento e di cultura, per soggezione all’audience, alla bancarella, o a qualunque altro parametro di valutazione delle possibilità di profitto, denoti una crisi grave di gusto e di qualità. 

Alessandro Piperno è una delle “penne” che va per la maggiore: Campiello la sua opera prima, Strega un’opera del dittico Il fuoco amico dei ricordi (2010-2012), accostamenti della critica a Proust (il francese dovette penare per il suo capolavoro, Piperno ha riscosso successo a mani basse… già questo dovrebbe far pensare), Balzac o non so chi.
Mi sono divertito a evidenziare, secondo il mio modestissimo punto di vista, poiché mai potrò nemmeno atteggiarmi a critico, quelle che, da lettore e da amante della letteratura e della lingua italiana, ho ritenuto lacune troppo vistose per un così apprezzato scrittore.
Per questo mi sono servito delle uniche pagine che ho sopportato di leggere, le prime del romanzo premiato nel 2012: Inseparabili.

“Anna fomentava bellicosi picchetti davanti alla prospera fabbrica della loro intimità”… Non siamo lontani dalla luna “del padellon del ciel la gran frittata”! Come può un’intimità d’amore diventare una “prospera fabbrica” davanti a cui istigare “bellicosi picchetti”?! Non c’è ironia che tenga. Il cattivo gusto ha il suo degno esordio.

“Fuori pioveva a dirotto. Dentro Filippo si sentiva affogare”: un tratto-retorico davvero “sopraffino”, piuttosto vieto e incomprensibilmente esagerato per la situazione psicologica che Piperno descrive. Senza parlare della tecnica messa in atto dal Pontecorvo, mirante a creare uno stato d’animo positivo e che avrebbe dovuto far “sprizzare ettolitri di irragionevole ottimismo”… Non credo di essere dotato per la scrittura di un romanzo, ma sinceramente mi vergognerei di pubblicare espressioni del genere.
Siamo solo all’inizio.

Eppure, anche se indossare i panni del mantenuto non lo umiliava più di tanto, cionondimeno“… Per uno scrittore di cui si vanta lo stile, l’uso di una doppia congiunzione avversativa (la seconda, locuzione) non è proprio imperfezione da poco. “Eppure cionondimeno” sono come un “ma però”. “Ed anche se indossare… ciò non di meno…” sarebbe stato certo più corretto.

Anche l’arredo rado del villino di qualche capoverso più avanti non è proprio un’allitterazione felice. I tempi in cui si sciacquavano “i panni in Arno” sono davvero lontani.

“Rendere a letto”, “essere un grande scopatore”, “ci scappa anche una bella scopata”… sono espressioni che annunciano un falso realismo e una studiata disinvoltura sessuale che sanno di captatio libidinis (pecuniae causa), e di cui il romanzo è ben condito.

“Le mille avventure di questo supereroe sui generis erano intervallate dai suoi sogni apocalittici, a mio parere un po’ troppo didascalici”… Esprimo un’opinione dettata dal mio gusto estetico: non mi piace questo intervento diretto in prima persona che commenta i sogni di Filippo. Si può certo intervenire con giudizi personali nella stesura di un racconto, ma facendolo in modo più discreto, più elegante: “dai suoi sogni apocalittici, forse un po’ troppo didascalici”. In tal maniera il commento resta di chi scrive, ma si mimetizza in modo garbato.

“Mandare a puttane tanta sapienza”: semplicemente sgradevole.

“Anna aveva osato svegliarlo [...] era irrotta nella sua stanza”: il Devoto avverte che il verbo irrompere manca di participio passato e, di conseguenza, di tutti i tempi composti. Cantonata, o geniale “deviazione” dello scrittore?…

“Chiudere proditoriamente le saracinesche del sesso”: ancora difetto di buon gusto e “marinismo”.

“Desiderò Anna con la disperata depravazione con cui agognano il sesso gli adolescenti funestati da una verginità da cui, a sentir loro, non si libereranno mai”: perché questi “adolescenti funestati” dovrebbero desiderare il sesso con “depravazione”? Perversione, degenerazione,  abiezione? O non piuttosto  con impellenza, voglia, furia?

“Il vento, impastato di neve, fischiava con cinematografica impetuosità oltre la grande vetrata affacciata sulle piste”: l’arte risiede spesso nella capacità di sorvegliare l’espressione, evitando nocivi sovrappiù. “Cinematografica impetuosità” dovrebbe rinforzare il quadro descrittivo, invece lo rende più fiacco, distraendo. Quanto sarebbe stato più incisivo e più bello scrivere “Il vento, impastato di neve, fischiava oltre la grande vetrata affacciata sulle piste”. È sempre meglio lasciare spazio all’immaginazione, non predisporre tutto, “cinematograficamente”, magari maldestramente, rendendo il lettore passivo.

“Le tempie abbronzate e pulsanti”… Presumibilmente Filippo guarda Anna, che si trova “vicino a un gate dell’aeroporto di Francoforte”, dalla grande vetrata affacciata sulle piste: come può mai vedere le di lei tempie pulsanti? Tanto più che “Lo spettacolo offerto dalla natura oltre il vetro ispirava uno sgomento biblico” e “sembrava di essere in piena notte” (come si dirà poco oltre). Per di più è strano che la ragazza sia “seduta in terra, le gambe incrociate come una piccola indiana” in siffatte condizioni meteorologiche, mentre soffia un vento impetuoso “impastato di neve”. O forse ho capito male io, magari anche per mancanza di chiarezza del “messaggio”. Io che mi sono pure chiesto perché l’ammirazione di Filippo debba essere “da connaisseur”,  visto che il personaggio sembra italiano e quindi più “banalmente” avrà avuto una meraviglia da intenditore! Certi snobismi sono gratuiti: Filippo, in un aeroporto tedesco (Piperno avrebbe proprio dovuto scrivere di Frankfurt!…), guarda verso un gate (inglese), con sguardo da connaisseur (francese), una ragazza dalla mise (francese) balneare. Vuoi mettere…  Forse sarebbe stato ancora meglio scrivere tutto in un’altra lingua.

“Filippo riconobbe nella piccola Toro Seduto”… Insomma, l’ironia richiede anche genuino senso dello humour! Affibbiare il nomignolo di “Toro Seduto” ad Anna solo perché se ne sta seduta a terra a gambe incrociate è dozzinale!

“Non senza aver verificato che le suddette fossero sprovviste di qualsiasi talento e di qualsiasi vocazione: non per il canto, tantomeno per la danza e per la recitazione”. Ora sembrerò pignolo, ma dopo i due punti  io riferisco a “fossero sprovviste” le espressioni “non per il canto, tantomeno per la danza” ecc. con un significato opposto a quello che lo scrittore vuole dare: sprovviste non per il canto, vuol dire che le ragazze sapevano cantare. Problematico legare a senso le suddette espressioni a talento e a vocazione. Perché non ricorrere a strutture più lineari e meno ambigue, nonché più belle? Così: “Non senza aver verificato che le suddette fossero sprovviste di qualsiasi talento e di qualsiasi vocazione per il canto, per la danza, per la recitazione”.

“Dietro all’infiocchettata sciarada dell’ipocrisia televisiva”: sovrabbondanza pesante. Poteva bastare “dietro all’infiocchettata ipocrisia televisiva”.

“L’attenzione di Filippo venne rapita dall’inconfondibile sferraglio di chiavi”: prendo atto della creazione del sostantivo “sferraglio”, parola che finora avevo solo incontrato come prima persona dell’indicativo presente del verbo sferragliare (da cui la nominalizzazione sferragliamento).

“Sullo sfondo dell’ingresso c’era un’eroina tragica. Vi prego di non pensare a Medea o a Clitennestra”: trovo poco elegante dal punto di vista letterario rivolgersi ai lettori in questo modo. Il narratore ha a disposizione espedienti estetici migliori. Un esempio? “Sullo sfondo dell’ingresso c’era un’eroina tragica. Non una Medea o una Clitennestra…”.

“I lunghi capelli neri sgocciolavano come un davanzale”: forse un liquido può sgocciolare (“l’acqua sgocciola dal soffitto”), i capelli al massimo gocciolano. Sgocciolare è più un cadere giù a gocce, o un far cadere gocce
(http://www.treccani.it/vocabolario/sgocciolare/).

“Salire ogni tanto sul deltaplano delle sue iperboli nevrotiche poteva essere un’esperienza stimolante”: il deltaplano delle iperboli nevrotiche appartiene alle “iperboli nevrotiche” di una scrittura che deve far ricorso alla poetica marinista, peggiorandola, per colpire il lettore sprovveduto. Il gusto deteriore per le immagini cervellotiche “abituali” nuoce alla letteratura.

“Perché tutti in quel cazzo di mondo… decidono di voler essere ciò che non sono?”… E qui è proprio una questione “di stile”, sia di scrittura che di educazione. Non si tratta più di genuina o falsa esigenza realistica, perché le parole non sono messe in bocca ad un personaggio, ma sono della voce narrante. L’interiezione fallica appartiene ad una discutibile scelta che ha a che fare più con il mercato che con l’urbanità e con l’arte. E anche con la considerazione che lo scrittore ha dei suoi lettori. Il motivo per cui poche pagine del suo “romanzo” (non acquistato: preferisco spendere meglio i miei soldi) mi sono bastate.

“I suoi casini di letto con la moglie erano diventati l’argomento di conversazione preferito da Anna”: se la bontà di una scrittura consiste nell’uso fine a se stesso del frasario più scontato e quotidiano, viviamo davvero tempi di magra. E forse è un privilegio non essere pubblicati dalla Mondadori e simili…

“Filippo era certo che, se non ci fosse stata l’efficiente cortina sanitaria costituita dall’amico intimo del momento…”: sempre per la collezione delle metafore cervellotiche questo amico-cortina sanitaria.

“Lui, mangiando silenzioso e in disparte, ci faceva la figura dell’allegro cornuto? Cazzi loro!”…  “Un uomo segaligno e nervoso come Piero che si scopava Anna”. Poche facciate già rivelano che le parole chiave del libro devono essere quelle di natura più nobile.

“Filippo sapeva bene che, per capire il contegno della moglie, occorreva dare il giusto peso al fattore esibizionismo – così rilevante nella vita di ogni attore di professione, e quindi anche nella sua”. Nella sua di chi? La grammatica riferirebbe sua a Filippo, ma l’attore non è lui, dunque Piperno collega il pronome possessivo ad Anna, ma in forza di quale norma? Credo si sarebbe dovuto scrivere “e quindi anche in quella di Anna” o “di lei”, forma non bellissima, però almeno corretta.

I capoversi noiosissimi che seguono [1] mi convincono che non è il caso di portare avanti la lettura del libro vincitore dello Strega 2012. Non potrò quindi passare in rassegna le ancora numerose (ne sono certo) precarietà letterarie dell’opera, priva fin da subito di spessore e di senso.

Se ne occupi qualcun altro, se ha tempo da perdere.

Amato Maria Bernabei

 

Ho trovato in ogni caso qualcuno che è riuscito ad andare ben oltre le prime pagine e ne riporto il parere che condivido (anche se lo stile della critica non è quello che preferisco).

Recensione critica di Rina Brundu

«Una doverosa premessa: non conosco Piperno, non ho mai letto nient’altro di suo e se lo avessi fatto non avrei scritto la presente critica. Questo perché ho deciso di leggere (sebbene poi, per ragioni che spiegherò, non sia “riuscita” a portare a termine l’impresa) il suo “Inseparabili” solo quando ho appreso che è il testo vincitore del 66° Premio Strega.
Una seconda doverosa premessa: non ho mai amato troppo la narrativa italiana, con esclusione, forse, di quello spin-off retorico-realista di matrice sarda che si è proposto a diversi livelli durante l’ultimo quarto di secolo. Come non bastasse ho una formazione letteraria anglofona se posso dire, amo il grande romanzo e soprattutto l’avere vissuto fuori dai confini nazionali buona parte della mia vita non aiuta. L’ultimo testo italiano tradotto che ho visto nelle librerie dublinesi è stato Gomorrah di Roberto Saviano, ovvero un romanzo che – bisogna dirlo – grazie ad un forte impianto giornalistico ha resistito a qualsiasi tentativo di stroncatura e si fa ricordare molto positivamente. Quando dico che si fa ricordare “molto positivamente” non mi riferisco naturalmente alle fondamentali e serissime tematiche di cui tratta, ma alla sua qualità letteraria complessiva.
Di converso, quest’oggi, la domanda mi viene spontanea: perché “Inseparabili” di Alessandro Piperno ha vinto lo Strega? La qual domanda, purtroppo, ne porta pure delle altre: come funzionano i premi letterari importanti al tempo di internet? Esiste una commissione, identificata con nomi e cognomi, che ci mette la faccia e dice io ho votato per Tizio o Caio, per questa o quell’altra importante ragione? Ma, soprattutto, perché i premi letterari non sono più fucina di grande letteratura? Forse perché la dimensione digitale (che è essa stessa straordinaria letteratura dell’istante) le ha dato il colpo di grazia o magari perché in tempi di vacche magre il grande editore impone la sua visione all’insegna del mitico motto “ci accontentiamo di tutto purché si batta cassa”? Mi è difficile credere a quest’ultima possibilità [2] anche perché, ne sono convinta, l’incasso sarebbe senz’altro più sostanziale per un testo premiato da un noto premio letterario capace di imporre la sua linea, finanche di non assegnare il titolo in mancanza di materiale valido, e dunque di settare il trend. [3]

Ma che cos’è la grande letteratura, allora? A mio modo di vedere la grande letteratura è un cronotopo sui generis, laddove i due costituenti fondamentali diventano, sull’asse esterno l’estetica e sull’asse interno la profondità. Il tutto fuso in un unicum perfetto, capace di farsi ricordare. Per generazioni. Finanche di mutare per sempre il nostro esistere. Un tessuto einsteniano  [4] nella sua natura dunque, costellato di perle d’imagery (quando l’imagery, la retorica, è intesa al meglio delle sue possibilità) che si fanno ammirare per la loro bellezza e comandano rispetto per il loro carattere filosoficamente didattico.
Questi sono per me i tratti marcanti la grande letteratura. Gli altri, infatti, sono libri. E tutti, chi più chi meno, oggidì ne hanno scritto uno. Io per esempio utilizzo i miei per raddrizzare le gambe dei tavolini traballanti e sono la morte….loro. Come a dire che al tempo della Rete scrivono cani e gatti ma occorre stare bene attenti a non confondere la letteratura che dovrebbe essere premiata in dati contesti, con il vanity publishing, le mode del momento e la bulimia scritturale dei tempi. A dirla tutta una tal confusione sorprende pure dato che la vera letteratura tende a farsi riconoscere subito, dagli addetti ai lavori così come dagli “asinai e dai fabbri” per dirla con una datata “recensione” che elogiava i pregi e la qualità universale della Commedia di Dante. Un esempio pratico? Ecco l’incipit di un testo molto conosciuto: «Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce. Nei primi quaranta giorni passati senza che prendesse neanche un pesce, i genitori del ragazzo gli avevano detto che il vecchio ormai era decisamente e definitivamente salao, che è la peggior forma di sfortuna, e il ragazzo li aveva ubbiditi andando in un’altra barca che prese tre bei pesci nella prima settimana. Era triste per il ragazzo veder arrivare ogni giorno il vecchio con la barca vuota e scendeva sempre ad aiutarlo a trasportare o le lenze addugliate o la gaffa e la fiocina e la vela serrata all’albero. La vela era rattoppata con sacchi da farina e quand’era serrata pareva la bandiera di una sconfitta perenne

Domanda: c’è bisogno di sapere che titolo avesse questo libro, chi lo ha scritto, che premi ha vinto per continuare a leggerlo? Meglio ancora: c’è bisogno di scorrere altre 200 pagine per sapere della sbalorditiva visione morale, della singolare capacità estetica, della straordinaria carica umana, nonché della fondamentale vena retorica (basti pensare anche soltanto alla potenza comunicazionale, significazionale ed emozionale che porta seco la semplice metafora della vela serrata che pareva “la bandiera di una sconfitta perenne”) che fanno vivere e impregnano questo lavoro? A mio modo di vedere la risposta ad entrambe le domande è no!

Perché ritengo invece che il testo “Inseparabili” di Alessandro Piperno non presenti la qualità necessaria per vincere un premio Strega (intendiamoci, non sarebbe il primo romanzo premiato senza merito!)? Perché la scrittura è scolastica (per certi versi pare scritto da un professore ed editato seguendo alla lettera i consigli dati dal King di “On writing”, scordando però che quel particolare scrittore ha fatto la sua fortuna grazie al suo genio molto… molto sregolato). Ma, soprattutto, perché analizzandolo alla luce dei requirements di quel cronotopo sui generis già citato la linearità dell’asse esterno produce noia (detto altrimenti la qualità estetica difetta), mentre la profondità dell’asse interno non esiste (detto terra-terra manca un topic di fondo sostanziale, universale – il quale topic esiste purtroppo solo in forma di ombra la quale tende sin da subito a regionalizzarsi e a nazionalpopolarizzarsi (??) in perfetta linearità con le necessità del contesto socio-culturale di riferimento: cibo, sesso, erotismo-de-noiartri per riempire il corpo e dello spirito parliamone mañana. Se!; ancora, manca un imprint filosofico in senso lato capace di produrre catarsi e di “prendere” il lettore accorto. Dulcis in fundo il tratto-retorico di cui pure si discuteva si risolve a questo livello: “Fuori pioveva a dirotto. Dentro Filippo si sentiva affogare”. C’è bisogno di aggiungere altro? Al più ti viene da chiederti se il cielo sarebbe venuto giù a… dirnove. O, in alternativa, non è da escludere che lo shipwrecking ideale di Filippo, con conseguente affogamento non sia stato determinato dalle ondate di ritorno procurate dal continuato parlargli-addosso della voce narrante. Di sicuro, lo status-quo [5] scritturale che ho appena descritto non mi ha permesso di portare a compimento la lettura del testo. Vorrà dire che non saprò mai che destino avranno i “pappagallini” piperniani ma sono determinata a farmene una ragione…

Scherzi a parte, io penso che la critica letteraria sia cosa seria. Ho passato anni e anni all’università a studiare (con grande passione debbo dire), analisi testuale, linguistica, semiotica, semantica e soprattutto l’arte retorica che nella grande letteratura e poesia inglese (pure qui passata, occorre aggiungere) ha prodotto capolavori straordinari. Per questi motivi non ho mai digerito le recensioni mordi-e-fuggi (quando non mere marchette, ovvero nel 99,999% dei casi), fatti dai “critici” e “recensori” della prima ora, specie online, della serie “io posso leggere io posso scrivere… ergo… critico”. No, a mio avviso non è così perché il know-how è indispensabile anche e soprattutto per fare il critico. E la critica è cosa diversa dai likings e dislikings facebookici. In altre parole la critica deve essere obiettiva e supportata dall’evidenza. Per ragioni di spazio ho fatto pochi esempi comparativi tra le caratteristiche tecniche dominanti “Il vecchio e il mare” di Hemingway e quelle espresse negli “Inseparabili” di Piperno, ma naturalmente sarei pronta a portare sul tavolo tali dati, nel dettaglio, in ogni momento. Fino all’ultima virgola o sospensione. Perché ritengo appunto che questi siano gli elementi necessari per stabilire se il critico è serio o no, se la critica è seria o no. E la critica seria non scade mai nel personale. Da questo punto di vista infatti faccio ogni augurio a Piperno e che possa vendere il testo al meglio, o avere tutto il successo che merita.

Il secondo elemento che distingue il critico è il coraggio. Il coraggio di dire ciò che ritiene vero – rispetto alla sua prospettiva di visione – e di firmare, sempre, con nome e cognome il suo scritto. Insomma, di metterci la faccia, bella o brutta che sia. Rispetto a questo argomento voglio andare anche un poco oltre, mettendola in questi termini: se fra dieci anni il romanzo “Inseparabili” di Alessandro Piperno verrà ricordato per un altro motivo letterario valido, oltre quello di avere vinto questa edizione del Premio Strega, io avrò sbagliato la mia critica in toto e meglio sarebbe stato che mi fossi dedicata all’agricoltura. Del resto, sono pure ancora in tempo…».

___________

Nota redazionale 9 Luglio 2012
A seguito delle discussioni nate in calce a questo articolo ho creato un piccolo grafico che dà indicazione del vincitore dello Strega… per Editore. Dal 1947 a oggi.

rinabrundu.com/2012/07/06/ (link non più disponibile)

Statistica aggiornata al 2019

Su 73 edizioni solo 7 volte hanno vinto case editrici minori.
Mondadori, Einaudi e Rizzoli hanno trionfato complessivamente 50 volte!

_ _ _ _ _ _ _

Pare, per di più, che Alessandro Piperno avesse ugualmente accusato parecchi difetti già in precedenza, come si evince da un’altra pagina di Internet.

Alessandro Piperno – Con le peggiori intenzioni
 Premio Campiello opera prima – Mondadori, Milano 2005

Alla fine, l’ho letto. Non volevo, ma l’ho fatto.  Mi hanno incuriosito le reazioni in Rete ai pochissimi accenni critici verso l’opera del nuovo Proust. E cioè scatenamento di difensori avvelenati al grido di: “Chi critica questo capolavoro è solo un rosicone.”

È davvero molto strano perché il romanzo di Piperno tratta sostanzialmente dell’invidia, soprattutto dalla seconda parte in poi (ma anche nella prima) che infatti si intitola: “Quando l’invidia di classe degradò in disperato amore.”
Con le peggiori intenzioni è un libro tristanzuolo, scritto interamente con una sola voce, monotona, lagnosa e poveramente autoironica.
Non è così orrendo come lasciavano presagire i precedenti dell’autore, ma mi sfuggono gli estremi del tanto lodato “capolavoro” (la tattica di darsi per primo dello sfigato per poi darlo a tutti gli altri, dopo un po’, stufa).
Piperno, peraltro, ha un senso dell’umorismo quasi nullo. Trova divertente la storia della cameriera ucraina del nonno che, quando la padrona le dice di “fare il bagno”, invece di pulirlo, si cala nella vasca. Oppure quella dell’alunna che, interrogata sulla regione indiana del Kashmir, risponde che ha preso il nome dai twin set di Burberry’s.
Che ridere.

L’aggettivo preferito di Piperno è “sontuoso”.
(Oltre all’aggettivazione di regola: “il verde pendio”, “la mia oblunga auto”, “lo sferragliante trambusto” del traffico. E naturalmente quando una ragazza esala piacere, sarà con un sospiro “che aveva allo stesso tempo qualcosa di mistico e qualcosa di pornografico”. Eh be’ sì, eh. Mica per niente la santa Teresa del Bernini sta a Roma, insieme a Piperno).

Sentenze cosmiche e non-sensical alla Genna:
“Nulla ha valore senza attesa. L’attesa è Dio.
Non esiste Dio al di là dell’attesa” (p. 215)

Generalizzazioni azzardate e da raccapriccio:
“Tutto quel nutrito segmento di arrapatissimi ebrei che unisce Sigmund Freud a Philip Roth cui avrei dato una bella sistemata nel mio libro antisemita” (cosa dovrebbe sembrare? divertente? arguuuto?)

Gusti femminili disastrosi : l’adorata Gaia Cittadini viene descritta come una Britney Spears, ma più bassa e più grassa (burp), e ripetutamente come un incrocio tra Jacqueline Kennedy e una Madonna pontormesca (ma proprio un mostro, doveva scegliersi come icona sessuale adolescenziale?)
Ha la prima polluzione, chinato per raccattare spiccioli della zia, nel sentire l’odore dei suoi piedi. Da lì, la vocazione al feticismo dei collant e delle calze femminili (burp2).

Confessione:
“È da quando ho scritto quel cazzo di saggio (se contro o a favore degli ebrei nessuno ha capito) che non riesco a scrivere più niente. È triste che un trattatello abbia prosciugato tutte le mie riserve creative [...] È avvilente che, volendo scrivere un saggio, abbia edificato un mausoleo dedicato all’Invidia.” (p. 195)

Quindi, per la legge del contrappasso:
chi ha scritto un ridicolo saggio sull’antiebraismo di Proust, verrà chiamato il nuovo Proust; chi scrive per invidia, accuserà chi lo critica di invidia.
Peraltro, romanzo tradizionale (ma infinitamente più povero del vero romanzo borghese), senza novità (vogliamo considerare novità l’intercalare “cazzo”?) con una visione della vita fondata interamente sull’assioma: “L’erba del vicino è più verde, e allora io gli sfregio il nano del giardino.”
http://lafrusta.homestead.com/rec_piperno.html

I pistolotti di Piperno

 […] I lettori si domanderanno com’è possibile impiegare trecento pagine per raccontare un paio di coiti orali e relativi effetti indesiderati.  Magari! Se a Piperno fosse riuscito un simile esercizio di equilibrismo, a partire dai primi timidi, titubanti approcci sino al trionfo finale della fellatio, inclusi cammin facendo alcuni movimenti di suspence , il libro sarebbe stato insolito,  forse attiguo alla pornografia e verosimilmente privo di un messaggio (benché i messaggi non siano obbligatori, anzi), però bene o male sarebbe stato una storia cioè un romanzo.
Certo, il romanzo è un oggetto maneggevole, suscettibile di essere piegato ad una moltitu-dine di usi, ma temo che sia irrinunciabile la funzione genetica ossia quella di proporre una storia. Ed è qui che Piperno è caduto. È probabile che si sia illuso di aver offerto una pluralità di umane vicende, ma nessuno dei suoi personaggi si imprime nella memoria. Sono tutti volatili, larvali. Attraversano gli anni del miracolo economico, della contesta-zione, del terrorismo, del caso Moro, senza che nulla ne scalfisca la vacuità.
[…]
Lascerei perdere ebraismo e cultura ebraica.  Non hanno  gran peso, a parte l’esistenza sulla diversità tra circoncisi e non, diversità intesa innanzi tutto in senso anatomico: e sconcerta tanta attenzione per il prepuzio e tanta freddezza per la shoah.
[…]
Che cosa rimane dopo trecento pagine di noia (con saltuarie concessioni al pruriginoso e con spreco della voce armata della doppia zeta)? Rimangono il fastidio di sempre per i danni recati dal marketing editoriale, e l’augurio al giovane Autore di ravvedersi. Piperno è intelligente, colto, sensibile, ha capacità espressive persino straripanti: se decidesse di non rifare gli altri e invece di scrivere un vero romanzo, sono sicuro che otterrebbe uno splendido risultato.

Giampaolo Rugarli – “Giudizio universale” – 2/2005


[1] “Filippo non aveva potuto fare a meno di guardare la moglie esterrefatto: com’era possibile che Anna accusasse Carla di aver tenuto un contegno affettato, a fronte di quello tenuto da lei? Senza contare che Carla ne aveva molto più diritto! Ma anche in quella circostanza Filippo aveva preferito tacere.
Finché inevitabilmente Piero aveva subito, come tutti i suoi predecessori, un tracollo di celebrità presso la sua esigentissima sodale. Quando Anna aveva potuto misurare il grado d’infedeltà cui solo un famoso agente avrebbe potuto così spudoratamente indulgere, e quando, d’altronde, aveva capito che Piero, la moglie, non l’avrebbe mai lasciata, aveva iniziato a sparlare di lui (neanche a dirlo, pubblicamente). Dopo tante amorevoli blandizie, dopo tanti panegirici, ora irrompeva la delusione.
E dire che lei lo aveva avvisato: se fosse rimasto con una donna del genere si sarebbe inaridito. E ora guardatelo. Era quasi irriconoscibile: quanta superficialità, quanta volgarità!”…
[2] Io invece sono propenso proprio a crederci!
[3] Ho qualche dubbio su questo.
[4] Forse einsteiniano.
[5] Chissà per quale sciocca ragione la locuzione latina statu quo sarà diventata “status quo”… Per l’esigenza risibile di riportare l’ablativo statu al nominativo per motivi di funzione grammaticale nel contesto italiano? Una pignoleria incomprensibile (ed errata) in tempi in cui la lingua parlata e scritta è piena di spropositi.
Riporto integralmente, dal “supplemento” in appendice alla seconda edizione del Dizionario Latino di Campanini e Carboni (1913, tempo in cui gli insegnanti dei Regi Ginnasi erano di media molto più competenti degli attuali docenti) quanto scritto in merito alla relativa voce: «Statu quo. Nella condizione in cui (si trova). – È una locuzione d’uso frequente nel linguaggio diplomatico per alludere a quel complesso di circostanze e di condizioni in cui si trova una nazione, una città, una categoria di cittadini. Dal linguaggio diplomatico è passata all’uso comune e familiare, nel quale significa che una cosa rimane allo stato in cui si trovava prima: “Dopo molto discutere e dopo varie sedute, la cosa rimase allo statu quo».

Questa voce è stata pubblicata in Archivio generale, Costume, Critica letteraria, Cultura, Letteratura, Prosa e contrassegnata con , , , . Contrassegna il permalink.
Add Comment Register



Lascia un Commento

*
To prove that you're not a bot, enter this code
Anti-Spam Image